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Affrontare i sentimenti oscuri

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04/11/2009

Prof. Roberto Mancini
Docente di Ermeneutica Filosofica, Università di Macerata

Ogni riflessione sulla nostra reale possibilità di dare risposte positive alla sofferenza, al male e persino alla morte non può risolversi in una idealizzazione della libertà umana, ma deve considerare attentamente le insidie, le barriere, le cadute con cui un cammino così arduo deve misurarsi. Tra questi ostacoli, che di solito si presentano dotati di una potenza superiore alle nostre forze quando siamo colpiti da una sofferenza intensa, si può riscontrare la ricorrenza dell’angoscia e della paura. Si tratta di due forze distinte, ma omogenee nella loro radice, che operano come una spada che separa le persone dal positivo che potrebbero attuare, dal bene sperimentabile, dal potere di dare risposte di vita a situazioni di mortificazione. Per questo conviene riflettere sul rapporto che la sofferenza intrattiene con la paura e con l’angoscia. Molte visioni antropologiche ne hanno trascurato la portata. Sostenendo che l’essere umano è animato da un’energia fondamentale, identificata di volta in volta nella volontà di vivere o nell’egoismo, nella volontà di potenza o nell’impulso erotico e nella ricerca del piacere, tali prospettive non sempre hanno saputo riconoscere che proprio sentimenti oscuri come angoscia e paura possono divenire gli ispiratori segreti delle nostre azioni.
Il modo più diffuso di distinguere l’una dall’altra considera la paura come un sentimento di allarme dinanzi a un pericolo determinato, mentre l’angoscia sarebbe una sorta di paura onnilaterale, indeterminata, che investe la persona rispetto ai fondamenti e al senso della sua esistenza. Se la paura colpisce il soggetto per qualche aspetto particolare anche se di grande importanza, per esempio nel caso della paura di perdere il lavoro, l’angoscia lo minaccia integralmente e ne compromette la posizione nel mondo, segnando negativamente il modo di esistere della persona in ogni situazione. Credo però che questa distinzione colga solo alcuni aspetti. La differenza non è solo quantitativa - quella tra una minaccia precisa e una totale - o cognitiva - quella tra una minaccia individuata e una indeterminata e misteriosa -, ma è anche “ontologica”. Perché l’angoscia aggredisce l’essere stesso del soggetto. Infatti la paura, per quanto abbia effetti negativi e porti chi la prova a chiudersi all’ambiente circostante, non nega necessariamente la possibilità di esistere anche secondo altri sentimenti e forme di contatto con la realtà. L’angoscia invece tende a totalizzare la vita interiore e consiste in una sfiducia radicale nell’essere al mondo in quanto essere in relazione. Ogni alterità assume allora contorni minacciosi; ogni rapporto si oscura: con gli altri in genere, con lo straniero, con chiunque abbia una condizione diversa dalla nostra, con il tempo, con il nostro corpo e il suo inesorabile invecchiare, con Dio stesso, con la morte. L’essere umano è un nodo di relazioni, è relazione in se stesso, ma a causa dell’angoscia è mosso da una sfiducia completa che mina ogni forma di relazione. Perciò la sua “sostanza” relazionale di persona è disgregata. Chi è prigioniero di questo sentimento si ritrova in un isolamento mortale e, di solito senza avvedersene, agisce guidato da tale percezione oscura delle cose.
Il tratto comune ad angoscia e paura sta intanto nel fatto che i loro effetti producono un atteggiamento di chiusura e di inibizione delle possibilità di risposta positiva alla realtà. Restringono - angoscia significa angustia - la facoltà di azione e di creazione del soggetto. Quel fenomeno, familiare a molti, per cui ci troviamo nella condizione di capire ciò che sarebbe buono e giusto e al tempo stesso non diamo corso all’azione che lo metterebbe in atto, è dovuto per lo più proprio alla potenza separatrice dell’angoscia e della paura. Esse spezzano in noi l’integrità che correla il cuore e la ragione, l’anima e la coscienza morale, le intenzioni e l’azione; spezzano anche, ogni volta, la relazione di comprensione e di solidarietà tra noi e gli altri. Per questo, in particolare, angoscia e paura inibiscono il potere luminoso della compassione, che è quello di lasciarci coinvolgere dal dolore altrui e di affiancarci a chi soffre in modo da stabilire una compagnia profonda operando tutto il possibile per dare insieme una risposta positiva al male che si sta sperimentando. Inoltre, angoscia e paura tendono a confermarsi a vicenda perpetuando in noi una sfiducia totale nella vita, nella sua origine, nella destinazione che ci attende, in coloro con cui abbiamo a che fare, come pure nelle nostre stesse possibilità.
