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"Quando i giorni sono cattivi" (Ef 5,16): lettura biblico-sapienziale della crisi – Prima parte

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25/11/2009

Luciano Manicardi
Monaco di Bose

Relazione presentata al Convegno delle Caritas decanali dell’Arcidiocesi di Milano, Triuggio (MI), 12-13 settembre 2009

Guida alla lettura

«Le crisi avvengono per evitarci il peggio». Questa profonda intuizione della psicanalista Christiane Singer sintetizza con efficacia la densa meditazione di Luciano Manicardi sul significato esistenziale di quei momenti che tutti, prima o poi, sperimentiamo, e nei quali ogni nostra certezza sembra essere messa in discussione: l’idea di successo e di carriera, la fiducia riposta nelle relazioni personali, la percezione di un corpo sano e ricco di energie, la sensazione di avere di fronte un tempo inesauribile, colmo di promesse e in cui sia sempre possibile rimediare agli errori compiuti.
Per quanto possano essere devastanti le disillusioni che dobbiamo affrontare, avverte Manicardi, la crisi non va vista come un semplice “incidente di percorso”, ma come un passaggio essenziale per crescere, e dunque come un’occasione di apertura a una nuova e più matura fase della vita. La risposta sana alla crisi non è quindi attenuarne l’impatto a ogni costo – magari a prezzo di un ottundimento della mente e del cuore – ma lasciarsene interpellare, e capire come consentirle di lavorare positivamente su di noi. Un criterio che vale non solo per gli individui, ma anche per le istituzioni politiche, le società civili e persino le strutture economiche, oggi così provate da tensioni di portata globale.
A chi crede, poi, la crisi suggerisce un ulteriore livello di lettura: secondo la Bibbia, infatti, è la stessa parola di Dio che ci pone in discussione, rivelando la distanza fra i nostri pensieri, le nostre vie, e i pensieri e le vie di Dio (cf. Is 55,8). Al punto che l’Antico Testamento è, in larga parte, null’altro che la storia delle “crisi di Israele”, in cui un popolo – che pure si percepisce come eletto – riscopre ogni volta la propria infedeltà, ma al tempo stesso fa esperienza del perdono trasformante di Dio, frutto di un amore così potente e radicale da consentirgli di ripartire sempre da zero.
Nella seconda e nella terza parte della riflessione, che pubblicheremo prossimamente, Manicardi illustrerà il rapporto fra crisi e parola di Dio alla luce di diversi passi biblici: come spesso emerge dalle pagine di questa rubrica, vedremo che la Scrittura, parlando innanzitutto all’umano che c’è in ognuno di noi, offre spunti di crescita e maturazione preziosi per tutti, laici e credenti.
Crisi: termine ambivalente
Che cosa diciamo parlando di “crisi”? Che cosa evoca la parola “crisi”? Barbara Spinelli ha scritto che “la parola crisi è tra le più tentacolari che esistano nel vocabolario; più che una parola, è un albero dai rami incessanti” [1]. Ogni parola ha una storia che può illuminarne il senso, ha un passato che può gettare luce sull’uso che ne facciamo noi oggi. L’etimologia del termine “crisi” rinvia al greco krísis, “giudizio”, “separazione”, “vaglio”, “scelta”: una crisi passa al vaglio, mette alla prova, passa al setaccio. La nozione di crisi presente oggi nelle scienze umane discende dalla medicina. Per Ippocrate la crisi è il momento in cui la malattia si decide: o si va verso un aggravamento e un esito anche fatale o si va verso un miglioramento, un ripresa e anche verso una guarigione. È dunque un momento topico, di svolta. Certo, un momento in cui la malattia entra in una fase acuta, ma il cui esito non per forza è negativo. Nel decorso di una malattia possono anche succedersi più crisi.
Questo concetto medico che parla di crisi di un organismo vivente, di un corpo umano, è stato applicato in ambito sociale in epoca moderna, nei secoli XVII-XVIII, a partire dalla comprensione dell’essere associati e del vivere insieme come corpo. La pólis è un corpo, la società civile è un organismo vivente che conosce fasi di benessere e momenti di deperimento e declino. Abbiamo qui una prima importante indicazione, sia sul piano civile che su quello della fede cristiana. Parlare di crisi applicata a una società o a una chiesa implica l’affermazione che la nostra società è un corpo, non un’azienda, che la chiesa è un corpo, non una macchina. La crisi ci dice qualcosa di molto positivo: siamo un corpo, siamo interdipendenti, non possiamo fare a meno gli uni degli altri.
L’osservazione psicologica mostra che la crescita umana suppone rotture e separazioni, dunque crisi [2]: la crisi è vitale, cioè essenziale per crescere. Anzi, possiamo affermare che la prima e più radicale crisi che ogni persona vive è la nascita: momento più che mai vitale e più che mai critico, doloroso, traumatico, pericoloso (per colui che viene al mondo e per colei che lo partorisce, senza calcolare che il nuovo nato imporrà una ristrutturazione degli equilibri di un’intera famiglia). La crisi non è dunque uno spiacevole incidente, ma un necessario momento di passaggio nel divenire di una persona. Come dunque è fuori luogo averne una visione puramente negativa, così il problema posto dalla crisi è anzitutto ascoltarla, accoglierla, lasciarsene interpellare, perché essa appare, soprattutto secondo la Bibbia, come un appello, come una parola da decifrare. In seconda istanza il problema che la crisi pone è il come gestirla, quale uso farne, o forse meglio, come consentirle di lavorare in noi e su di noi. Non si tratta di fuggirla o di rimuoverla, ma di elaborarla. Se è vero che ogni crisi è una crisi di identità, allora essa può essere colta e accolta come appello a ripensare se stessi, a ristrutturare i propri equilibri, a situarsi in una fase inedita della propria esistenza. Ma questo vale anche per un organismo comunitario: famiglia, società, chiesa.

