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Esperienza del limite e vicinanza di Dio - Seconda parte: La verità umana

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28/07/2010

Prof. Roberto Mancini
Docente di Ermeneutica Filosofica, Università di Macerata

Se si rinuncia alla razionalizzazione del discorso sul limite e si ha la pazienza di considerare la condizione vitale delle persone, ascoltate e riconosciute nella loro umanità, si avverte l’esigenza di operare una distinzione di fondo. Da una parte esiste il limite implicato dalla condizione creaturale della persona: la nascita, la dipendenza dagli altri, il bisogno, la vulnerabilità e la fragilità, l’unicità, la corporeità secondo lo spazio e il tempo, la sofferenza, la malattia, la morte, l’esposizione al male, l’incompiutezza eppure la costante esigenza di compimento. Come si vede, molti di questi tratti non sono negativi in se stessi, semmai tutti sono segnati dall’inaggirabilità del confronto con il male. E’ in una condizione di questo tipo che si presenta d’altra parte il limite consistente nell’adesione al male stesso, quando ci si pone come soggetti di indifferenza verso gli altri, di negazione del bene, di violenza, di distruzione. Il senso della differenza tra i due tipi di limite è riassunto nel fatto che, mentre è tipico del limite creaturale l’essere esposti ai colpi del male subíto, il divenire “protagonisti” del male agíto costituisce propriamente quel limite, anzi quel passaggio del confine, quel “de-lirio”, che causa la nostra rovina. L’ideologia religiosa che riassume la condizione umana nella dottrina del peccato originale ha risolto il primo tipo di limite nel secondo, oscurandone la profonda differenza. Così è stato misconosciuto il fatto che la verità dell’identità umana universale non viene alla luce nella permanente e “naturale” complicità con il male e, d’altronde, nemmeno nei prometeici tentativi di riscatto della creaturalità tramite la costruzione di una propria onnipotenza.
La verità umana viene alla luce nella creaturalità della persona che giunge a pienezza nella libertà dal male. La possibilità di una simile confusione tra i due eterogenei tipi di limite ricorre nell’uso linguistico consueto dell’aggettivo “umano”, che ospita due significati opposti: da un lato si dice che l’errore e ogni forma di miseria morale sono qualcosa di “umano” nel senso della seconda nozione del limite, ma dall’altro si dice anche che un modo di comportarsi è “umano” per indicare che è stato degno, comprensivo, giusto, conforme alla nostra dignità. In quest’ultimo caso l’umano connota non solo ciò che è dato in noi per la condizione creaturale, ma più precisamente il meglio che sappiamo esprimere, una perfezione nel limite, una trascendenza nella finitezza. Allora l’aggettivo “umano” qui dice insieme il limite e il compimento della creatura. E’ una traccia importante, perché in tutte le esperienze di impotenza e di conseguente ricerca della potenza è implicata la percezione di se stessi e degli altri. La disperazione subentra allorché si sente che in tali esperienze è in gioco il valore di sé. Impotenza e fallimento sembrano distruggere questo valore, facendoci credere che siamo esseri da niente, irrilevanti. Kant (cfr. Critica del giudizio, Bari, Laterza, 1972, p. 111-118) ha osservato che nel sentimento del sublime, muovendo da ciò che letteralmente vive al di sotto del limite, affiora il senso della grandezza umana. Grandezza non per potenza, ma per dignità. La potenza delle forze naturali, dinanzi alle quali parremmo destinati a soccombere, indica per contrasto l’irriducibile dignità del più debole.
Vorrei a questo punto sottolineare che la differenza tra i due tipi di limite – la vulnerabilità creaturale e, invece, la complicità con il male – emerge non solo e non tanto sul piano teorico, quanto nell’adesione delle persone, seppure colpite e costrette a patire senza vie di evasione, a ciò che è alternativo al male stesso. Quando l’esperienza del limite ci getta in una condizione tragica, lì dove la sciagura si rivela come il nostro destino, tale negazione del nostro essere potrebbe inaspettatamente rivelarsi relativa. Si inizia a porre infatti un limite al tragico quando, nonostante tutto il male che ci colpisce, sentiamo distintamente la dignità umana, quando di qualcuno che è travolto dalla sofferenza, dall’ingiustizia e dalla morte non possiamo non riconoscere l’infinito valore. La testimonianza di Gesù rivela che «l’uomo è infinitamente più grande delle sue opere, dei suoi successi o insuccessi», tanto che proprio in Gesù, «in quest’uomo fallito, Dio non fallisce» (G. Fuchs, Dio fallisce? Riflessioni teologiche in prospettiva pratica, “Concilium”, n. 5, 1990, pp. 169 e 168). Ma chi vede questa verità umana non resta schiacciato, perché entra nello spiraglio di luce che così si è aperto. Foss’anche solo con il suo sentire o con un piccolo gesto, chi entra nella luce esprime un modo d’essere alternativo al male. Allora il limite imposto al tragico diventa concreto e resistente proprio perché, sotto la pressione estrema del male, diamo una risposta di bene.
Nella persona travolta, sconfitta e fallita, lì dove non sarebbe più neppure questione di limite perché ormai sembra essersi imposto inesorabile il destino di un oblio completo – quello di cui si ha la sensazione passando in un cimitero davanti a file e file di tombe di persone sconosciute, morte tanto tempo fa, senza che ci siano segni del ricordo di qualcuno per loro –, proprio lì la ragione viene invasa non dico dall’angoscia, ma da un sentimento più definitivo, il sentimento di morte. Lì dove si sente la vanità anche dell’angoscia, dove non ha più senso nemmeno l’attaccamento angoscioso alla vita. E’ lo stesso sentimento del limite negativo estremo a cui alludeva Gesù nel dichiarare «la mia anima è triste fino alla morte» (Mt 26, 38; Mc 14, 34). Il culmine dell’esperienza del limite, nel senso del male subíto senza che si abbia una via di liberazione, è segnato dall’insorgere del sentimento di morte. E proprio qui la ragione, che si muove pur sempre assumendo una scelta dal fondo dei suoi pensieri, è tentata di aderire al sentimento di morte. Se lo fa ne resta paralizzata, spenta. Ma se ancora resiste, allora inizia ad ascoltare la voce della coscienza. Che non è affatto, come vorrebbe Heidegger (cfr. op. cit., pp. 332-357), la voce che ci fa percepire la colpa di esistere. Credo che piuttosto la coscienza indichi con piena persuasione che non c’è alcuna giustizia nel destino della fine.

Biografia

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.
Oltre a circa 200 articoli e saggi brevi di etica, antropologia filosofica, teoria della verità e filosofia della religione, ha pubblicato i seguenti volumi:
- L’uomo quotidiano, Marietti 1985;
- Linguaggio e etica, Marietti 1988;
- Comunicazione come ecumene, Queriniana 1991;
- L’ascolto come radice: teoria dialogica della verità, Edizioni Scientifiche Italiane 1995;
- Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella 1996;
- Il dono del senso, Cittadella 1999;
- Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon 2002;
- Senso e futuro della politica, Cittadella 2002;
- L’uomo e la comunità, Qiqajon 2004;
- Il senso del tempo e il suo mistero, Pazzini 2005;
- L’amore politico: sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella 2005;
- Esistere nascendo: la filosofia maieutica di Maria Zambrano, Edizioni Città Aperta 2007;
- L’umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell’età della globalizzazione, Pazzini 2008.
In collaborazione con altri autori ha inoltre scritto “Etiche della mondialità” (Cittadella 2007).
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.

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