Certo, sia la paura che l’angoscia possono essere utili e giustificate. Se la paura ci avvisa di un pericolo reale, essa resta un elemento indispensabile alla nostra conoscenza della realtà. Hans Jonas ha parlato in questo senso dell’esigenza di un’“euristica della paura” (H. Jonas, Il principio responsabilità, Torino, Einaudi, 1990, p. 285), cioè di una capacità di trovare e di cogliere i pericoli che minacciano la sopravvivenza dell’umanità per arrivare a scongiurarli, riuscendo così ad agire con autentica responsabilità. L’angoscia, a sua volta, non solo può essere il sintomo eloquente di uno stile di vita inautentico, come sottolinea Kierkegaard, o una tonalità emotiva rivelatrice della nostra reale condizione di esistenza, come vuole Heidegger, ma può darsi anche come angoscia amorevole per la sorte del prossimo, per esempio di una persona cara che si trova in pericolo.
Con ciò voglio dire che non si tratta di scomunicare l’angoscia e la paura. Esse hanno un loro messaggio da decifrare. Voglio dire piuttosto che non possono essere questi i sentimenti che lasciamo acriticamente e inconsapevolmente prevalere. Per essere più chiaro in questa affermazione devo chiarire che, a mio parere, l’unica forza interiore che abbia diritto e che sia davvero in grado di prendere la guida di una persona senza lederne la libertà è l’amore lucido e generoso. Esso saprà operare il giusto discernimento anche dinanzi ai sentimenti più oscuri. Lo ricordo perché, stretto tra l’uso retorico della sua evocazione e, d’altra parte, il preponderante scetticismo nei suoi confronti, l’amore continua a essere sminuito e frainteso nella cultura corrente. La cultura specialistica dei saperi accademici non è molto più avanzata da questo punto di vista. Così, mentre da decenni e sino a oggi quasi non si parla d’altro che di “relazione” nelle scienze umane e anche in molta parte della filosofia, raramente si vede che a fondamento delle relazioni, nel loro respiro e nella luce di cui devono poter vivere, c’è in ogni caso la forza dell’amore. Forza deleteria e persino distruttiva se l’amore è inquinato e ineducato; forza umanamente salvifica se esso ha imparato a divenire gratuito, fedele, paziente, creativo, misericordioso, sistematicamente orientato al bene. Vale tuttora l’osservazione di Maria Zambrano secondo cui “l’amore continua a essere giudicato da una coscienza in cui non c’è posto per lui, dinanzi a una ragione che se lo è negato” (M. Zambrano, L’uomo e il divino, Roma, Edizioni Lavoro, 2001, p. 238).
Quando angoscia e paura non trovano un amore adeguato che le contenga e le sciolga, allora accade che, se si combinano all’impatto del dolore su di noi, esse instaurano uno scenario interiore nel quale soccombiamo. Non si vede più alcuna possibilità di risposta positiva alla situazione di sofferenza in cui ci si trova prigionieri e si finisce per aderire a quella fede nel dolore per cui si crede che il negativo della vita sia la sua sostanza, che al dolore faccia seguito altro dolore e, infine, la morte, che non ci sia compagnia più forte della solitudine in cui ciascuno è gettato. Come se non tanto al male, quanto alla vita in sé non ci fosse rimedio. Si impadronisce di noi un senso di abbandono, di precarietà, di perdita, di interminabile travaglio, di irrilevanza, di morte e di assurda ingiustizia patita. Nel migliore dei casi saremo completamente persi in una paralisi interiore, nel peggiore diverremo feroci nei confronti del prossimo. In breve: il più grande rischio che corriamo non è nel dolore, ma nella paura del dolore; non è nella situazione di sofferenza, ma nell’angoscia che essa secerne come una nebbia assoluta dove l’anima annega.
Va da sé che, come ogni discorso o gesto rivolti al positivo tendono a risultare retorici e vuoti per chi è sotto la pressione del patire, così ogni possibilità di risposta vitale, per quanto realmente esistente, non è percepibile né tanto meno credibile agli occhi di chi vede tutto nelle lenti deformanti dell’angoscia o di una paura divenuta egemone. Per tale ragione ritengo che le vie della solidarietà, della compassione, della misericordia e anche di ogni terapia non puramente farmacologia rimangano sbarrate finché qualcuno non aiuta chi è prigioniero di questi sentimenti oscuri ad affrontarli e a porre un limite nei loro confronti. Non credo si possa esortare un sofferente a uscire con le sole proprie forze da una simile distretta. Occorre semmai stabilire una relazione amorevole di compagnia profonda, un incontro che sappia risalire sino all’anima delle persone. Perché in ultima istanza in noi è l’anima che decide dell’affidarsi o del disperare, del credere in qualcuno o in qualcosa.
