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L'etica come risveglio

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24/03/2010

Prof. Roberto Mancini
Docente di Ermeneutica Filosofica, Università di Macerata

Facilmente possiamo essere feriti, colpiti, stanchi, oppure privati di relazioni, doti e possibilità di vita buona dal processo dall’invecchiamento. Siamo esposti, dalla nascita, all’aggressione della morte. Per la nostra costitutiva apertura al meglio, per il sogno di vita vera che solo può ispirare l’esistenza e darle il giusto respiro, per la “suscettibilità” tipica del corpo, per la sensibilità del cuore e dell’anima, per la richiesta di senso che viene dalla ragione, tutto questo resta uno scandalo. E lo scandalo della fragilità, da sempre, spinge spesso gli uomini verso la volontà di non vedere, di non sentire, di negare la sofferenza degli altri e il sistema di iniquità che la produce, al di là delle sventure imponderabili e accidentali. E’ noto come ci si difenda dalla penosa percezione della debolezza in se stessi attraverso l’attribuzione di quella debolezza agli altri, disprezzandola in loro e facendone la conferma del nostra forza e del nostro “merito”. Rispetto a se stessi, molti si comportano come se non fossero nati per una promessa di felicità, per una pienezza di umanità, ma solo per evitare il più possibile di sentire il dolore. Obbedendo così, per tutta la vita, alla paura del dolore, che diventa allora la vera regista di ogni scena dell’esistenza.
Il dolore è un’antienergia potentissima e, appunto, la paura del dolore è l’energia che immediatamente ne consegue. Questo tipo di energia costruisce difese, barriere, sistemi di vita, civiltà, credenze religiose, forme economiche e politiche, senza mai consentire però agli esseri umani di generare una vera risposta alla fragilità e al male stesso che origina le nostre sofferenze. La paura del dolore può, entro certi limiti, approntare qualche tipo di narcotizzazione o di anestesia. Può addormentarci di fronte alla realtà. Quello che proprio non può fare è destarci, restituirci la libertà di dare la nostra risposta alla vita. Credo che questa, unita all’angoscia dinanzi alla mortalità – estrema fragilità del nostro essere –, sia la radice interiore dell’egoismo di massa e del cinismo come ideologia. Queste sono le due gigantesche pietre tombali che, unite alla mancanza di veri e diffusi processi educativi della persona e del cittadino, impediscono tuttora ogni risveglio della vita sociale e civile. Finché le condizioni dell’esistenza per la gran parte degli individui sono queste, il confronto con il dolore, con la sofferenza, con il male finisce per essere quasi sempre perdente perché ci mancano una spiritualità e una cultura della felicità. Felicità che – inconfondibile con le situazioni della fortuna, del privilegio, del lusso, del mero “benessere” materiale – è vita buona condivisa e proprio per questo capace di dare risposte solidali, umane, profetiche anche all’aggressione che ci viene dal male e dalla malattia.
E’ tenendo conto di uno scenario simile che mi viene in mente con grande evidenza l’esigenza di far conoscere alle persone “normali” (sia detto con tutte le virgolette del rispetto che deve impedire di giudicare qualsiasi persona secondo lo schema normale/anormale), al di là della cerchia degli studiosi, il pensiero di Emmanuel Lévinas. Anche perché persino nell’ambito degli specialisti di studi filosofici la luce di questo pensiero viene spesso ridotta all’opacità di qualche formula stereotipa, del tipo “l’etica come filosofia prima”, “la responsabilità per l’altro”, “il primato del volto” e così via. In un paese come l’Italia contemporanea, poi, parole del genere vengono sbrigativamente liquidate come espressione di “buonismo”, termine che nell’ottica del cinismo di massa serve a formulare la massima accusa che si può fare alle idee di qualcuno.
Lévinas, nato a Kaunas in Lituania nel 1905 e morto a Parigi nel 1995, ha attraversato l’intero Novecento con tutte le sue tragedie e proprio per questo ha cercato di aprire il sentiero di una cultura che riesca a spezzare la spirale distruttiva fatta di indifferenza, persecuzione, sterminio, camere a gas, campi di concentramento, bombe atomiche. Il compito che investe chi, come lui, è sopravvissuto alla Shoà è quello di una memoria attiva, che lotta ogni momento per liberare il pensiero dalla violenza che si radica anzitutto nei cuori e nella ragione. La grande sorgente di questa filosofia è la tradizione profetica che si esprime nella Torah e poi nei commenti del Talmud, nonché nella vicenda simbolica e universale di Israele.
