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Esperienza del limite e vicinanza di Dio - Prima parte: Le ideologie del limite

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30/06/2010

Prof. Roberto Mancini
Docente di Ermeneutica Filosofica, Università di Macerata

Nello sviluppo della riflessione sul dolore, sulla sofferenza, sui molteplici limiti che sperimentiamo s’incontra la questione di Dio. Spesso è liquidata, oppure posta in modo distorto, ma non la si può eludere. Qui vorrei dichiarare apertamente la mia personale persuasione che considera reale, benché invisibile, la vicinanza di Dio, esplicitando le ragioni di un simile orientamento. Lo spirito in cui lo farò è quello di un’umile e onesta attestazione e non è certo quello arrogante di chi usa la rozza divisione tra credenti e non credenti per giudicare inferiore la posizione di quanti prescindono dal riferimento a qualsiasi idea di una realtà divina.
La relazione con Dio è intima, personale, ma non è privata o sospesa nel vuoto. Avviene nel mondo e coinvolge gli altri intorno a noi. Essa deve misurarsi non solo con la permanente assenza di Dio – fino al limite di poter ritenere ragionevole che semplicemente Dio non esiste –, ma anche con la pressione di eventi negativi, sconfitte, fallimenti, lutti. La storia di Giobbe presenta esemplarmente questo scenario complesso in cui chiunque, per vie diverse, potrebbe riconoscersi. Se si fa qualche passo oltre le convenzioni della mentalità religiosa più tradizionale, la riflessione sull’intreccio tra la ricerca di Dio e l’esperienza del negativo della vita arriva a comprendere che bisogna evitare una serie di atteggiamenti fuorvianti. Per esempio l’abitudine a fare di Dio la risposta automatica a ogni questione, il devozionismo di chi pensa di offrirgli la propria sofferenza, lo sforzo e la presunzione di ergersi al di sopra della condizione umana comune per amarlo. In realtà, se seguiamo la direzione indicata da Gesù di Nazaret per riferirsi a suo Padre, si tratta di lasciarsi amare da lui. Solo allora la fede non si riduce più a un’ideologia religiosa, ma esprime l’adesione a una vita vera. Paradossalmente, però, la cosa più difficile per noi si rivela, più che la devozione capace di sforzi ascetici, la disponibilità che consente di aprirsi davvero all’amore divino.
In che cosa consiste questo “aprirsi”? La lettura di quella che di solito viene detta l’“esperienza del limite” è il passaggio necessario per chiarire il movimento esistenziale dell’apertura, del divenire disponibili, del lasciarsi convertire. Il compito più arduo, per ciascuno, sta nell’affrontare le contraddizioni interiori ed esterne riuscendo a dare una risposta sensata, creativa, feconda. Infatti per lo più accade che dinanzi alla contraddizione di un limite inaggirabile si tenda alla fuga, o alla disperazione, oppure alla ricerca di mezzi di potenza. L’alternativa tra resistenza e resa, su cui ha meditato Bonhoeffer, si colloca tra queste possibilità. Così come l’alternativa tra la mera reazione automatica a un ostacolo e, invece, la risposta libera e originale. O come l’alternativa tra lo sforzo di “meritare” l’amore di Dio e l’affidamento fiducioso a un Padre materno, che ama gratuitamente.
Ma che cos’è un “limite”? Con la stessa parola possiamo intendere cose molto diverse: una ferita, un ostacolo, una barriera, un confine attraversabile, una passività, un’apertura, un’interruzione, una sconfitta, il risveglio da un delirio di potenza, un punto di avvio oppure la fine di tutto. Quando si parla dell’esperienza del limite in genere si vuole alludere alla debolezza, al trovarsi in uno stato di impotenza, alla forza soverchiante della sofferenza, del male, della morte. Non è raro che la necessaria comprensione di queste forme di negazione ceda il passo a pericolose rappresentazioni ideologiche. Basta ricordare come, in una diffusa interpretazione del cristianesimo, l’oscurità del limite inteso quale colpa radicale si sostituisca di fatto alla pur affermata provenienza divina della creatura umana. Così l’annuncio della figliolanza con Dio esce silenziosamente dalla visuale della fede e al suo posto s’impone in primo piano la dottrina del peccato originale. In tal modo s’instaura uno dei dualismi più insidiosi e tenaci nello scenario ideologico del cristianesimo ridotto a religione. Si tratta di un vero e proprio scambio di persona: l’essere umano non è più figlio di Dio, diventa il figlio del proprio peccato; non è l’incarnazione di un sogno del Padre, ma una colpa vivente; non una creatura voluta e amata, ma un debitore insolvente. Si arriva perciò all’assunto – che risulterebbe subito ridicolo, se non ci fosse stato presentato come vero e ovvio sin da piccoli – per cui si afferma che veniamo da Dio e che nondimeno la natura umana è corrotta fin dall’inizio e per tutta la storia. Ogni ideologia religiosa, con i suoi cupi imbrogli teologici, prima rinfaccia all’umanità i suoi presunti limiti strutturali, poi presenta l’obbedienza alle proprie prescrizioni come l’unico rimedio per conseguire la salvezza. A quel punto si è già operato l’altro scambio decisivo: non è Dio che salva tutti, è la religione che salva chi se lo merita.