La crisi come iniziazione
Accostare con occhi nuovi la realtà della crisi, senza ben inteso togliervi la drammaticità e senza dimenticare che vi sono crisi diverse che riguardano piani differenti (l’economia e la politica, la sociologia e la religione, la psicologia e la cultura), può essere importante per non sprecare l’occasione che essa rappresenta. Ben si esprime Christiane Singer, riferendosi a crisi esistenziali personali, nel suo saggio sul “buon uso delle crisi”: «Nel corso del cammino della mia vita ho raggiunto la certezza che le crisi avvengono per evitarci il peggio. Come esprimere che cos’è il peggio? Il peggio è aver attraversato la vita senza naufragi, cioè essere sempre restato alla superficie delle cose, aver danzato al ballo delle ombre, persi nell’inconsistenza, aver sguazzato nelle paludi dei “si dice”, delle apparenze, dei luoghi comuni, di non essere mai precipitato, andato a fondo in una dimensione altra e profonda di sé e delle relazioni. In mancanza di maestri, nella società in cui viviamo, sono le crisi i grandi maestri che hanno qualcosa da insegnarci, che possono aiutarci ad entrare nell’altra dimensione, nella profondità che dà senso alla vita. Nella nostra società tutto concorre a distoglierci da ciò che è importante e centrale, come se ci fosse un sistema di fili spinati e di interdizioni per impedire alla persona di accedere alla propria profondità... In una società in cui non sono indicate le vie per entrare nella profondità, resta soltanto la crisi per poter spezzare questi muri che ci circondano. La crisi serve, in certo modo, da ariete per sfondare le porte di queste fortezze in cui siamo rinchiusi» [3].
Le crisi dunque agiscono anzitutto come sintomo, come allarme, che ci induce a interrogarci: come mai siamo giunti fino a questo punto? Come mai siamo stati ciechi e sordi? Come mai abbiamo costruito corazze che ci hanno impedito di lasciarci toccare dalla realtà? Perché non abbiamo agito prima? Perché non abbiamo saputo discernere? Spesso la crisi è giudizio sugli egoismi, sull’irresponsabilità, sull’incoscienza dell’agire nostro o di chi ci ha preceduto.
Quindi le crisi agiscono come maestri, svolgono un ruolo iniziatico in una società in cui l’iniziazione è scomparsa. Prosegue la Singer: «Un amico antropologo mi ha riferito queste parole di un Africano che gli diceva: “Ma, signore, noi non abbiamo crisi, noi abbiamo le iniziazioni”» [4]. E le iniziazioni, che sono ritualizzazioni dei passaggi dell’esistenza umana, hanno sempre questo in comune, pur nella loro notevole diversità e creatività: mettono l’iniziato in contatto con la morte inculcandogli l’antico principio del “muori e divieni!”. La separazione, anche brusca o dolorosa del figlio dalla madre, cui segue un periodo anche lungo di segregazione, di “messa a parte” dell’iniziato (in cui può anche conoscere la sepoltura simbolica sotto rami e foglie per simboleggiare la sua morte), quindi il ricevere segni cruenti sul corpo (circoncisione, incisioni...) e infine l’integrazione nel gruppo sociale e il passaggio a uno stadio ulteriore della propria umanità, sono fasi di un processo di iniziazione presso popolazioni aborigene australiane attraverso le quali un fanciullo accede all’età adulta e si inserisce nella società degli adulti [5]. La finalità dei riti di iniziazione è di introdurre l’iniziato nella pienezza della condizione umana: è l’iniziazione che conferisce all’iniziato il suo status umano. E così, per quanto cruenti e spaventosi possano sembrare questi riti, tuttavia «non saranno mai così crudeli come l’assenza di riti» [6] che è propria delle nostre società occidentali. Presso di noi manca questa trasmissione di sapere umano, questa arte di introduzione alla vita e alle sue fasi, mancano traghettatori, mancano istituzioni e strutture a servizio dell’apprendimento dell’arte di vivere, manca forse ormai il tessuto sociale stesso che consenta un’iniziazione. Poiché dietro alla crisi economica vi è anche una crisi etica e culturale, questa crisi delle nostre società trova un aspetto rilevante nell’assenza di iniziazione, nella perdita di contatto con la realtà e con l’umano che fa sì che l’educazione diventi formazione alle tecniche, non iniziazione al senso. Così si esprimeva quasi vent’anni fa Pierre Harmel, già Ministro dell’Istruzione e poi Primo Ministro belga: «Ci accorgiamo di aver puntato tutto sull’economico... e non abbastanza sulla preparazione alla vita... È paradossale che i valori vitali siano sempre più ridotti nell’educazione» [7].
Alla luce di quanto detto, può emergere una possibile griglia di lettura della crisi che la coglie alla stregua di un rito di passaggio. La crisi può così svolgere un importante ruolo educativo: ci fa uscire dal consueto, dal rassicurante e dal ripetitivo, ci obbliga a prendere coscienza della realtà e a uscire dalle illusioni, ci obbliga a una lettura sincera e, se necessario, impietosa di noi stessi e degli assetti sociali, ecclesiali, economici, etici che ci eravamo dati. Ci obbliga a ripensare la nostra posizione nel mondo, senza assolutizzare la nostra crisi, ma vedendola accanto alle grandi crisi endemiche: fame, sete, povertà e miseria, malattie, di gran parte degli abitanti del pianeta. Si tratta di vedere la crisi caratterizzata dai tre elementi – tipici delle strutture iniziatiche – della separazione, della liminalità e della reintegrazione. Nella crisi si è chiamati a una morte, a una separazione da una fase precedente a cui ci si era acclimatati (separazione); ci si viene così a trovare in una situazione inedita sentita come precaria, instabile, temibile (liminalità), ma che può preludere a un riassetto, a un nuovo adattamento, alla creazione di nuovi equilibri che consentono una rinnovata presenza nel mondo e nella storia (reintegrazione) [8].
Queste prime osservazioni ci consentono di uscire da una comprensione unilateralmente negativa della crisi e di coglierla anche come chance.