Il profetismo biblico rappresenta per lui l’invito permanente, anche per la filosofia, a non chiudersi nello statuto di un amore per la sapienza, divenendo piuttosto e più radicalmente sapienza dell’amore. “Amore” è parola che Lévinas usa con estrema parsimonia e che egli condensa nell’indicazione seguente: l’amore è la preferenza per l’altro (cfr. E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Milano, Jaca Book, 1998, pp. 137-156). Si tratta di un amore etico non perché sia imbrigliato da regole e procedure. In Lévinas non c’è nulla di moralistico. E’ un amore etico, invece, in quanto si apprende nell’esperienza dell’etica, che per lui non è affatto una teoria morale, perché è essenzialmente l’esperienza concreta dell’incontro con l’altro. Dal suo volto mi raggiunge irrecusabilmente il comando “non uccidere!”. Un divieto fondamentale che però non può restare semplicemente un divieto: nella vita reale esso si dispiega e si svolge come un dovere di cura positiva, di attenzione, di dedizione nei confronti sia del “tu” che ho davanti, sia del “terzo”, cioè di chiunque altro. Non è un peso che si impone da fuori all’io del soggetto, è la rivelazione del dato originario per cui siamo costituiti nella relazione interpersonale e nella responsabilità. Scoprirlo è come risvegliarsi, è nascere alla vita vera, che inizia quando smetto di porre il mio io come centro del mondo, come tiranno interiore, come criterio e misura di ogni cosa.
La chiave di questa prospettiva sta in un’ermeneutica incrociata: Lévinas interpreta l’etica in modo biblico, secondo la memoria del fatto che servire Dio significa praticare la giustizia verso lo straniero, l’orfano, la vedova. Il contrario esatto di chi rimane prigioniero dello scandalo della fragilità. Nel contempo, interpreta la Scrittura in modo etico, cioè si libera di ogni incrostazione sacrale e clericale, ritualista e fondamentalista, cogliendo invece in essa l’appello costante di Dio alla fraternità verso tutti. Ne deriva che l’etica è la pratica della giustizia dell’amore e che solo così noi partecipiamo alla relazione con il Bene, che è la fonte di ogni vita ed è la verità invano cercata dalle filosofie che immaginano la ragione come un organo neutrale. Il Bene ci investe di questa responsabilità incondizionata. Responsabilità che riguarda me, per primo e in prima persona, senza che io possa nascondermi dietro l’attribuzione della responsabilità stessa ad altri, o dietro la sua parcellizzazione in quote che decido io, oppure dietro la rivendicazione della reciprocità di trattamento. E senza che possa rovesciare questa responsabilità in qualche forma di sovranità o di dominio del mio io. Aderire a questa responsabilità costitutiva e incondizionata, che è l’autentica traduzione dell’amore, non significa restare schiacciati o schiavi. “Nessuno è schiavo del bene”, scrive Lévinas (Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano, Jaca Book, 1987, p. 15), sottolineando che assumere pienamente, fino in fondo, la responsabilità significa nascere davvero, giungere alla propria unicità di soggetto.
Dinanzi alla sofferenza, di qualunque origine, la responsabilità etica diviene prossimità, cura, compassione, dedizione, misericordia, fino all’estremo confine di quella che l’autore chiama “sostituzione”. Essa incarna lo svolgimento completo della dinamica della responsabilità, per cui io arrivo a sostituirmi all’altro perseguitato, all’altro aggredito, e faccio di me stesso la protezione vivente che, per quanto possibile, mette l’altro al sicuro. “Sostituzione” non vuol dire usurpazione, sottrazione della libertà altrui, ma dedizione estrema, amore fedele fino in fondo: dare la vita perché l’altro sia salvo. Del resto Lévinas non immagina neppure una onnipotenza della sostituzione: è vero infatti che ci sono situazioni, come quella del dolore fisico oppure del lutto, in cui io non posso propriamente sostituirmi all’altro. L’autore vuole indicare però la direzione dell’etica come dinamica concreta di azione e di vita, vuole evidenziare il valore dell’andare fino in fondo e della disponibilità senza riserve.
Il senso della sostituzione, da cogliere non in uno spirito di una onnipotenza ma nello spirito dell’esposizione estrema, si delinea nel suo confine più arduo, la sostituzione nei confronti dell’altro colpevole, dell’altro malvagio. Per Lévinas compassione e misericordia non possono liquidare le esigenze della giustizia verso le vittime del male. Ciò non significa che egli attenui il valore della compassione misericordiosa. L’autore ne illumina il valore mostrando che la compassione non è il frutto di un semplice sforzo di volontà, non è “inventata” dal soggetto. In realtà ognuno deve apprenderla dagli altri. E’ proprio la sofferenza altrui a insegnarmi questa apertura del cuore e della coscienza. Solo nel cammino di un simile apprendimento si riesce a farsi carico del patire del nostro prossimo. Riprendendo il messianismo della fede di Israele Lévinas ritiene che la compassione sia il nucleo dell’umile esperienza messianica, in cui la vera attesa del Liberatore nella storia si attua come un prendere su di sé la sofferenza degli altri. “Il Messia è il re che non comanda più dal di fuori (…). Il Messia sono io, ed essere Io è essere Messia. Si vede dunque che il Messia è il giusto che soffre, che egli ha preso su di sé le sofferenze degli altri (…). Il messianismo non è la certezza della venuta di un uomo che arresta la storia: è il mio potere di sopportare la sofferenza di ognuno” (E. Lévinas, Difficile libertà, Milano, Jaca Book, 2004, pp. 116 e 117). Con questa responsabilità il soggetto non usurpa l’identità del Messia, né tanto meno quella di Dio; piuttosto ne partecipa, preparando quella consolazione volto per volto che solo Dio può compiere.