Non ho da indicare una procedura di traduzione della vicinanza amorevole. Non mi pare ci siano regole definite una volta per tutte. Ma si può già ritenere che la prossimità amorevole è indispensabile e che essa genera uno sguardo nuovo, un risanamento interiore e, talvolta, anche un mutamento delle cose quando arriva a riorientare il senso del rapporto tra la persona sofferente e il futuro. L’angoscia ci fa credere che il futuro sia chiuso e il suo fatto ultimo sia la morte. L’amore ricevuto da parte chi si fa veramente compagno, anche solo in un tratto di strada della vita, permette al sofferente di vedere un altro futuro, fatto di bene e di comunione tra le persone. E anche nel caso in cui non si creda ad alcuna possibilità di vita ulteriore alla morte, il sofferente può giungere a riscoprire che la cosa più vera e importante non è rispecchiare interiormente la potenza del male, ma tornare ad amare, avere pensiero per qualcun altro. E’ così che si ritrova il senso dell’esistere e si scopre di avere nelle proprie mani un potere di risposta. Dopo di che, paradossalmente, chi è più debole sprigiona una sua forza, chi si sentiva solo ora si preoccupa del bene altrui, chi era inconsolabile diviene fonte di consolazione, chi era disperato diventa fonte di luce per altri. Walter Benjamin ha scritto che “solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza” (W. Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1976, p. 232), ma nelle misteriose correnti d’amore che rigenerano la vita dovremmo riconoscere che è proprio dai disperati risorti dall’angoscia che si sprigiona la speranza più credibile. Chi viveva in condizioni di completa privazione di quella futurità che è il respiro dell’esistenza si fa simbolo vivente non di un qualsiasi avvenire, ma di un futuro buono, la cui credibilità risulta attestata dalla risposta di bene data proprio dal sofferente. Ha scritto Borges che “il futuro non si decide mai a essere presente del tutto senza prima fare una prova e questa prova è la speranza” (J. L. Borges, La misura della mia speranza, Milano, Adelphi, 2009, p. 15). Ma è chiaro che deve trattarsi, perché la prova regga, della speranza di chi conosce la sofferenza e la sconfitta che essa arreca, di chi insieme ad altri ha attraversato l’angoscia e la paura.
Il confine esatto della svolta, che eventualmente può avere luogo grazie all’incontro solidale tra due o più persone, è individuabile nella rinascita del desiderio. Parlo del viscerale desiderio puro del cuore umano, che è desiderio di liberazione dal male e di comunione nel bene. Desiderio di amore ricevuto, ricomunicato, condiviso. Se angoscia e paura soffocano anzitutto proprio il desiderio puro, questo, una volta rinato, toglie i sentimenti oscuri e permette di riconoscere, con il bene possibile e credibile, il valore degli altri e della relazione con loro. Allora non c’è più la solitudine mortale dell’angoscia, perché invece ciascuno può essere amato nella sua unicità e nella comunione in cui, dopo tutto, ci si riconosce uguali. Fratelli, sorelle. Come recita un verso di Wisława Szymborska: “Cercheremo un’armonia, / sorridenti, fra le braccia, / anche se siamo diversi / come due gocce d’acqua” (W. Szymborska, Nulla due volte, in La gioia di scrivere. Tutte le poesie 1945-2009, Milano, Adelphi, 2009, p. 45). Sono parole che possono risuonare anche in una stanza d’ospedale, o tra quanti sono nel lutto. Persino tra quelli che si credevano nemici.

Biografia

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.
Oltre a circa 200 articoli e saggi brevi di etica, antropologia filosofica, teoria della verità e filosofia della religione, ha pubblicato i seguenti volumi:
- L’uomo quotidiano, Marietti 1985;
- Linguaggio e etica, Marietti 1988;
- Comunicazione come ecumene, Queriniana 1991;
- L’ascolto come radice: teoria dialogica della verità, Edizioni Scientifiche Italiane 1995;
- Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella 1996;
- Il dono del senso, Cittadella 1999;
- Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon 2002;
- Senso e futuro della politica, Cittadella 2002;
- L’uomo e la comunità, Qiqajon 2004;
- Il senso del tempo e il suo mistero, Pazzini 2005;
- L’amore politico: sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella 2005;
- Esistere nascendo: la filosofia maieutica di Maria Zambrano, Edizioni Città Aperta 2007;
- L’umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell’età della globalizzazione, Pazzini 2008.
In collaborazione con altri autori ha inoltre scritto “Etiche della mondialità” (Cittadella 2007).
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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