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La noia, figura della morte

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04/08/2010

Tratto da:
Xavier Thévenot, Avanza su acque profonde!, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 2001, p. 49-54

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Noia come non senso, come cedimento al dominio dell’assurdo, come atteggiamento profondamente immorale verso la vita, come impulso ad “ammazzare” il tempo, anziché assumerlo e farlo fruttare. E’ questo, in sintesi, il pensiero di Xavier Thévenot, sacerdote e teologo, su uno degli stati d’animo più diffusi della nostra epoca, vero “buco dell’essere” che rende vuote le giornate e colma di sofferenza il cuore. Spesso anche durante una vacanza a lungo attesa, come molti forse sperimentano in questi caldi giorni d’agosto.
Tre le strategie improduttive contro la noia, il cui etimo assai significativamente rimanda al latino “odium”: «soffocare sul nascere le questioni circa il senso della vita», sovraccaricandosi di lavoro o distrazioni superficiali; coltivare la nostalgia dei momenti ben spesi del passato, per tacitare l’inquietudine legata all’incognita del futuro; accumulare affannosamente sensazioni che compensino il senso di vuoto, prime fra tutte quelle legate all’oralità dell’infanzia come il mangiare o il bere, spinti però all’eccesso.
La battaglia contro l’assurdo radicato nella noia si vince invece con il «ricercare e accogliere tutto ciò che può essere portatore di senso, così come tutto ciò che porta noi stessi a creare senso». Un’arma alla portata di tutti, anche di chi sia stato toccato da prove gravi come la malattia, la vecchiaia, la solitudine: solo che in questo caso la sfida richiede un lavoro ancora più umile, lungo e faticoso, un lavoro che consiste nel saper trovare «miniere di senso là dove uno sguardo veloce e superficiale non è capace di scorgerle» e nello scoprire che la banalità di cui tante volte paiono intessuti i giorni della nostra vita, spesso, «è meno banale di quanto non sembri».
Quando si è ammalati, a volte le giornate sembrano lunghe, molto lunghe. La noia rischia quindi di fare, a ogni momento, la sua comparsa. Ora, essa è sempre stata per me una delle figure che più evocano la morte. Rappresenta, infatti, una sorta di sospensione del tempo: «Non succede più nulla»; un buco nell’essere: «Le mie giornate sono vuote». Le giornate di chi si annoia non hanno né sensazioni, né direzione, né significato, in una parola non hanno senso, si trasformano in un uggioso deserto che ben presto diventa odioso. D’altronde l’etimologia insegna che “noia” (in francese “ennnui”, dal latino “inodiosum”) e “odioso” rimandano allo stesso termine latino: “odium”, l’odio.
La curiosa assonanza in francese tra “ennui” (noia) e “en nuit” (di notte) è forse qualcosa di più di un semplice gioco di parole. Chi è malato lo sa meglio degli altri: lui, che spesso trascorre notti nerissime proprio perché le passa in bianco!
Si vede anche qui come la lingua tenti di raccontare quello che si vive nella noia con la simbolica dei colori! Non si parla forse del “grigiore della vita” per designare una vita monotona, cioè vissuta nell’uniformità di giorni che si susseguono, uno dopo l’altro, instancabilmente identici a se stessi?
Allora di fronte al vuoto della noia, la strategia più classica è tentare di “ammazzare il tempo”: espressione che fa emergere bene, peraltro, come la noia abbia un qualche rapporto con l’odio. Ma ognuno di noi sa che il tempo non va ammazzato, bensì “sposato”. Il tempo esige che si instauri con esso un rapporto di accoglienza e di adeguata padronanza.
Cercare di ammazzare il tempo porta a diversi tipi di condotta.
Un primo comportamento, di gran lunga il più frequente, è quello di chi si sforza di soffocare sul nascere le questioni circa il senso della vita. Allora si occupa il proprio tempo come si riempirebbe uno spazio troppo largo, tanto da arrivare a dire: «Non ho più il tempo per volgermi indietro». Il problema, in realtà, è che la noia ci rimanda sempre a noi stessi. E questo a volte svela zone della nostra storia che sono ben lungi dall’esser degne di ammirazione. Si prova, a quel punto, odio verso se stessi. Allora, per evitare sentimenti tanto difficili e complessi, ci si sovraccarica di lavoro, o almeno ci si agita. Pascal direbbe che si cerca il divertissement: la distrazione, il divertimento. Questo ci evita di guardare in faccia le cose, e ci permette di conservare un’immagine abbastanza buona di noi stessi. Ma un’agitazione così fasulla non può durare a lungo, se non altro per la fatica e per il senso di dispersione che essa genera. Perciò l’interrogativo riguardante il senso finisce quasi sempre per uscire vittorioso da tale lotta finalizzata a metterlo a tacere. «Lascia che compia il mio lavoro in te», sembra dirmi.
Un secondo tipo di comportamento consiste nel coltivare all’infinito la nostalgia dei momenti riusciti e ben spesi del nostro passato. Per affrontare l’incognita del futuro e l’insicurezza che esso genera ci si fonda, in modo molto legittimo del resto, sulle esperienze positive che abbiamo vissuto. Esse sono la prova che abbiamo risorse sufficienti per uscire vittoriosi dalle lotte che l’esistenza ci pone innanzi. Ma quando la noia si prolunga, è un po’ come se, non potendo più investire sul presente o sul futuro, si finisse per investire in modo eccessivo sul passato. Da qui la tentazione di abbellirlo, di compiacervisi, o di raccontarlo spesso e volentieri a colui che ci sta accanto. A tal punto che il malcapitato a poco a poco si stanca, finisce per evitarci, e alla fin fine non è più in grado di ascoltarci neppure quando pronunciamo una parola nuova!
