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Entrare nell'esistenza dell'altro

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06/10/2010

Tratto da:
Alexandre Jollien, Elogio della debolezza, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 2001, p. 37-42

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In un dialogo immaginario con Socrate, Alexandre Jollien – cerebroleso dalla nascita, scrittore e filosofo – rievoca i 17 anni vissuti nel centro per portatori di handicap di Sierre (Svizzera), sua città natale. Dal sobrio racconto emerge l’importanza della condivisione e dell’empatia, che portano a «non dilapidare il tempo in dispute inutili», ma a sostenersi «gli uni gli altri per meglio affrontare la prova, per assumere insieme l’isolamento di ciascuno».
Ruedi Imbach, docente di Filosofia all’Ateneo di Friburgo, sottolinea nella prefazione che il libro di Jollien «è una straordinaria prova della capacità di adattamento dell’essere umano, ma soprattutto espressione di un’ostinazione incrollabile a “rimanere in piedi”, a trovare un senso alle esperienze della vita». E riferendosi all’episodio che proponiamo, aggiunge: «E’ anche un libro sul valore dell’amicizia. Sulla sua necessità, anzitutto: nel corso della lettura ci si rende conto che le amicizie hanno reso sopportabile la vita nell’istituzione; poi, sui suoi benefici: l’autore riferisce quella scena, indimenticabile per lui e commovente per il lettore, in cui, dal fondo del letto, il suo amico Jérôme, che sa a mala pena parlare, si preoccupa della condizione del suo compagno. E’ una scena chiave del libro perché svela, al cuore della debolezza, la benevolenza che vivifica».
Dedichiamo questo passo ai bambini colpiti da handicap, e ai loro genitori. In questo libro autenticamente filosofico, perché ci obbliga a “guardare altrimenti”, potranno trovare uno stimolo a ripensare le categorie del normale e dell’anormale, e il ruolo dell’amore al cuore del dolore. Un amore che, seppur assoluto, non può prescindere dall’accettazione profonda che, come ogni figlio, anche un bimbo con handicap è «una freccia in mano a un eroe» (Salmo 127,4) e che il suo destino è solcare veloce il cielo della vita. Sottolinea a questo proposito Jollien: «Spesso bambini con il medesimo handicap fanno progressi diversi a seconda del quadro familiare. Mi ricordo quanto criticarono aspramente una madre: dando fiducia a suo figlio, l’aveva lasciato prendere il treno da solo, nonostante nel suo modo di camminare fosse più simile a un automa che a un comune mortale. Immagino che non l’avesse fatto a cuor leggero... Si vedono mamme che, per amore, non si staccano di un centimetro dal loro bambino. L’amore, come il disprezzo, può rivelarsi un freno per i progressi. Parlo solo della mia esperienza personale, che non voglio generalizzare. Semplicemente, constato che la fiducia è stata vitale nel mo itinerario».
Alexandre: Il Centro rigurgitava di anomalie: io che biascicavo le parole e barcollavo allegramente; Philippe che a diciotto anni era alto meno di un metro; Jérôme che non poteva né parlare né camminare, e Adrien che soffriva di un ritardo mentale ed emetteva dei suoni praticamente impossibili da decifrare. Nulla ci univa, eppure tutto ci riuniva. Insieme potevamo tollerare meglio l’intollerabile della nostra situazione; per questo stavamo ben attenti a non dilapidare il nostro tempo così prezioso in dispute inutili, in vane meschinità. Ci sostenevamo gli uni gli altri per meglio affrontare la prova, per assumere insieme l’isolamento di ciascuno.
Socrate: Potresti sviluppare questa idea di sostegno, di aiuto?
Alexandre: Paradossalmente, faccio fatica a spiegartela. Con Adrien, per esempio, il dialogo si limitava a: “Bel golf, bei pantaloni, come stai?”.
Socrate: Banalità?
Alexandre: Per nulla. La domanda: “Come stai?” era vitale per noi.
Socrate: Davvero?
Alexandre: Con un “come stai?” entravamo nell’esistenza dell’altro, prendevamo su di noi le sue sofferenze, comunicandogli così la nostra amicizia...
Socrate: Non stai esagerando?
Alexandre: Non credo. Anche se è chiaro che sto descrivendo una situazione molto particolare. Non dimenticare che la maggior parte di noi aveva difficoltà di comunicazione. Di conseguenza, sviluppavamo i nostri codici e il nostro linguaggio.
Spesso alla sera, smarrito nei miei pensieri, invidiavo la sorte degli altri bambini: dormivano a casa propria, condividendo piacevoli momenti in famiglia. Io invece me ne stavo là, solo, senza sicurezze. Una luce fioca rischiarava il dormitorio silenzioso, occupato da personaggi curiosi: un nano, che dormiva con i pugni chiusi – aveva dodici anni e gliene avresti dati sei; un muto, che non parlava ma che non per questo rinunciava a russare sonoramente; di fronte, Jérôme, dallo sguardo profondo, che mi osservava attentamente. Una volta, con sforzo sovrumano e voce spenta, mi lanciò un: «Comme tai?».
L’idea che Jérôme, paralizzato in fondo al letto, si inquietasse per le mie infime preoccupazioni mi sconvolge ancora oggi. Non mi aveva fatto discorsi sul coraggio, sulla necessità di pensare positivo come propone la letteratura edificante, ma con parole semplici – “Comme tai?” – aveva detto tutto. Il suo sostegno era totale.
Jérôme non poteva far nulla fisicamente. Dopo aver valutato le sue potenzialità, lo qualificavano tranquillamente come “non redditizio”. Eppure mi ha insegnato, meglio di chiunque altro, il duro “mestiere di uomo”.
Socrate: Cosa intendi esattamente con questa espressione?
Alexandre: Al Centro, prendevamo rapidamente coscienza del fatto che non ci sono mai acquisizioni definitive nella vita. Ogni giorno dovevamo rimetterci all’opera, risolvere le difficoltà, una a una, assumere la nostra condizione, restare in piedi. Ecco il nostro lavoro, la nostra autentica vocazione, quello che io chiamo – in mancanza di meglio – il mestiere di uomo...
I miei compagni, Jérôme e tanti altri, mi hanno educato. A modo loro hanno contribuito a svelarmi la grandezza umana, non con singoli gesti, ma con la loro stessa esistenza. Quello che grandi psicologi si sono sforzati di inculcarmi con argomentazioni copiose ed erudite, Jérôme me l’ha offerto molto semplicemente con la sua sola presenza... Quando mi chiedeva come stavo, Jérôme voleva semplicemente manifestare che era contento che io esistessi, che era contento di esistere, nonostante il carattere sfigurato delle nostre esistenze. Jérôme scendeva nel più profondo della realtà per assumerla interamente. Per accettare la nostra condizione, mi indicava che dovevamo nutrirci, servirci della nostra esperienza vissuta, della nostra debolezza ... Nessun educatore ha potuto insegnarmi questo.

