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Da inerti a consapevoli: per una sofferenza feconda di vita

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Da inerti a consapevoli: per una sofferenza feconda di vita
17/03/2021

Tratto da:
Enzo Bianchi, L’enigma del dolore, La Repubblica, 1° marzo 2021

Guida alla lettura

In questo brano Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose e figura spirituale fra le più alte del nostro tempo, riflette sul senso del dolore, introducendo un’importante differenza tra il male fisico, inspiegabile e insensato, e la sofferenza esistenziale, che ci può cambiare nel profondo se accettiamo di sottometterci con intelligenza critica alla nostra costitutiva fragilità.
L’articolo inizia con un’antitesi cara al nostro Autore: il dolore non è un mistero, ma un enigma. Cerchiamo di capire con l’aiuto del vocabolario Treccani. Il termine “enigma” (dal greco “ainÍssomai”, parlo copertamente) indica un breve componimento, per lo più in versi, che propone, attraverso immagini e allusioni, un concetto o una parola da indovinare (se l’enigma è breve e si riferisce a una cosa comune si chiama indovinello); per estensione, ma negando la possibilità di una soluzione, passa a designare una frase di significato oscuro, inspiegabile, indecifrabile. “Mistero”, invece, indica originariamente la celebrazione di un rito d’iniziazione, un culto segreto: di qui viene a indicare, anche nel cristianesimo, una verità soprannaturale che non può essere conosciuta con le forze dell’intelligenza umana, ma solo attraverso una rivelazione di Dio. Nella lingua corrente, meno attenta alla differenza fra i due campi semantici, i termini enigma e mistero sono spesso intercambiabili.
Nel sintetico incipit, incisivo come un epigramma, Bianchi esprime dunque un concetto fondamentale: non illudiamoci di spiegare l’esistenza del dolore ricorrendo alla “volontà” di Dio, ai sui disegni imperscrutabili, ma accettiamo di prenderlo per quello che è: una realtà di cui non conosciamo l’origine e la ragione, ma con la quale dobbiamo venire a patti se non vogliamo cadere nella trappola di costruzioni metafisiche prive di agganci con la struttura profonda dell’essere.
Il seguito della riflessione precisa alcuni corollari e mette in guardia da facili scorciatoie. Accettare il dolore come componente ineludibile della vita non vuol dire credere che esso vada “offerto” a Dio, come un certo cristianesimo ha lungamente predicato, e predica; né significa contrastarlo con strategie analgesiche disumanizzanti che ottundano la possibilità di vivere con piena consapevolezza le prove della vita e di trarre dalla sofferenza un insegnamento che ci cambi in profondità, secondo l’insegnamento antico del “páthei máthos”, dell’imparare attraverso la crisi.
Allora l’idea di crescere attraverso il dolore perde i connotati di una superstizione devota, o di una vana ribellione, e diventa elemento essenziale di un’esistenza quotidiana realmente vissuta, come raccomanda Giacomo Leopardi nel “Dialogo di un fisico e di un metafisico”: «La vita debb’essere viva, cioè vera vita». Il discrimine qualitativo di un’esistenza siffatta non passa più fra presenza e assenza del dolore, ma fra sopravvivenza inerte e vissuto fecondo, nell’ardua consapevolezza con ogni istante in cui accettiamo di fronteggiare la sofferenza in modo costruttivo, senza titanismi eppure con coraggio e incessante sorveglianza sulle dinamiche che essa accende in noi, diviene un momento essenziale del cammino verso l’orizzonte interiore a cui ci sentiamo chiamati, di chiarimento di noi stessi rispetto a chi siamo e a chi vogliamo essere nel breve volgere dei nostri giorni.

Il brano

Non è un mistero, ma un enigma mai risolto: quello del dolore, della sofferenza nell’umanità e nel mondo. Enigma che accompagna l’essere umano in tutti i tempi e le culture, che desta domande alle quali non si danno risposte convincenti, che le religioni e le spiritualità tentano di trasformare in mistero, senza peraltro riuscirci.
In questa stagione di pandemia che continua ad attaccarci con le sue ondate, cresce la cognizione del dolore, anche se nella nostra vita sociale e personale quotidiana domina non solo una algofobia, una paura angosciata del dolore. Si cerca anche di rimuoverlo e di negarlo, giudicandolo il grande intruso nelle nostre vite. In realtà, nel tentativo di leggere – non dico di spiegare – il dolore, dovremmo saper distinguere tra il dolore fisico con la sua insensatezza e la sofferenza che è sensibilità, vulnerabilità, persino passione.
Oggi preferiamo invece ricorrere a ogni tipo di anestetico per non attraversare terre di dolore. Anche nelle storie d’amore pensiamo che, se dobbiamo soffrire, allora non vale la pena di percorrerle, e spegniamo ogni fiducia nell’altro, fiducia che richiede a volte di soffrire insieme per poter vivere insieme. Confesso inoltre la mia personale e crescente idiosincrasia per la nuova “religione” che avanza: una ricerca dello “stare bene” con sé stessi e con gli altri, un spiritualità etico-psicologica del benessere personale, una salvezza che coincide con un’armonia anestetizzante e palliativa.
Pensiamo alla felicità come a un diritto, e proprio per questo ci siamo resi ancora più infelici: nelle nostre esistenze la felicità si dà solo come un’ora, una stagione, un attimo, mentre non riesce mai a rimuovere il dolore che appare come necessitas della nostra fragilità e mortalità. Il dolore fa parte della vita, per questo Eraclito ammoniva: «È la malattia che rende dolce la salute, la fame che rende piacevole la sazietà, la fatica che ci fa amare il riposo».
Tutti abbiamo imparato che il dolore va combattuto, che occorre resistergli, e soprattutto che il dolore fisico va vinto, pena la disumanizzazione. Ma l’aver sofferto ci cambia, può significare una catarsi, può renderci esperti in umanità, capaci di com-patire la sofferenza. Nessuna glorificazione del dolore, e i cristiani al riguardo devono vigilare sulle pesanti eredità del passato; nessuna offerta a Dio del dolore; nessuna resa, ma una resistenza per alleviare il dolore e, nel contempo, una sottomissione alla nostra fragilità.
Chi legge con sapienza la sua vita passata, comprende che senza dolore non ha né vissuto né amato, ma ha praticato solo una sopravvivenza anestetizzata priva di sapore. Come ricorda Alain Badiou nel suo libretto aureo “Elogio dell’amore”, ci sono siti di incontri che promettono: «È possibile amare senza soffrire». Ma in realtà se noi siamo invulnerabili l’altro non riesce a ferirci, allora è solo un oggetto per il nostro consumo. Una canzone che più volte ho ascoltato in Andalusia, in Provenza e in Grecia ammonisce: «Se ami, tu soffri. Se sei felice, tu soffri. Se vivi, tu soffri». Amo canticchiarla ancora da vecchio.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. E’ stato priore dalla fondazione del monastero sino al 25 gennaio 2017: gli è succeduto Luciano Manicardi.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
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