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Una tradizione impaurita

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06/03/2008

Prof. Roberto Mancini
Docente di Ermeneutica Filosofica, Università di Macerata

L’esperienza del dolore, come stato psicologico e spirituale della persona, e della sofferenza, come condizione complessiva di vita in cui siamo negati e feriti, è universale. L’esistenza umana ha una confidenza con il patire che si stabilisce fin dall’inizio e che poi ricorre in tante forme: perdite, sconfitte, malattie, malvagità, lutti. Si intuisce, prima ancora che siano approfondite le cause specifiche e le forme tipiche di una condizione di dolore e di sofferenza, che essa deriva dal male. All’origine del patire c’è il male, inteso anzitutto come negazione e tendenziale distruzione di vite, di relazioni, di capacità, di possibilità positive, di armonia, di futuro, di eventuale felicità, di senso e di verità. E se il bene è un eccesso creativo, dunque è dono che schiude e alimenta per noi la possibilità della vita, il valore, il senso, l’incontro e la relazione, la fioritura dell’esistenza e la sua eventuale pienezza, il male è un eccesso completamente diverso, differente in radice dalla natura del bene.
Non voglio porre subito la questione dell’origine del male stesso, poiché mi sembra anzitutto importante fare attenzione piuttosto alla questione della nostra replica alle esperienze del male e della sofferenza in cui esso ci costringe. I modi di questa replica sono molteplici: tentare di fuggirlo, affrontarlo, ripiegarsi su se stessi, essere solidali, cadere nell’angoscia o maturare un coraggio insospettato prima, razionalizzare quanto ci capita o sentirsi preda dell’assurdo. Nell’assumere uno di questi modi influisce anche il tipo di pensiero e di logica che configura in significati la nostra visione della vita. Non è una questione da filosofi, ma da esseri umani che sempre hanno un’esigenza di senso da riconoscere e da vivere.
In che modo la tradizione occidentale ha pensato il rapporto con il dolore e la sofferenza ? La domanda, credo, dovrebbe interessarci in quanto siamo comunque eredi di questa cultura e immersi in essa. E’ vero che i discorsi che in blocco giudicano l’Occidente come se fosse una realtà univoca sono in effetti riduttivi e ingiusti, quindi non pretendo di racchiudere in poche note un profilo globale. Vorrei però evidenziare una tendenza prevalente e riconoscibile come tale nella storia del pensiero occidentale. E’ la tendenza a razionalizzare il dolore e, così facendo, a esorcizzare l’angoscia che esso sempre suscita. In fondo il dolore è, per la creatura umana, l’incontro con un’alterità negativa sorprendente e minacciosa, un “altro” che all’improvviso arriva a negarci, a toglierci respiro e futuro, a spezzare l’eventuale felicità che conoscevamo prima. Si può capire quindi come l’angoscia, quale stato d’animo pervasivo, e la paura, come sentimento del pericolo che viene da una certa causa, siano reazioni naturali.
Ma che cosa accade quando una cultura si costruisce lasciandosi guidare proprio da questo tipo di reazione ? La storia dell’Occidente mostra, in molti suoi tratti di strada, come una reazione simile porti quasi automaticamente a cercare strumenti e vie di potenza. Poiché il patire è sperimentato come una condizione di inaccettabile impotenza, le energie di singoli e collettività vanno di conseguenza a cercare qualche forma di potenza che costituisca l’antidoto a tale condizione. Per questo, nella tradizione filosofica occidentale, da Aristotele a Spinoza, dai teorici del capitalismo a quelli della rivoluzione armata, dall’ateo Nietzsche alle teologie del Dio concepito come mago onnipotente, la categoria della potenza è centrale e decisiva.
