Guida alla lettura
E’ questo, in sintesi, il messaggio della terza e ultima parte della riflessione di Luciano Manicardi sul significato esistenziale della crisi e sull’importanza di viverla come occasione di crescita, a livello non solo individuale ma anche sociale.
L’importante, avverte Manicardi, è che l’enorme potenziale di rinnovamento contenuto nella crisi non vada sprecato in «battaglie di retroguardia». E perché questo non avvenga, perché la crisi segni davvero un nuovo inizio, abbiamo bisogno di una parola coraggiosa, che sveli i rischi dei nostri stili di vita, delle nostre regole economiche, delle nostre politiche, del nostro rapporto con l’ambiente, una parola che veda le ragioni della crisi e anche le ragioni della nostra paura, ma che «faccia evolvere la paura in speranza e fiducia». Una parola come quella degli antichi profeti, la parola «di chi si espone, di chi finalmente osa, di chi non si cela dietro la troppa prudenza, ma dice la verità e, se occorre, la grida».
Questa parola lucida ed esigente può scaturire, per ciascuno di noi, da contesti molto diversi: le grandi tradizioni spirituali, le filosofie, l’esempio di un padre o di una madre, la denuncia di uomini e donne coraggiosi. Poi, però, è essenziale saperla ascoltare e lasciarla agire negli strati più profondi della nostra intelligenza e della nostra volontà, senza restare alla superficie delle cose e senza accontentarsi di reazioni puramente emotive, momentanee.
Al termine di questo anno segnato da una crisi globale delle relazioni economiche, degli equilibri strategici, della fiducia collettiva e individuale, auguriamo a tutti di saper fare di ogni difficoltà un’occasione di resistenza al potere dell’effimero e di ritorno a ciò che davvero conta nella vita.
Soprattutto l’esperienza profetica mostra l’essenzialità della parola profetica che interviene nei momenti critici per destare le coscienze dei membri del popolo di Dio e svelare loro ciò che sta avvenendo sotto i loro occhi o ciò di cui essi stessi si stanno rendendo responsabili. Sì, nella crisi il credente è chiamato a essere un resistente, uno che lotta nella prova come Giobbe, uno che deve incontrare l’opposizione di potenti e di sacerdoti di corte come Geremia, ma anche a trovare il coraggio della parola. Senza la parola profetica, senza la parola che annuncia il giudizio di Dio, la crisi non è colta nella sua portata e non è superata. Certo, nella crisi, nelle difficoltà, quando i malvagi prosperano, quando i giorni sono cattivi, la tentazione del credente è quella di “parlare come loro”, di assumere i modi vincenti degli arroganti, come avviene per l’orante del Salmo 73 che, dopo aver svelato la propria invidia per gli empi che prosperano, sono ricchi, potenti, hanno tutto, afferma: «Se avessi detto: “Parlerò come loro”, avrei tradito la comunità dei tuoi figli» (Sal 73,15). Sì, i tempi difficili ingenerano anche la crisi del credente che può essere espressa in questi termini: e se fosse tutto inutile? Se mi fossi sbagliato? Se non ne valesse la pena? Che cosa ci guadagno? Non è meglio adeguarsi e conformarsi al modo di vivere dei vincenti? Il salmista del Sal 73 si chiede: «È dunque invano che ho purificato il mio cuore e lavato le mani nell’innocenza?» (v. 13). La crisi è una prova della perseveranza, della fedeltà e della pazienza, anche nel senso di capacità di sofferenza, del credente. Ma poi, la crisi richiede il coraggio della parola, la parrhesía, la franchezza di chi si espone, di chi finalmente osa, di chi non si cela dietro la troppa prudenza, ma dice la verità e, se occorre, la grida. Mi piace citare, come esempio di parola coraggiosa in momenti critici, la testimonianza che Roberto Saviano offre a proposito di don Peppino Diana, uomo che ha osato la parola evangelica in situazione di crisi davvero drammatica, anzi tragica. Scrive Saviano: «Pensavo alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando» (1). Don Peppino Diana fu ucciso il 19 marzo (era il giorno del suo onomastico) 1994.
