EN
Ricerca libera
Cerca nelle pubblicazioni scientifiche
per professionisti
Vai alla ricerca scientifica
Cerca nelle pubblicazioni divulgative
per pazienti
Vai alla ricerca divulgativa

Tra dolore e valore: la compassione nel pensiero di Aldo Capitini

  • Condividi su
  • Condividi su Facebook
  • Condividi su Whatsapp
  • Condividi su Twitter
  • Condividi su Linkedin
15/07/2009

Prof. Roberto Mancini
Docente di Ermeneutica Filosofica, Università di Macerata

In un confronto così arduo come quello con la sofferenza è bene avere delle fonti e dei punti di riferimento positivi. Tra essi una guida autorevole per la meditazione su come rispondere alle situazioni di sofferenza è senz’altro Aldo Capitini (1899-1968), il filosofo che in Italia ha dischiuso l’accesso alla cultura della nonviolenza. Nella sua ricerca l’idea e l’esperienza della compassione si presentano come passione di compresenza rivolta a tutti, in una “unità amore” che coinvolge ogni creatura e Dio stesso. Che per lui non è il Dio di questa o di quella religione chiusa nella propria esclusività, poiché piuttosto è il Dio della “religione aperta”, ossia il Dio dell’umanità intera, senza divisioni. Nella cosciente partecipazione alla compresenza “viviamo la persona di Dio” (A. Capitini, Religione aperta, Vicenza, Neri Pozza editore, 1964, p. 116).
Ben al di là di un fenomeno di simpatia spontanea nei confronti dei nostri simili, la compassione si attua nell’incontro tra “persone” nell’accezione più radicale ed etica del termine. Amare qualcuno significa appassionarsi alla sua presenza libera e originale, favorendo il suo giungere a pienezza. Già qui si annuncia che in noi l’apertura fondamentale alla realtà sta nell’“interesse a che l’altro viva, si svolga: è come un generarlo dall’intimo nostro, una gioia perché l’altro esiste, un appassionamento alla radice” (A. Capitini, Teoria della nonviolenza, Perugia, Edizioni del Movimento Nonviolento, 1980, p. 10). E la compassione si dà nello sguardo che, senza farsi colmare dai fatti del dolore, del male e della morte, considera i viventi “dalla parte di Dio” (A. Capitini, La realtà di tutti, in ID., Scritti filosofici e religiosi, Perugia, Edizioni Protagon, 1994, p. 193), vedendoli eternamente presenti e amati.
Per Capitini percepire davvero la realtà significa riconoscere il valore, e vedere effettivamente il valore è riconoscervi un “tu vivente”. Perciò la compassione non è tanto un sentimento particolare, legato alle situazioni in cui un sofferente viene accolto nella prossimità solidale di altri, quanto il sentimento-guida di una perspicacia ontologica universale, quella che sa vedere l’irriducibilità del valore e delle vite al male e alla morte: “Quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia, e si spenga, prima o poi, come una fiamma” (A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 19).
La prima compassione, per il filosofo perugino, è quella che unisce gli scomparsi e i viventi. Quando con la perspicuità del cuore, della coscienza e dell’anima, oltre la paura osiamo sentire la presenza di chi ora non è più con noi, sentiamo che i morti non sono dissolti nell’abbandono estremo del nulla, ma ci affiancano in un’invisibile, indistruttibile vicinanza. “Con il superamento della separazione del vivente dal morto, insieme con lo spazio e il tempo non più presentatisi come luogo dei morti respinti o come tempo della morte, si forma in noi la convinzione che l’individuo può coesistere con altri individui. Perché qui sta un’altra delle paure dell’uomo, che scende nell’inconscio. L’individuo dubita della possibilità di emergere ad una esistenza sicura insieme agli altri; teme il proprio nulla, appunto perché crede ad un intimo individuale. Quando si persuade che l’intimo ha la infinita pluralità della compresenza, si rassicura e nel suo inconscio penetra la coesistenza come realtà indistruttibile” (A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, in ID., Scritti filosofici e religiosi, cit., p. 185).
Ciò che chiamiamo realtà è, più che qualcosa di già dato, una tensione tra la condizione attuale e la sua compiuta trasfigurazione. L’essere umano è l’incontro tra due mondi, quello della realtà insufficiente e minacciata e quello della realtà liberata. Questa dualità, oltre la falsa alternativa tra il monismo e il dualismo, va intesa dinamicamente, al modo dell’immagine evangelica del Regno come seme che silenziosamente cresce già qui e ora. Noi siamo il luogo di gestazione in cui la realtà liberata può nascere e instaurarsi. In Capitini è essenziale la consapevolezza secondo cui tutto ciò che vive è nel fermento della propria possibile nascita. La persona umana, specificamente, è caratterizzata non da una qualsiasi esistenza, ma dall’e-sistere al bene, lo sporgersi e il protendersi fuori dai limiti del male per giungere a confermare, con la sua vita, il bene. E il bene non è una perfezione autosufficiente e solitaria, né un meccanismo impersonale, ma Dio stesso e la comunione universale in cui ciascuno è riconosciuto come un “tu” unico e inestimabile. Dunque la passione della compresenza porta a vedere non solo il valore perdurante degli scomparsi, ma anche l’unicità di ognuno.