In quest’ottica il limite non è più soltanto uno degli elementi tipici della condizione dell’essere umano, diventa da solo la sua stessa identità. Ci si identifica con esso e nel contempo si odia tutto ciò che ce lo rispecchia. Il senso di colpa risale, molto più che a una lucida dinamica di pentimento, a un sentimento di impotenza e di viscerale invidia verso chi viene considerato detentore di ogni potenza e superiorità. E’ l’invidia dell’uomo verso Dio. L’ideologia religiosa e, d’altro canto, ogni forma di sacralizzazione delle opere umane – dalla scienza alla tecnologia, dalla politica all’economia – condividono in effetti questa fascinazione per la potenza. Ogni volta si ripete, variamente modulata e giustificata, questa dialettica tra la percezione che l’uomo ha della propria impotenza e l’invidiosa ricerca dell’onnipotenza. La religione prima proietta sulla divinità il monopolio della potenza denunciando lo statuto miserabile della condizione umana, poi stabilisce essa stessa il suo monopolio sul divino. Da parte sua la convinta consegna di sé, da parte degli uomini, alla potenza impersonale dei sistemi dell’economia, della tecnologia o della politica – nonostante crisi e fallimenti – prende il limite come se fosse niente più che un pretesto per trionfare, una “sfida” che spinge a vincere qualsiasi ostacolo. Mentre l’ideologia religiosa identifica l’umano con il limite, l’ideologia secolare lo identifica come colui che vince su di esso. E se la segreta radice comune a queste prospettive è l’invidia per l’onnipotenza, il loro effetto convergente sta nel sacrificare gli esseri umani presentando se stesse come l’autentica guarigione dal delirio delle ideologie tipiche dei secoli passati.
Una reazione alla mentalità pervasa dal culto della potenza – segretamente invidiata o apertamente affermata – si è avuta da parte di quelle filosofie della debolezza o anche della finitezza che, sulla scia dell’analisi dell’esistenza esposta da Martin Heidegger in Essere e tempo, hanno invitato invece ad accettare il limite. Qui si insiste soprattutto sull’esigenza di coltivare la saggezza di chi non rimuove la coscienza del proprio appuntamento con la fine della vita. A me pare tuttavia che queste filosofie manchino di riconoscere l’originalità dell’identità umana, che ancora una volta viene identificata con il suo limite per eccellenza, la morte. Essa resta per l’uomo la sua possibilità più propria (cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976, pp. 289-324), della quale egli si rende conto quando la voce silenziosa della coscienza lo richiama a quella colpa originaria che consiste nel suo incessante tentativo di fondarsi sul nulla, nella sua pretesa di esistere. Ancora una volta si presenta qui una comunanza di mentalità inattesa e nascosta. Infatti le concezioni religiose, da un lato, e quelle orientate all’idea della finitezza come mortalità, dall’altro, sono accomunate loro malgrado dalla tendenza a una razionalizzazione idealizzante, per cui il limite viene trasformato nella sostanza stessa del soggetto umano. La chiave esplicativa è il peccato strutturale per le une, la morte per le altre. Come se l’umanità fosse già sempre una promessa tradita o impossibile. Ma così resta indistinta la percezione dei diversi tipi di limite che sperimentiamo e resta impensato ciò che in noi è pur sempre qualcosa di diverso dal limite come tale.
Il discorso religioso sul limite negativo come identità dell’uomo miserabile e peccatore, il discorso secolare sulla vittoria dell’uomo stesso oltre ogni limite, il discorso filosofico sulla morte come limite identificante il proprium dell’umano rappresentano a mio avviso tre gabbie ideologiche – distinte, antagoniste tra loro ma di fatto solidali – che inibiscono il cammino della sapienza antropologica così come quello dell’intelligenza della fede.

Biografia

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.
Oltre a circa 200 articoli e saggi brevi di etica, antropologia filosofica, teoria della verità e filosofia della religione, ha pubblicato i seguenti volumi:
- L’uomo quotidiano, Marietti 1985;
- Linguaggio e etica, Marietti 1988;
- Comunicazione come ecumene, Queriniana 1991;
- L’ascolto come radice: teoria dialogica della verità, Edizioni Scientifiche Italiane 1995;
- Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella 1996;
- Il dono del senso, Cittadella 1999;
- Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon 2002;
- Senso e futuro della politica, Cittadella 2002;
- L’uomo e la comunità, Qiqajon 2004;
- Il senso del tempo e il suo mistero, Pazzini 2005;
- L’amore politico: sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella 2005;
- Esistere nascendo: la filosofia maieutica di Maria Zambrano, Edizioni Città Aperta 2007;
- L’umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell’età della globalizzazione, Pazzini 2008.
In collaborazione con altri autori ha inoltre scritto “Etiche della mondialità” (Cittadella 2007).
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.

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