Se nei momenti difficili la paura si fa strada, occorre uscire dalla paura che paralizza l’azione e zittisce le parole per rendere la paura virtù facendola evolvere in responsabilità. Forse è venuto il tempo di riabilitare i profeti di sventura, o meglio coloro che sanno leggere i rischi di uno stile di vita, di una economia, di una politica, di un rapporto con l’ambiente, che può condurre a disastri per le generazioni future e per il mondo, oltre che ad aggravare il divario già esistente fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Se non altro, il profeta che mette in guardia dai rischi delle nostre condotte attuali può contare sul fatto che agli uomini, per loro natura, non basta sapere per credere. Tutti sappiamo che dobbiamo morire, ma normalmente ci comportiamo come se fossimo immortali: «Nessuno crede alla propria morte», scrive lapidariamente Freud (2). Non crediamo alle catastrofi ambientali se non quando avvengono, non crediamo alla nostra morte se non quando ci tocca da vicino.
Al tempo stesso, la parola profetica nel tempo della crisi non è solo una parola di denuncia e che annuncia sventura, ma che prospetta un futuro e lo crede e rende possibile. Giona, predicando contro la propria volontà la sventura a Ninive ha aiutato la conversione e il cambiamento del futuro già segnato della città pagana. Ecco la parola di cui c’è oggi bisogno: di una parola che vede la crisi e i motivi di paura, ma che fa evolvere la paura in speranza e fiducia. Occorre sviluppare ed esercitare la capacità dell’immaginazione: prospettare alternative, creare orizzonti, immaginare possibili. Non dimentichiamo che «la Bibbia è un libro che immagina la verità» (3), molto più che asserirla in proposizioni dogmatiche e astratte. Questa parola al tempo stesso lucida e portatrice di speranza, disincantata e aperta al futuro, critica e vitale, che vede il reale e immagina il futuro, è la parola paradossale che può far eco oggi alla parola paradossale che è il vangelo: quel vangelo che è paradosso dall’inizio alla fine in quanto annuncia che gli ultimi saranno i primi, che gli afflitti sono beati, che la morte sarà vinta.
La conversione
Questa parola profetica fa appello alla libertà dell’uomo e mette in moto la sua capacità di cambiamento e di metamorfosi. Questa parola dà voce alla crisi chiedendo conversione all’uomo, indicandogli che è giunto il momento di un cambiamento di vita, di una svolta. Questo è costante nei profeti, si pensi in particolare a Geremia, ma questo è centrale anche nella predicazione di Gesù di Nazaret. La crisi qui viene colta come appello a ritrovare la propria verità davanti a Dio. «Ritornate, figli traviati – dice Dio secondo Geremia – e io guarirò le vostre ribellioni» (Ger 3,22): la crisi troverà uno sbocco positivo con la conversione, ovvero con il concreto ri-orientamento del proprio cammino esistenziale. E conversione significa porsi sotto la signoria dell’evangelo e delle sue esigenze radicali e ritornare all’essenziale evangelico: in questo modo la crisi, operando il suo vaglio e il suo giudizio, può orientarci verso l’essenziale. L’essenziale espresso chiaramente da Geremia: «Se davvero vuoi ritornare, Israele, è a me che dovrai ritornare» (Ger 4,1). Ma occorre anche dire che oggi questa conversione non può esaurirsi in un sentimento del cuore, ma deve divenire testimonianza, prassi, cambiamento di stile di vita. La differenza cristiana deve manifestarsi in comunità alternative, in cui si vivono valori forti e controcorrente: solidarietà, servizio, perdono, pazienza, attesa dei tempi dell’altro. E deve più che mai divenire forma di vita ispirata a sobrietà e solidarietà. Si tratta di passare da quella cultura consapevolmente anti-ascetica e consumistica tipica dell’Occidente, a una cultura ascetica ispirata a sobrietà, a capacità di scelta perenne dell’essenziale, soprattutto capacità di considerare l’altro e soprattutto il più piccolo e bisognoso... La crisi può in questo modo essere positivamente elaborata e divenire fattore di mutamento evangelico della comunità cristiana. Del resto, questo è il cammino che viene prospettato nei sette messaggi alle chiese del’Apocalisse (Ap 2-3): un cammino in cui ciascuna chiesa è messa in crisi dal Cristo risorto che si presenta e parla a ciascuna chiesa esprimendo un giudizio su di essa e un invito a conversione. E compiere questo cammino esige il riconoscere i propri peccati, incontrare la misericordia del Signore e fare esperienza del suo perdono vedendo così rinnovata la propria vocazione. Queste categorie – giudizio, perdono, vocazione – declinano la crisi a livello biblico. E questo ci porta a chiederci come ultimo passo del nostro itinerario: la crisi è una fine o un inizio?
Crisi: fine o inizio?