Crisi e Parola di Dio
Ma per dei cristiani, è necessaria un’operazione spirituale di discernimento per cogliere che cosa sia una crisi davanti alla parola di Dio, al vangelo e per leggere l’attuale crisi alla luce della fede. Anzitutto va rilevato che per la testimonianza biblica la parola stessa di Dio pone in crisi, mette in discussione, non lascia intatti. La lettera agli Ebrei dice che la parola di Dio è kritikós (Eb 4,12): essa penetra fino alle profondità del nostro essere e di fronte a essa siamo nudi, spogli. Siamo dunque veri: ridotti all’essenziale e l’essenziale ha sempre a che fare con la nostra povertà e con la nostra verità. Fin dal giardino dell’in-principio (quando Dio dice ad Adamo: «Dove sei?», Gen 3,9), la parola di Dio pone in crisi. Il credente è colui che si lascia mettere in crisi dalla parola di Dio, se ne lascia interpellare, interrogare e giudicare.
Ora, se noi guardiamo l’insieme della Bibbia, vediamo che tipico di essa è che la crisi non è frutto di autoconsapevolezza del singolo o di una comunità che si sente a disagio e nemmeno è dovuta alle analisi di esperti che valutano una situazione come critica, ma viene svelata, compresa ed affrontata a partire dalla parola di Dio, da un verbum externum, spesso dalla parola profetica. La parola stessa di Dio, provocando l’impatto della volontà di Dio sulla realtà umana e storica, porta la krísin, il giudizio, su tale situazione. E può avvenire che una situazione che nessuno percepiva come di crisi sia sentita tale dalla parola di Dio svelata dal profeta. L’epoca di Geroboamo II – re in Israele tra il 783 e il 743 – era florida economicamente e certamente non sentita come epoca di crisi, ma proprio allora la profezia di Amos denunciò l’ingiustizia sociale che vanificava la prassi cultuale e religiosa. In questo caso, “la crisi appare come smascheramento» [9]. La parola di Dio vede la realtà da un’altra angolatura, da un altro punto di vista rispetto agli uomini. Il profeta osa questo sguardo e ne paga le conseguenze. La testimonianza biblica nel suo insieme, soprattutto nel Primo Testamento, presenta il cammino del popolo dell’alleanza come cammino di infedeltà umane a cui risponde la fedeltà divina, come cammino segnato da rotture interpretate come giudizio di Dio e a cui segue l’invito alla conversione e l’annuncio del perdono da parte del Dio misericordioso. Ciò che è crisi per il popolo di Dio non può essere determinato semplicemente da parametri sociologici o economici, ma dalla santità della Parola vivificata dallo Spirito. La Bibbia ebraica è in gran parte la storia delle crisi di Israele, la raccolta delle testimonianze delle parole che, in diverse forme e in diversi tempi, Dio ha rivolto al suo popolo nella storia per richiamarlo e correggerlo e fargli conoscere la propria qualità di misericordioso e capace di perdono. La Bibbia come testo fondatore di Israele quale popolo di Dio, è paradossale perché afferma che «Israele si fonda, come comunità religiosa e politica, non basandosi sui suoi successi, ma partendo dalle crisi che il verbum externum ha denunciato» [10]. Innestata sulla radice santa di Israele, la chiesa, che radica anche le proprie Scritture nelle Scritture d’Israele, trova nella Bibbia, un paradigma per leggersi nella storia davanti a Dio. E per leggersi teologicamente, non solo sociologicamente.
Possiamo dire che la Bibbia esprime una “teologia della crisi” [11], non solo nel senso che in buona parte essa si forma in quell’epoca persiana ed ellenistica successiva alla crisi epocale dell’esilio babilonese a cui reagisce assumendone anche la lezione, ma anche nel senso che essa presenta la varie maniere con cui la parola di Dio denuncia la distanza tra il popolo d’Israele e le esigenze della Torah, tra l’uomo e le istanze del vangelo, tra il mondo e il Regno di Dio. E questo è tanto più evidente da quando Gesù di Nazaret, parola definitiva di Dio all’umanità, ha inaugurato una crisi inaugurando il regnare di Dio nella sua persona. Ormai, il cristiano ha un criterio per decidere di una crisi e per chiamarla tale: la distanza fra il proprio agire e pensare e l’agire e pensare di Dio, la distanza fra sé e le esigenze del vangelo, la distanza fra ciò che vede nel mondo e intorno a sé e ciò a cui Dio destina l’uomo e il mondo. La distanza fra le volontà umane spesso asservite al profitto e dominate dall’interesse personale e di gruppo e la volontà di Dio che è volontà di pace, riconoscimento, fratellanza, solidarietà, giustizia universali. In una parola la distanza fra l’assetto personale, ecclesiale, storico e il Regno di Dio, cioè un mondo in cui Dio regni.