L’effetto di questa impostazione è stato duplice. Sul piano del pensiero, il dolore e la sofferenza sono divenuti oggetto di razionalizzazione, senza che fossero davvero ascoltati e narrati. Razionalizzarli significa conferire a essi un senso che di per sé non hanno: per esempio si è detto che sono una prova per educare e forgiare il carattere, che sono un male che poi porta a un bene, che sono la conseguenza di una nostra colpa, che sono motivo per acquistare merito agli occhi di Dio, che sono un sacrificio necessario. Si pensi solo, tra questi esempi, a quanto sia assurda l’idea di una divinità sadica che quasi gode della sofferenza delle sue creature e calcola su essa meriti e colpe. Altrettanto vale per l’idea di una divinità che ripaga con la sofferenza il peccato. Già Giobbe prefigurava ben altro profilo dell’identità divina quando chiedeva: “Se sei Dio perché non cancelli il mio peccato ?” (Gb 7,20). Di fronte all’esperienza concreta del patire di qualcuno, di una persona viva e reale, tutte queste teorie di razionalizzazione, di spiegazione del dolore saltano, si rivelano coperture ideologiche utili per lo più a non ascoltare i sofferenti e a fuggire da un’autentica condivisione con loro.
Invece, sul piano degli stili di vita, dell’organizzazione della società, dei processi politici e sociali, la logica di potenza ha prodotto disastri. La potenza, nella sua essenza e prevalentemente, è ricerca dell’efficacia a tutti i costi, senza discernere né mezzi né fini. Ecco perché, quando agisce, la potenza di solito produce vittime e moltiplica le sofferenze. L’uomo della potenza non ascolta, non sente più neppure il suo dolore, non sa riconoscerlo, non sa dare una vera risposta, ma solo reazioni. Cerca solo di stabilire il suo dominio su tutto. Ma questa non è una vera liberazione dall’impotenza. Mentre la risposta, che è il nucleo effettivo di ciò che chiamiamo responsabilità (dal latino "respondeo", "responsum") , è un atto creativo della libertà umana e genera possibilità inedite, una reazione è solo dettata e determinata dallo stimolo cui replica, è poco lucida e poco libera. La risposta è poetica (nel senso greco di “poiesis”, produzione, creazione, a sua volta derivante da “poiéo”, faccio), la reazione è automatica.
Se teniamo conto di questa differenza di logiche, a uno sguardo d’insieme quella occidentale sembra, per molti aspetti, una cultura informata dal mito della potenza e dall’angoscia che segretamente lo ispira; molto meno possiamo contare, nel contesto di questa tradizione, su una cultura della libertà solidale, dell’autentica compassione, della condivisione coraggiosa di pesi e fatiche in vista del loro eventuale, sperato superamento. La conseguenza più diffusa, nella vita delle persone anche nel nostro tempo, sta nel fatto che, immersi in una cultura impaurita dal negativo dell’esistenza, la forza di affrontare il patire, senza razionalizzarlo e senza neutralizzare in questo confronto la ricchezza della nostra umanità, diviene più rara, poco coltivata nelle dinamiche educative e nelle relazioni quotidiane. La via alternativa mi sembra debba riscoprire non la potenza, ma i poteri positivi che abbiamo. Dove “poteri” è parola che indica le virtù, le energie creative, la quota di responsabilità. Distinguendo il potere dalla violenza, dalla potenza e dal dominio, Hannah Arendt afferma che il potere è l’energia dell’agire di concerto, la forza nonviolenta che nasce dalla cooperazione. Il dolore e la sofferenza, in particolare, ci chiedono il “potere” di esserci, di stare nelle relazioni anche quando tutto è difficile, di essere piccola ma reale fonte di consolazione per altri e di sperare, grazie ad altri, una luce di consolazione e di liberazione per noi stessi.

Biografia

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.
Oltre a circa 200 articoli e saggi brevi di etica, antropologia filosofica, teoria della verità e filosofia della religione, ha pubblicato i seguenti volumi:
- L’uomo quotidiano, Marietti 1985;
- Linguaggio e etica, Marietti 1988;
- Comunicazione come ecumene, Queriniana 1991;
- L’ascolto come radice: teoria dialogica della verità, Edizioni Scientifiche Italiane 1995;
- Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella 1996;
- Il dono del senso, Cittadella 1999;
- Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon 2002;
- Senso e futuro della politica, Cittadella 2002;
- L’uomo e la comunità, Qiqajon 2004;
- Il senso del tempo e il suo mistero, Pazzini 2005;
- L’amore politico: sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella 2005;
- Esistere nascendo: la filosofia maieutica di Maria Zambrano, Edizioni Città Aperta 2007;
- L’umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell’età della globalizzazione, Pazzini 2008.
In collaborazione con altri autori ha inoltre scritto “Etiche della mondialità” (Cittadella 2007).
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.

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