Connessa com’è alla parola di Dio, al verbum externum che la rivela, la crisi, biblicamente, è legata alla chiamata che viene da Dio, dunque all’inizio della storia che il Signore vuole fare con l’uomo, ma è anche presente in ogni frangente e a ogni versante di questa storia in cui ci sono delle “fini” che possono divenire mutamenti, rinnovamenti, cambiamenti. La vocazione di Pietro, secondo Luca (Lc 5,1-11) è una crisi in cui Pietro fa fiducia alla parola («Sulla tua parola getterò le reti»: Lc 5,5) del Signore («Signore»: Lc 5,8) e, nel momento di massima vicinanza e comprensione di chi sia per lui Gesù di Nazaret, è scoperta della sua distanza da Gesù («Allontanati da me»: Lc 5,8) e del suo essere peccatore («Io sono un peccatore»: Lc 5,8). La vocazione è inizio e crisi. È inizio perché è crisi. Più avanti nel vangelo e nella sua personale sequela di Gesù, Pietro mette in crisi la sua vocazione, mette in dubbio la crisi iniziale e originante. Egli rinnega per tre volte Gesù, ed ecco che, annota Luca, «il Signore» (Lc 22,61) lo guardò ed egli si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto (cf. Lc 22,61), e Pietro riconosce la sua distanza dal Signore («uscito fuori»: Lc 22,62) e il suo essere peccatore («pianse amaramente»: Lc 22,62). La crisi della vocazione diviene occasione di rinnovamento della chiamata iniziale. Mentre è inizio, la crisi è fine, e mentre è fine, la crisi è inizio.
Claude Monnier ha sviluppato grosso modo questo idea affermando che la crisi è un ciclo che si snoda attraverso queste fasi: crisi, riorganizzazione, consolidamento, stabilità, mineralizzazione, crisi. Spieghiamo: la crisi, che è rottura e disordine, fa nascere qualcosa di nuovo, buono o cattivo che sia. Questo novum si stabilizza, quindi arriva a indurirsi, a mineralizzarsi fino a che non riesce più a sopportare adattamenti alle cangianti esigenze dei tempi. Quando la tensione fra queste esigenze e l’ordine mineralizzato diventa troppo grande, ecco il crack, la crisi, e il ciclo ricomincia. Scrive Claude Monnier: «Questa concatenazione si verifica nella geologia del pianeta come nella storia dei popoli, delle istituzioni, delle imprese, e infine della nostre vite individuali» (4).
Conclusione
“Non sprecate le crisi” potrebbe essere l’avvertimento che nasce dalla nostra relazione. Di fronte alle crisi il rischio che corriamo facilmente è di negare o di rimuovere, o di fuggire ed evadere, o di darsi da fare per chiudere la breccia, o per mutare solo la superficie e non la sostanza, il fondo delle cose, o per cercare di riparare ciò che non può più essere riparato. Il rischio è che si combattano battaglie di retroguardia per paura. Ma forse, alla luce di quanto detto, si può osare anche uno sguardo altro sulla crisi. La crisi è occasione di intelligenza («L’uomo che non ha alcuna crisi non è in grado di giudicare nulla») (5) e di azione responsabile. La crisi sollecita e attende la nostra responsabilità. A noi la risposta. In questo la crisi ci giudica. Oppure, come conclude Barbara Spinelli: «Crisi è sottoporsi al giudizio, al processo. È ora che il processo cominci» (6).
Note
2) S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991, pp. 29-30: «A sentir noi, eravamo ovviamente pronti a sostenere che la morte è l’esito necessario di ogni esistenza, ... che la morte è un fatto naturale, innegabile ed inevitabile. In realtà, però, di solito ci comportavamo come se le cose stessero in modo completamente diverso. Abbiamo mostrato una chiara tendenza a metter da parte la morte, ad eliminarla dalla vita. Abbiamo cercato di soffocarne la voce... In fondo, nessuno crede alla propria morte, o, il che è lo stesso, ognuno di noi è inconsciamente convinto della propria immortalità».
3) «Introduzione», in Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia (a cura di L. Ryken, J. C. Wilhoit, T. Longman III), San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2006, p. XXI
4) C. Monnier, «Ne gaspillez pas les crises», in Le Temps stratégique, Février 1991, p. 7
5) Johann Heinrich Zedler nell’Universal Lexicon del 1737, citato da B. Spinelli, «La crisi come occasione», in La Stampa, domenica 7 dicembre 2008
6) B. Spinelli, at. cit.
Biografia
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.