Terzo tipo di condotta: la regressione tramite la ricerca di sensazioni. La lingua, utilizzando lo stesso termine “senso” per designare sia il significato, sia la facoltà del corpo di percepire realtà a lui esteriori, ci mette sulla strada di quella verità antropologica che spesso viene ricordata dai filosofi: nessuna cosa che non sia stata percepita prima dai sensi può creare senso. Significato e sensazione sono intimamente legati. Perciò è normale che vi sia una sorta di panico dei sensi quando il senso della vita viene colpito dall’esperienza della noia. Tutto è accettabile, fuorché l’assenza di sensazioni! Al punto che si arriva ad augurare a se stessi di “avere delle noie” per uscire dalla noia! O che si cerca di riattivare sensazioni di godimento sperimentate nella prima infanzia: ad esempio quelle dello stadio orale, che spingono a mangiare o a bere fino all’eccesso. O infine, che si comincia a somatizzare: i mali del corpo prendono il posto delle parole.
La persona che si annoia viene dunque messa a confronto con la complessità del proprio essere. Viene guidata molto rapidamente a riconoscere il terreno pulsionale nel quale si radicano le sue passioni e le sue virtù. Scopre umilmente come il proverbio “l’ozio è il padre di tutti i vizi” contenga una parte di verità, e percepisce comunque maggiormente la precarietà del confine tra il vizio e la virtù. Infine intuisce che la vita morale, che consiste nello scegliere di dar senso al tempo che passa, può legittimamente essere definita come una lotta contro l’in-sensatezza della noia. Capiamo allora come il lasciare che la noia si stabilisca in noi e il non aiutare il nostro prossimo a lottare contro di essa siano atteggiamenti profondamente immorali. Infatti è come tollerare che l’assurdo possa prima o poi diventare l’ultima parola sull’esistenza. Il nostro Dio, Dio dei viventi (cf. Lc 20,38), che inaugura una tumultuosa storia di liberazione (cf. Es 20,2), non potrebbe mai accettare una cosa simile! Seguirlo, come suggerisce la lettura di innumerevoli racconti biblici, significa sempre entrare in una storia che, malgrado la traversata di certi monotoni deserti, si rivela sorprendente.
Simili riflessioni nascono in me quando devo confrontarmi con la noia. Esse hanno certamente l’effetto di respingerla per alcuni istanti! Ma non si può sperare di vincerla in modo duraturo filosofeggiando su di essa, perché il tratto più caratteristico della noia profonda è che essa mina alle radici la stessa volontà - o meglio velleità - di uscirne! C’è sempre, nella noia, una certa parentela con l’interrogativo: “A che pro?”. Questo non dovrebbe stupire, perché la noia è un’esperienza dell’ assurdo.
Allora quale strategia usare per lottare contro la sua forza devastante? La risposta sembra evidente: non permetterle di stabilirsi in noi; ricercare e accogliere tutto ciò che può essere portatore di senso, così come tutto ciò che porta noi stessi a creare senso. Ma questa è la risposta di una persona che sta bene, nel pieno possesso delle proprie facoltà fisiche, psichiche e spirituali, e che può dunque accedere facilmente a luoghi di senso: un interessante lavoro manuale o intellettuale, una ricca vita relazionale e affettiva, una reale fecondità educativa o culturale, una vita associativa appassionante, una scoperta sempre più grande di Dio, eccetera. Invece la persona toccata da una o da diverse prove come la disoccupazione, la malattia, la vecchiaia, l’isolamento, l’assenza di fede, percepisce subito come questi luoghi di senso purtroppo non siano automaticamente a sua disposizione. In tali condizioni, perciò, la guerra contro la noia si prospetta difficile, specie se l’ambiente in cui la persona vive tende a non esprimere una solidarietà creativa. Questa guerra sarà fatta di battaglie perse e di modeste vittorie. Richiederà sempre un umile e lungo lavoro su di sé, che consisterà nel saper scoprire miniere di senso là dove uno sguardo veloce e superficiale non è capace di scorgerle.
In particolare, più la persona vede ridursi il proprio campo d’azione e l’ambito delle proprie relazioni, più deve scavare profondamente all’interno di se stessa, e imparare a guardare in modo diverso le piccole cose che sono ormai il suo destino quotidiano. Potrà allora scoprire che la banalità è meno banale di quanto non sembri. Aprirà a se stessa in tal modo un umile ma autentico cammino di contemplazione. Non solo, ma se si tratta di un cristiano, sarà portato a percepire sempre più la ricchezza di queste parole di Paolo: «Tutto sussiste in Cristo» (cf. Col 1,17). Parole che invitano a guardare le realtà della vita quotidiana come si guarda un’icona, accettando cioè di scoprirvi la realtà cristica che ne è il fondamento e che le anima. Ma un simile sguardo richiede che si veda con il cuore, e, cosa ancor più importante, con un cuore abitato dallo Spirito, perché solo «lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio» (1 Cor 2,10).

Biografia

Xavier Thévenot (1938-2004), sacerdote francese, è stato salesiano di Don Bosco e professore di teologia morale all’Istituto Cattolico di Parigi. Affetto per oltre 20 anni dal morbo di Parkinson, ha scritto pagine dense e sofferte sulla propria esperienza di malattia.
Thévenot amava definire la morale come «ciò a cui gli uomini si obbligano quando vogliono conferire un senso alla propria vita» e come «un insieme di regole e di valori che ci consentono di trovare a poco a poco, e liberamente, cammini di umanizzazione e di felicità».
Teologo di fama internazionale, capace di parlare della morale senza cadere nel moralismo, Thévenot ha contribuito a dimostrare come sia possibile riflettere sulla realtà e assumere decisioni responsabili anche quando il bene e il male sembrano essere inestricabilmente legati.
Parole chiave di questo articolo
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