Per Lévinas la compassione e la misericordia vissute senza riserve si danno appunto nella sostituzione. Si prefigura qui la pazienza assoluta di chi accetta su di sé non solo la sofferenza di quelle di solito vengono dette vittime innocenti, ma anche la colpa altrui. Questa non è cancellata o dimenticata: è riconosciuta, ma liberamente assunta dalla vittima. Senza distruggere la legge, la misericordia offre una possibilità ulteriore. Scrive l’autore: “Chiedere nella sofferenza subita questa sofferenza (…) non significa trarre dalla sofferenza una qualche virtù magica di riscatto, ma passare, nel trauma della persecuzione, dall’oltraggio subito alla responsabilità per il persecutore e, in questo senso, dalla sofferenza all’espiazione per altri” (E. Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 139). Non è una compassione selettiva, volta alla sofferenza ma non alla colpa. Proprio la vittima, da un lato, è l’unica a poter spingersi sino alla sostituzione anche nei confronti di chi commette il male. Dall’altro, chi arriva sino a questo punto condivide la sofferenza stessa di Dio per il male del mondo e testimonia della verità della sua Parola, che annuncia: “Avrò misericordia per coloro che dalla misericordia furono esclusi” (Os 2, 25, citato da Emmanuel Lévinas nel libro Nell’ora delle nazioni, Milano, Jaca Book, 2000, p. 6).
La compassione misericordiosa è sostituzione e questa porta frutto come espiazione. Con tale parola non si indica un pagamento, ma una liberazione: espiare significa trattenere il male presso di sé, quasi disinnescarlo, affinché l’altro possa sperimentare di nuovo il bene. In questo senso è una sorta di “gestazione dell’altro” (E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 132). Così la sostituzione, anziché fare della sofferenza in sé un principio salvifico o una prova da offrire a Dio, realizza una dinamica restitutiva della realtà del bene. Non si tratta di far piacere a Dio con prove estreme di sofferenza, ma di esistere in modo che nessuno soffra più. E’ così che Dio stesso agisce. Si comprendono allora queste parole di Levinas: “E’ in questo surplus della sofferenza di Dio sulla mia sofferenza che risiederebbe l’espiazione, è nella sofferenza di Dio che si compie il riscatto dalla colpa fino alla cessazione della sofferenza” (E. Lévinas, Nell’ora delle nazioni, cit., p. 147).
Di fronte a una simile visione della condizione umana, molti arretrano, restano irritati, giudicano esagerata ed esorbitante la pretesa dell’etica levinasiana. Eppure questo sguardo sulla realtà mi sembra l’inizio della vera lucidità e l’esodo dalla malafede anzitutto con noi stessi. Il che vale soprattutto nel confronto di ciascuno con la sofferenza, propria e altrui. Il pensiero di Lévinas ci indica la via dell’etica come risveglio e come duplice nascita: nascita dell’io alla responsabilità e alla sua autentica libertà, ma anche nascita dell’altro oltre il male. Seguire le tracce del senso della compassione misericordiosa conduce al dinamismo fondamentale delle doglie del parto di un’identità umana radicale. Si capisce allora, nonostante i deliri religiosi, ideologici e nazionalisti, che la terra promessa non è un pezzo di terra da difendere con la violenza, è l’umanità rinnovata. Ossia l’umanità divenuta radicalmente nuova perché, avendo ripudiato la fraternità al modo di Caino, è finalmente nata alla fraternità secondo il Bene.

Biografia

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.
Oltre a circa 200 articoli e saggi brevi di etica, antropologia filosofica, teoria della verità e filosofia della religione, ha pubblicato i seguenti volumi:
- L’uomo quotidiano, Marietti 1985;
- Linguaggio e etica, Marietti 1988;
- Comunicazione come ecumene, Queriniana 1991;
- L’ascolto come radice: teoria dialogica della verità, Edizioni Scientifiche Italiane 1995;
- Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella 1996;
- Il dono del senso, Cittadella 1999;
- Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon 2002;
- Senso e futuro della politica, Cittadella 2002;
- L’uomo e la comunità, Qiqajon 2004;
- Il senso del tempo e il suo mistero, Pazzini 2005;
- L’amore politico: sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella 2005;
- Esistere nascendo: la filosofia maieutica di Maria Zambrano, Edizioni Città Aperta 2007;
- L’umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell’età della globalizzazione, Pazzini 2008.
In collaborazione con altri autori ha inoltre scritto “Etiche della mondialità” (Cittadella 2007).
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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