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La morte, atto puntuale di compimento della vita

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20/11/2013

Tratto da: Enzo Bianchi, L’ultima obbedienza che ci fa più uomini, Avvenire, 27 ottobre 2013

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Per molti di noi, la morte è la realtà più angosciante e minacciosa dell’esistenza. In questa ampia riflessione Enzo Bianchi, priore di Bose, spiega che cosa essa rappresenti per il cristiano e in che modo un cristiano dovrebbe viverla per essere davvero coerente con la propria fede.
Tre i punti salienti del brano. Primo: nella nostra epoca e nella nostra civiltà, l’idea della morte è rimossa, è «l’unica realtà concretamente “oscena”, che non deve cioè essere vista, contemplata, considerata»; al tempo stesso, l’evento della morte è spettacolarizzato e ostentato sui mezzi di comunicazione «in un flusso di immagini che la esibiscono, la mostrano, insistono su di essa per “dare la notizia” efficace di catastrofi, guerre, torture, omicidi». E’ evidente come questa scissione denoti un rapporto non equilibrato con la morte stessa, il che ci espone, da un lato, all’incapacità di elaborare correttamente il lutto per le perdite – reali e simboliche – che subiamo e, dall’altro, a una sostanziale impreparazione alla nostra stessa morte, con tutto il carico di sofferenza che questo comporta.
Secondo: per il cristiano maturo, la morte non dovrebbe essere un evento da subire passivamente, ma un “atto” da compiere nella riconoscenza e nell’obbedienza a Chi gli ha donato la vita. Solo un simile atteggiamento di accoglienza prova l’effettiva fiducia del credente nell’infinita misericordia di Dio e l’accettazione del proprio invalicabile limite creaturale.
Terzo, al cristiano morente «non è chiesto di soffrire»: è perciò giusto che il dolore fisico ed emotivo gli sia il più possibile risparmiato, in modo che «possa attraversare l’ora della morte continuando ad amare chi resta e accettando di essere a sua volta amato». E’ questa, non altro, la volontà di Dio, a cui troppo spesso nei secoli si è attribuito il perverso desiderio di veder soffrire i propri figli.
In quale misura questo approccio alla morte può avere un valore anche per chi non crede? La sussistenza o meno di una visione spirituale della vita cambia la prospettiva della morte in modo decisivo. Ma quella “puntualità” di cui parla Bianchi, quell’insistere sul compimento obbediente dell’esistenza, sul restituire la vita alla fonte da cui essa è scaturita – sia essa una volontà creatrice o il flusso incessante della natura – possono significare, per un laico, morire nella consapevolezza di aver coltivato valori buoni, e di essere stato ad essi fedele: la fine di una vita retta e coerente non sarà allora uno strappo pauroso, gravido di sgomento, ma un evento che si inscrive nella logica delle cose e che lascia a chi resta l’importante lascito di quei valori. «Ciascuno di noi – conclude Bianchi – deve avere il coraggio di dire a se stesso: “Io morirò”». Ma quel coraggio può venire solo dalla fedeltà alla nostra verità più profonda con cui saremo stati capaci di vivere.
Vorrei tentare di leggere la morte come evento umano e cristiano, sapendo che oggi viviamo in un’atmosfera culturale che della morte non vuole più saperne. E’ perfino banale questa constatazione: la morte è rimossa, è diventata l’unica realtà concretamente “oscena”, che non deve cioè essere vista, contemplata, considerata. Oggi vogliamo evitare di essere testimoni della morte, che tuttavia continua a essere presente nelle nostre vite familiari e di relazione; soprattutto, vogliamo evitare di pensare alla nostra propria morte, che è l’unico evento certo che ci sta davanti.