L’assunzione della compassione come affetto, modo di comprensione e di azione permette a una persona di divenire la soglia di esperienza e di dilatazione della realtà liberata. Grazie alla compassione possiamo vivere all’altezza della compresenza di tutti, imparando a esistere in modo da concorrere a tale comunione di valore e senza più cedere alla tentazione di ricorrere a logiche e comportamenti distruttivi. I comportamenti di abbandono, di violenza, di indifferenza derivano tutti dalla paura, sino alla sua forma radicale, l’angoscia. Paura dell’altro, del dolore, della morte, dell’impotenza. E’ dalla paura che sorge la volontà di potenza, la fascinazione di questa energia accecata che punta solo a conseguire il risultato, qualunque sia e costi quello che costi. La compassione, invece, ha un’energia specifica e capace di vedere, l’energia della libertà compiutasi come amore misericordioso, energia che senza sottrarsi alla fragilità umana sprigiona una forza e una creatività divine. Proprio per questo la compassione è umile e, nel contempo, conferisce all’agire umano “i caratteri dell’iniziativa di Dio” (A. Capitini, Religione aperta, cit., p. 116).
La passione della compresenza non si esaurisce in un sentimento e neppure in un agire che lascia inalterata la condizione di vita delle persone. Piuttosto, questa passione si attua come movimento di condivisione del cammino di quanti sono esclusi, oppressi, non visti o respinti. L’autentica compassione è quel “contatto con i rifiutati dalla vita” (ibid., p. 139) che mi spinge al trascendimento del mio essere immediato per esistere all’altezza della compresenza dei tutti. Tale movimento di condivisione trasfigurante invera la mia identità: “Uscendo da me trovo un me più vero” e questo “svolge una speranza in me: che sarà possibile un maggiore accordo, una vera unità con tutti gli esseri, superando le tante difficoltà di ora” (ibid.). E’ la dinamica di una vera e propria rinascita della persona, che dà alla luce in sé a un frammento di realtà liberata. In sé e intorno a sé, perché lo stile di vita e l’azione di chi aderisce alla passione della compresenza impara a realizzare quella misericordia che si traduce, secondo Capitini, come pentimento, perdono e pratica della nonviolenza.
Infatti come potrà l’essere umano affrontare il negativo insondabile che incontra nella vita – cioè la sofferenza dovuta a cause naturali, imponderabili o comunque non dipendenti da volontà umana – se intanto non impara a sciogliere ogni volta il negativo che si procura con le sue mani ? Nelle situazioni di malattia o di incidente, di trauma o di morte non prodotta da qualcuno, tutti noi siamo chiamati a trovare comunque una nuova solidarietà, una risposta corale. Perciò pentimento, perdono e pratica della nonviolenza sono forze di interruzione della spirale del male, da qualunque parte essa ci coinvolga.
Il risveglio della coscienza che si dà nel pentimento è essenziale affinché il dolore stesso possa essere umanizzato e spingere al cambiamento. Pentirsi significa ascoltare in sé un dolore che spinge oltre. E’ il dolore per il male fatto da me agli altri e insieme per tutto il male che grava sul mondo. Il patire che mi ferisce nel pentimento mi permette di risalire a una forza che spinge a vedere e ad agire secondo il bene. E’ la forza dell’apertura religiosa che unisce il singolo alla vita preziosa di tutti gli altri e di Dio e che viene assunta come sapienza della speranza. “Per la religione abbiamo imparato che non possiamo soltanto pensare (esercizio della mente), amare (esercizio del cuore), ma anche sperare (esercizio dell’animo aprentesi ad una realtà liberata). Anzi, ci pare che se non facessimo una di queste tre cose, avremmo come il posto per l’ingresso in noi di una malattia. Le tre cose insieme sono la salute dello spirito” (ibid., p. 17).
Nello spazio di verità della persona che si apre per questa via diventa possibile chiedere e dare il perdono. E’ l’esperienza, a ognuno possibile, della qualità materna dell’amore, dove la misericordia è “considerazione perdonante” (ibid., p. 63) che riconosce nel colpevole non solo un valore unico, non cancellato dal male commesso, ma un figlio. Scrive l’autore: “Io penso che sempre nei riguardi di un essere umano debbo richiamarmi a un punto interno in cui io mi senta madre di lui; che debbo abituarmi a costituire costantemente questo atteggiamento nel mio intimo” (A. Capitini, Teoria della nonviolenza, cit., p. 10).
Chi è capace di risalire in sé a questa integrità non può trattenere nella sua interiorità o nelle relazioni private tale capacità di condivisione del bene. La sua presenza al mondo fiorisce in qualche forma di azione. Azione nonviolenta, che porta alla luce come i metodi creativi siano gli unici a saper tessere una vita nuova per tutti. Al punto che neppure la relazione tra i vivi e gli scomparsi, se è una relazione d’amore, è davvero spezzata, ma si rinnova misteriosamente, come si sperimenta quando, avendo subito un lutto, siamo ancora capaci di gesti d’amore verso altri.