Note

1) B. Spinelli, «La crisi come occasione», in La Stampa, domenica 7 dicembre 2008
2) J. Viorst, Distacchi. Gli affetti, le illusioni, i legami e i sogni a cui tutti noi dobbiamo rinunciare per crescere, Frassinelli, Milano 1987 (10)
3) Ch. Singer, Du bon usage des crises, Albin Michel, Paris 1996, pp. 41-42
4) Ibidem, p. 43
5) Cf. M. Eliade, La nascita mistica. Riti e simboli d’iniziazione, Morcelliana, Brescia 1988 (3)
6) Singer, Du bon usage des crises, p. 43
7) P. Harmel, in La libre Belgique, 22 mars 1991, p. 2
8) Lo psicoanalista junghiano Murray Stein ha mostrato la fecondità dell’applicazione di questa struttura dei riti di iniziazione alla crisi del superamento dell’età di mezzo (M. Stein, Nel mezzo della vita, Moretti & Vitali, Bergamo 2004, pp. 34-35). In questo caso si tratta di separazione dall’atteggiamento “adattativo” che ha dominato la prima parte della vita dell’uomo (la persona, “maschera”, in senso junghiano), in cui questi ha cercato di affermare se stesso (il proprio Io cosciente, secondo Jung) trascurando altri aspetti psicologici che si sono così visti rimossi (l’Ombra, sempre secondo Jung). Questa separazione, questa perdita dell’identità precedente, situa l’uomo in una condizione di liminalità (dal latino limen, “soglia”), che è caratterizzata dall’incontro con il proprio inconscio, da un senso di identità “in sospeso”, da vulnerabilità, insicurezza e senso di morte, e che può sfociare in una rinascita. La reintegrazione è il positivo esito di questo percorso in cui una persona crea armonia tra le polarità che la abitano, soprattutto tra le sue parti femminile e maschile, ridà voce a quanto era rimasto nell’ombra nella prima parte della vita, perviene a un pieno sviluppo del Sé compiendo l’itinerario dell’individuazione (sempre in linguaggio junghiano). Si tratta, nella mia proposta, di applicare questo schema anche a livello sociale e comunitario.
9) D. Garrone, «Categorie interpretative della crisi secondo la Bibbia», in Filosofia e Teologia 2 (2005), p. 276
10) Garrone, art. cit., p. 271
11) Ibidem, p. 277

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.

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