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Un futuro nel nome di Cecilia

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15/06/2011

Elena Lisa
Articolo originale tratto da: La Stampa, 28 maggio 2011, p. 51 e 63

Si ringrazia "La Stampa" per la gentile concessione

Guida alla lettura

Oggi non proponiamo una pagina di letteratura, ma la toccante testimonianza di un padre che ha perso la figlia in un incidente automobilistico. E’ la storia di «un dolore senza nome», ma anche di una profonda trasformazione esistenziale, che porterà l’uomo a battersi per una maggiore sicurezza sulle strade e a costituire una Fondazione per sostenere gli studi di giovani capaci ma privi di mezzi, che «s’impegnano e meritano che qualcuno creda in loro».
Nell’intervista rilasciata al quotidiano “La Stampa” di Torino, Alessandro Gilardi ci insegna come anche un male tanto forte da annientare l’anima e la vita – e per il quale non esiste neppure una definizione elaborata dal linguaggio – possa essere superato, perché «azzera anche tutte le paure e rende liberi». E così, da un male assoluto e potenzialmente capace di ottundere ogni volontà di resistenza, è nato un bene costruito giorno dopo giorno, per il futuro di giovani come Cecilia.
La vicenda ci parla anche di una nuova vita spirituale: ma il profondo legame che continua a esserci fra padre e figlia non ha nulla del solipsismo mistico e altero che a volte caratterizza certe conversioni. E’ un legame fatto di valori e ideali che Cecilia viveva senza ostentazioni, e che ora rivivono in Alessandro al servizio dei meno fortunati. Davvero un legame eloquente per tutti, e che tutti, credenti e laici, possiamo tentare di stabilire con chi abbiamo amato con tutto il cuore, e ora non è più accanto a noi.
Dedichiamo la testimonianza di Alessandro a tutti i genitori che hanno perduto un figlio o una figlia, nella speranza che anche per loro si apra un giorno la possibilità di credere che «la vita ha comunque un senso».
Questa è la storia di un padre e una figlia che crescono insieme. Di un rapporto fatto di cose condivise, altre meno, alcune per niente. Di una vita intrecciata di pianti e risate. E’ la storia di Alessandro Gilardi, un ingegnere capace, stimato e affermato, e di sua figlia Cecilia, morta a 17 anni trascinata da un’auto guidata da un ottantenne confuso che ai vigili disse di non essersi accorto di averla agganciata. E’ la storia di un dolore senza nome, e dell’alba di una trasformazione.
«I genitori non dovrebbero veder morire i loro figli. Non lo concepisce la natura, non l’ha elaborato il linguaggio. Per persone come me non è prevista una definizione. Chi perde il coniuge si chiama vedovo, chi i genitori, orfano. Non c’è titolo per chi seppellisce i figli».
Alessandro Gilardi è seduto nella sala riunioni, all’ultimo piano della sua società, in via Vela a Torino. La bocca ogni tanto sorride, gli occhi mai. Qui ha lavorato per progettare i lavori per lo stadio della Juventus, per riqualificare il comprensorio Iveco, per realizzare un complesso residenziale nell’ex area Alfa Romeo, a Milano.
E sempre qui, nel quartier generale dove discute di affari, oggi parla di Cecilia e di tutto ciò che ancora bisogna fare per lei: «Ci siamo battuti per una legge più restrittiva sul rinnovo delle patenti, avrei voluto fare di più, ma almeno ho ottenuto una revisione annuale dopo gli ottant’anni. Adesso dobbiamo sostenere studenti in difficoltà e ragazzi disabili. Offriremo chance a ricercatori, daremo spazi ai giovani, luoghi dove possano riflettere per non perdere di vista cosa conta davvero».
Gilardi è solo, ma se non parla al singolare non è per errore. Dice «ci siamo battuti, offriremo, daremo» perché non parla per sé. Parla per loro. Per lui e Cecilia che è la radice del suo strazio e la nascita della sua conversione. E’ ispirandosi a lei che ha deciso di costruire la nuova chiesa per il Sermig, all’Arsenale della Pace. Una cattedrale di luce e mattoni. «Cecilia si dava alle persone più che poteva. Lasciava poco per sé. Me l’hanno descritta così le sue compagne dopo i funerali. Io sapevo che era una creatura speciale, ma è come se l’avessi scoperta solo in quel momento. Adesso voglio fare che cos’avrebbe fatto lei: aiutare chi ha bisogno. Mi sto aggrappando alla fede. Ho riscoperto anche quella».
Alessandro Gilardi è un torrente in piena quando spiega i suoi progetti, prima la proposta di legge, poi la chiesa del Sermig, adesso una fondazione a nome di Cecilia, nata per sostenere i ragazzi più poveri, ma che studiano, s’impegnano e meritano che qualcuno creda in loro: borse di studio per l’estero, progetti di ricerca finanziati, libri e computer per le scuole.
E’ come se il tempo gli scappasse dalle mani. Si ferma e controlla le parole solo quando gli si chiede di lui, di come sta, di come sia possibile convivere con una croce simile sulla schiena. Quasi schiva il discorso: «La sofferenza non ti permette sfumature: quando progetti non la senti, se stai fermo ti toglie il fiato. Sono un uomo che oggi si muove con due marce: avanti e indietro. Il male può essere così forte da annientare chi lo prova, ma azzera anche tutte le sue paure. Perciò il dolore rende liberi».
Liberi di fare e di essere ciò che non si è mai stati. Per impegni, lavoro, condizioni di vita, sovrastrutture e convinzioni su noi stessi. «Mi è capitata la cosa più terribile che possa succedere a un uomo. Ma ho deciso di credere che ora mia figlia stia in un posto speciale, di credere che stia meglio di me. Ho deciso di credere che nella mia vita sosterrò chi è in difficoltà. Ho deciso di credere che la vita ha comunque un senso. Ho deciso di credere».
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