Un messaggio come quello di Capitini, sorto dalla meditazione e dalla ricerca di una vita intera, era ed è troppo fine, profondo, delicato, gentile e luminoso per non essere spesso frainteso da chi segue schemi di pensiero più banali, pigri e grossolani, legati più all’impulso dell’appartenenza a identità culturali e politiche chiuse che non al senso della comune umanità. Proprio per questo vorrei, in conclusione, esplicitare due indicazioni.
La prima sta nell’invito a non temere, nel rimando capitiniano a categorie come “Dio” e “religione aperta”, il ritorno di una visione teologica inaccettabile per chi prescinde da simili riferimenti. In realtà si può seguire il cammino di Capitini e dialogare con lui traducendo tali categorie attraverso il rimando alla realtà del bene e al suo senso. A quella realtà del bene che può essere letta come la catena degli atti d’amore e di cura da una generazione all’altra, senza obbligo di presupporre l’esistenza di una divinità. Del resto, non c’è cultura al mondo che disprezzi o dimentichi questo genere di riferimento, che è sufficientemente ampio da ospitare le più diverse visioni della vita ed è il nucleo essenziale di un’autentica laicità.
La seconda indicazione serve a sottolineare come, per noi oggi, la meditazione del filosofo di Perugia sia una sorta di specchio critico. Uno specchio che ci restituisce nitidamente l’immagine delle nostre deformazioni e della nostra malafede, allorché facciamo dello straniero un simbolo negativo. Infatti la mentalità diffusa nell’Italia odierna, sia tra molte forze politiche sia tra la cosiddetta “gente”, vede nell’altro uno straniero e nello straniero qualcuno che si può e si deve respingere. Dal confronto con la lezione di Capitini affiora, insieme a un sentimento di vergogna per la scadente qualità della nostra convivenza civile, la coscienza del fatto che la logica del respingimento degli altri è l’espressione di una cultura di morte, di una mentalità che, non sapendo affrontare umanamente e solidalmente la sofferenza, la produce e la scarica addosso ai più deboli. Il contrario esatto di quell’“unità amore” che resta il solo spazio di vita vera in cui ciascuno di noi può essere accolto, riconosciuto come sorella o fratello.

Biografia

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.
Oltre a circa 200 articoli e saggi brevi di etica, antropologia filosofica, teoria della verità e filosofia della religione, ha pubblicato i seguenti volumi:
- L’uomo quotidiano, Marietti 1985;
- Linguaggio e etica, Marietti 1988;
- Comunicazione come ecumene, Queriniana 1991;
- L’ascolto come radice: teoria dialogica della verità, Edizioni Scientifiche Italiane 1995;
- Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella 1996;
- Il dono del senso, Cittadella 1999;
- Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon 2002;
- Senso e futuro della politica, Cittadella 2002;
- L’uomo e la comunità, Qiqajon 2004;
- Il senso del tempo e il suo mistero, Pazzini 2005;
- L’amore politico: sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella 2005;
- Esistere nascendo: la filosofia maieutica di Maria Zambrano, Edizioni Città Aperta 2007;
- L’umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell’età della globalizzazione, Pazzini 2008.
In collaborazione con altri autori ha inoltre scritto “Etiche della mondialità” (Cittadella 2007).
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.

Vuoi far parte della nostra community e non perderti gli aggiornamenti?

Iscriviti alla newsletter