Biografia

Alexandre Jollien nasce nel 1975 a Sierre, in Svizzera, nei pressi di Lausanne. Soffocato dal cordone ombelicale, nasce affetto da atetosi, una sindrome neurologica caratterizzata da movimenti lenti, irregolari, continui, soprattutto della faccia e delle estremità degli arti. A tre anni viene ricoverato in un centro specializzato, ove rimarrà per diciassette anni. Nonostante il grave handicap, nel 1993 si iscrive a un istituto commerciale. Colpito da un passo di Platone sul senso della vita, si iscrive prima al Lycée-Collège de la Planta, a Sion, e poi all’Università di Friburgo, ove nel 2004 si laurea in Lettere e Filosofia con una tesi sulla terapia dell’anima nel “De consolatione philosophiae” di Boezio (V-VI secolo d.C.) Precedentemente, dal 2001 al 2002, aveva studiato greco antico al Trinity College di Dublino.
Scrittore di successo, ha pubblicato sinora quattro libri: Elogio della debolezza (1999), Il mestiere di uomo (2002), La costruzione del sé (2006) e Il filosofo nudo (2010). L’audiolibro “Alexandre Jollien, la filosofia della gioia” (2008), è una raccolta di interventi radiofonici e conferenze, curata da Bernard Campan.
Nella prefazione all’edizione italiana di “Il mestiere di uomo” (Edizioni Qiqajon, 2003), Guido Dotti scrive: «Esperto di pesi che condivisi diventano leggeri, Jollien assimila la sofferenza all’arte di cavarsela: nessuna accettazione della sofferenza in sé, nessun autocompiacimento masochista, ma la consapevolezza, maturata sulla propria pelle, che solo l’affrontare le difficoltà a viso aperto, il non sottrarsi alle sfide che la vita quotidiana non cessa mai di porre, permette di venirne fuori, magari feriti e doloranti, ma arricchiti di una capacità di compassione e di solidarietà con chi continua a dibattersi nella lotta. Davvero, come aveva luminosamente intuito il poeta Robert Frost, di fronte a ogni difficoltà, a ogni momento buio, a ogni enigma incomprensibile alla ragione, “la miglior via di uscita è sempre passarci in mezzo”: nessuna scappatoia, ma l’assunzione della fatica di vivere con la sola certezza che “tutto è da costruire con leggerezza e gioia”...».
Sposato con Corine, conosciuta a Dublino durante un periodo di studio, Alexandre ha due figli: Victorine, nata nel 2004, e Augustin, nato nel 2006. «Oggi – afferma nel suo sito – tento di vivere a fondo le tre vocazioni che la vita mi ha donato: padre di famiglia, persona handicappata e scrittore».

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