E’ significativo un invito fatto da André Comte-Sponville al suo lettore, proprio in un libro che vuole essere una “saggezza” per tutti: «Lettore, coraggio! Per la morte hai tutto il tempo. Innanzitutto impegnati a vivere!». Non è un caso che anche il vocabolario della morte sia poco frequentato. Si ha una sorta di ritegno a parlare di “morto”, “morte”; si preferisce dire: «Se n’è andato. È passato di là. Non è più con noi»… Questo accade anche nei funerali, che si dicono ancora cristiani, ma che sovente, soprattutto nel caso di qualche persona importante o di una disgrazia pubblica, sono “eventi” con accenti di spettacolo. In essi, invece di accogliere il mistero della morte, si parla del defunto, ci si indirizza a lui come se fosse ancora vivo, si tenta quasi una rianimazione di cadavere, magari facendo ascoltare a tutti qualche sua parola o, se era un cantante, una sua canzone. Così si cancella la morte dalla nostra vita e dalla prospettiva tanto necessaria nella ricerca di un senso, di una direzione verso cui camminare.
Ma ciò che appare follia è il fatto che, accanto a questa rimozione della morte, avvenga la sua spettacolarizzazione nei mezzi di comunicazione. In questi la morte sembra regnare, in un flusso di immagini che la esibiscono, la mostrano, insistono su di essa per “dare la notizia” efficace di catastrofi, guerre, torture, omicidi… Non vogliamo vedere la morte, e poi rallentiamo in auto per guardare gli effetti di un incidente e vederne le vittime. Abituandoci alle immagini della morte in scena, crediamo di allontanare la possibilità della nostra propria morte. Insomma, anche per il cristiano la tentazione è quella di dimenticare la morte. Eppure la morte continua ad avere l’ultima parola su di noi, almeno nella realtà visibile, continua a essere un traguardo, una meta che ci attende: è l’unica direzione della vita che non possiamo mutare, perché sempre la vita va verso la morte. Martin Heidegger in questa lettura è giunto ad affermare che l’uomo “vive per la morte”.
La mia generazione ha ancora ricevuto dalla grande tradizione cristiana il consiglio spirituale dell’esercitarsi a morire, del prepararsi all’evento finale, del vivere la morte. La morte era un tema di meditazione, non funereo, non dolorista, ma andava pensata come “ora” che ci attende, ora del giudizio di Dio su ciascuno di noi, incontro con il volto di Dio tanto cercato. Nella “memoria mortis” c’era una tristezza, quella di dover morire; c’era il timore di Dio (cosa diversa dalla paura!), per il suo giudizio che è misericordia ma anche giustizia; c’era la consolazione per l’incontro definitivo con il Signore, la vita eterna. Nella memoria della morte occorreva soprattutto esercitarsi a pensare che il proprio morire deve essere “un atto”. Questo mi era di difficile comprensione quando ero bambino, ma nella maturità ho poi compreso. Per un cristiano la morte non può essere un evento passivo: non è possibile lasciarsi morire ma è assolutamente necessario poter fare un atto di quell’evento finale al quale non si sfugge. Certo, nella fede, e forse anche con molti dubbi e nell’angoscia, ma occorre poter dire al Signore: «Padre, quella vita che tu mi hai dato e per la quale ti ringrazio, te la rendo puntualmente, te la offro in sacrificio vivente (cf. Rm 12,1), sperando solo nella tua misericordia». In tal modo la morte diventa un atto, e così si muore nell’obbedienza, magari accogliendo le parole di chi accompagna il morente, che, se è intelligente, sa dirgli al momento giusto: «Parti, vai al Padre, nel nome del Padre che ti ha creato, nel nome del Figlio che ti ha redento, nel nome dello Spirito santo che ti ha santificato».
Forse questo fare della morte un atto è ciò che ci rimette i peccati, come affermava con audacia Marco il monaco (fine V-inizio VI secolo). Forse è l’estrema possibilità di “obbedienza della fede” (Rm 1,5; 16,26) per il cristiano, che così confessa di credere nella misericordia infinita di Dio. Proprio per predisporre tutto affinché questo sia possibile, occorrerebbe che chi è nella malattia fosse avvertito, se lo vuole, della sua situazione di uomo o donna giunto/a alle soglie della morte, al termine della vita. Operazione delicata, che non va fatta sempre, in ogni caso e per tutti, ma solo quando c’è una certa maturità di fede, e allora il credente morente desidera essere consapevole dell’incontro ormai prossimo con il suo Signore. La morte quindi diventa “azione”, atto puntuale, vera operazione di “adorazione” del Creatore, di riconoscimento dell’essere una creatura voluta da Dio nel suo amore e che torna a Dio il quale è amore per sempre (cf. 1Gv 4,8.16; 1Cor 13,8). E’ in questa fede che l’uomo confessa di non essere proprietario della propria vita, di non decidere lui la propria fine, ma di accoglierla rimettendo a Dio il suo respiro, il suo spirito (cf. Sal 31,6; Lc 23,46).
Al cristiano – occorre ricordarlo – non è chiesto di soffrire e neppure di accogliere i patimenti fisici come se fossero voluti da Dio. Dio non ci chiede nemmeno di espiare i nostri peccati con tormenti fisici, perché solo lui sa come restaurare la giustizia che abbiamo offeso e violato con i nostri peccati. E’ compito suo, non nostro: lasciamo che sia lui il Signore nella nostra vita e nella nostra morte. Per questo occorre che le sofferenze fisiche siano il più possibile evitate al malato morente, in modo che possa attraversare l’ora della morte semplicemente rispondendo a ciò che è sua umanizzazione e compimento della volontà di Dio: possa cioè vivere la malattia e la morte continuando ad amare chi resta e accettando di essere a sua volta amato. Nient’altro. Questo è il comandamento ultimo e definitivo: amare fino alla fine, fino all’estremo (cf. Gv 13,1), per quanto è possibile a un umano.
La vita è un dono di Dio, anzi è il dono di Dio per eccellenza, e questo dono va riconosciuto e ridato a colui che ci è Padre. Sì, oggi sull’evento della morte – lo dobbiamo dire – si gioca la fedeltà dei cristiani al loro Signore: i cristiani sanno, perché nel battesimo sono stati immersi nella morte del Signore, sono “con-morti con Cristo”, che con Cristo risorgeranno (cf. Rm 6,4-5.8; Col 2,12) e che questo “télos” sta davanti a loro come una promessa per chi persevera sempre, seppur cadendo in peccati, nella sequela del Signore. Proprio per questo non giudicheranno altri che non hanno la luce della fede, anche se, proprio per il cammino di umanizzazione che spetta a tutti, mostreranno e diranno che la morte può essere un atto, l’atto apice dell’umanizzazione percorsa con tutta la vita.
Già Platone parlava della necessità della “meléte thanátou” (pensiero della morte: Fedro 81a), dell’esercitarsi a morire, e tutta la tradizione cristiana ha pensato e indicato in cosa ciò può consistere. La morte non può essere privata del morire, e ciascuno di noi deve avere il coraggio di dire a se stesso: “Io morirò”. Giunto alla vecchiaia, deve pensare di più alla morte, evento che può essere l’ultima grande azione della nostra vita. Nessuno di noi può prevedere la propria morte, se improvvisa o dopo una lunga malattia, se nella pace e nella dolcezza di chi muore senza gravi sofferenze fisiche o nel tormento di chi soffre patimenti che quasi non si possono lenire con le medicine. Nessuno di noi può sapere, nonostante le dichiarazioni fatte al riguardo, se morirà nel dubbio o nella fede.
Non è un caso che nella preghiera più semplice e più conosciuta tra i cattolici, l’Ave Maria, si chieda: «Prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte». Pensare di avere chi nella morte intercede per noi come una madre, e intercede presso il Cristo che incontriamo, è un buon esercizio per sentire la morte come sorella e lodare Dio “per sora nostra morte corporale”.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele) e Ostuni (Brindisi).
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
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