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Orgoglio e disperazione, doppio inganno dello spirito umano

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03/03/2010

Tratto da:
Dietrich Bonhoeffer, L'ora della tentazione, Queriniana, Brescia 1968, pag. 89-95
In: Comunità Monastica di Bose (a cura di), Letture dei giorni, Piemme, Casale Monferrato 1994, pag. 121-122

Guida alla lettura

Questa breve pagina di Dietrich Bonhoeffer – pastore protestante ucciso dai tedeschi nel 1945 – echeggia i temi trattati da Enzo Bianchi in “Acedia, male di vivere”. In quell’articolo, Bianchi descriveva l’acedia come «sconforto, svogliatezza, pigrizia, scoraggiamento, tedio, noia, disgusto, male di vivere, torpore, superficialità, mancanza di resistenza, di profondità, di perseveranza in un luogo e in un lavoro», e citava lo stesso Bonhoeffer, giunto a definirla come “perdita della memoria morale”, tipica di chi «non è disposto ad assumere la responsabilità di un passato e a dare forma a un futuro». Oggi Bonhoeffer ritorna su questa antichissima forma di male – già conosciuta e temuta dai monaci del deserto, nel IV secolo della nostra era – approfondendone gli aspetti più strettamente spirituali, e giustapponendola, in un contrasto antropologicamente originale e teologicamente convincente, al male parallelo dell’orgoglio, dell’eccessiva sicurezza di sé.
Il taglio dell’analisi è molto “religioso” e presuppone una fede nel trascendente, dal momento che i due atteggiamenti vengono studiati con riferimento al rapporto con Dio. L’orgoglio spinge a essere sicuri della salvezza, a sottovalutare la portata e la gravità dei propri errori. L’acedia conduce invece a non credere all’amore di Dio, a disperare del suo perdono, a convincersi di non contare nulla agli occhi del Creatore: è il peccato “teologico” di Giuda che, a differenza di Pietro (capace di pentirsi dopo il rinnegamento di Cristo), correrà a impiccarsi per aver consegnato il Maestro alle autorità giudaiche e romane.
Questa pagina così religiosa, però, interpella tutti, perché può svelarci qualcosa di molto importante anche rispetto alle dinamiche della vita quotidiana. L’altalena infernale tra la sicurezza dell’orgoglio e la resa della disperazione, infatti, può caratterizzare tutti i rapporti che una persona intrattiene con se stessa, con le cose, con gli altri: «Posso continuare a essere quello di sempre, tanto figuriamoci se mia moglie mi lascia...», «L’alcol? Sì, fa male, lo so, ma io bevo poco, e poi mi aiuta a tenermi su...», «Noi non chiediamo scusa, se vogliono si fanno vivi loro» o, per contro, «Mio figlio è intrattabile... non riuscirò mai a dialogare veramente con lui», «Il mio lavoro? Un disastro, ma ormai a 50 anni cosa posso fare d’altro?», «Iniziare la chemio? Non se ne parla neanche, tanto con la sfortuna che ho...».
Lasciare che la sfiducia radicale o la sicurezza arrogante si impossessino della vita significa condannare noi stessi, o gli altri, alla logica dell’«ormai», a trasformare in un deserto ciò che poteva fiorire, a troncare anzitempo ciò che poteva durare e dare senso ai nostri giorni. Rinunciare all’orgoglio non è debolezza, fugare la disperazione non è avventatezza, ma assunzione del limite che è in noi e negli altri, apertura al futuro, disponibilità a fare spazio al bene che possiamo ricevere e donare. Perché, parafrasando Bonhoeffer, la vita può sempre avere un grande progetto anche per noi.
Le tentazioni spirituali, con cui il diavolo attacca i cristiani, hanno un duplice scopo: che il credente cada nel peccato dell’orgoglio spirituale (“securitas”) o soccomba nel peccato della disperazione (“desperatio”). Ambedue i peccati, però, si riconducono al solo peccato della tentazione di Dio.
Nel peccato dell’orgoglio spirituale il diavolo ci tenta, illudendoci sulla serietà della Legge di Dio e dell’ira di Dio. Egli prende nelle sue mani la Parola della grazia di Dio e ci suggerisce che Dio è un Dio d’amore e perciò non prenderà tanto sul serio il nostro peccato. Con ciò risveglia in noi il desiderio di peccare, fidando nella grazia di Dio, e di aggiudicarci il perdono già prima di aver peccato. Ci fa sentire sicuri della grazia: siamo pur suoi figli, abbiamo Cristo e la sua croce, siamo la vera Chiesa, non può più accaderci nulla di male. Dio non ci imputerà più alcun peccato... Questa via finisce con l’idolatria. Il dio benevolo è divenuto un idolo che serve. Ma questa è una palese tentazione di Dio, una sfida all’ira di Dio.
Alla tentazione della “securitas” si oppone quella della “desperatio”, dell’acedia. Non si tratta, in questo caso, di attaccare e mettere alla prova la Legge e l’ira di Dio, ma la grazia e la promessa di Dio. A questo scopo Satana rapisce al credente ogni gioia derivante dall’ascolto della Parola di Dio, ogni esperienza della bontà di Dio: invece riempie il cuore di paura del passato, del presente e del futuro. Colpe passate, e dimenticate da tempo, improvvisamente mi si ripresentano alla mente come se fossero accadute or ora. Aumenta l’opposizione alla Parola di Dio, e tutta la disperazione di fronte al futuro in presenza di Dio si impadronisce del mio cuore. Dio non è mai stato con me, Dio non è con me, Dio non mi potrà mai perdonare; il mio peccato è troppo grande perché possa essere perdonato. E così lo spirito dell’uomo si rivolta contro la Parola di Dio. Pretende un’esperienza definitiva, una dimostrazione concreta della grazia divina, altrimenti, disperando di Dio, non vuole più sentire la sua Parola (...), come se il nostro peccato fosse troppo grande per Dio, come se Cristo avesse sofferto solo per i peccatucci e non per i veri grandi peccati di tutto il mondo, come se Dio non avesse grandi progetti anche per me, come se non avesse preparato anche per me un’eredità nel cielo.

Biografia

Dietrich Bonhoeffer nasce nel 1906 a Breslavia, in Polonia, da una famiglia protestante di origine berlinese. Studia teologia a Tubinga e a Berlino, e successivamente approfondisce la sua preparazione di pastore e teologo a Barcellona, New York e Londra.
Nel 1931 torna in Germania, per insegnare all’Università di Berlino. All’indomani della presa del potere da parte di Hitler, tiene una conferenza via radio sul concetto di autorità: afferma con coraggio che, se il capo (führer) permette al seguace che questi faccia di lui un idolo, allora diventa un pericoloso seduttore (verführer). Entrato nel mirino del regime, dal 1933 al 1935 si stabilisce a Londra per seguire due comunità evangeliche tedesche. Al rientro assume la direzione del seminario della Chiesa confessante, fondata l’anno precedente dai pastori luterani in contrasto con l’acquiescente gerarchia ecclesiastica ufficiale. Il seminario, situato sul Mar Baltico, verrà chiuso due anni dopo per ordine di Himmler.
Nel 1939 Bonhoeffer accetta una cattedra negli Stati Uniti: ma pochi mesi dopo, allo scoppio della guerra, rientra definitivamente in patria, per condividere il destino del suo popolo. Aderisce alla resistenza e alle manovre per attentare alla vita di Hitler, che culmineranno nel fallito attentato del 20 luglio 1944. Imprigionato sin dall’aprile del ‘43, viene impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg il 9 aprile 1945, un mese prima della resa della Germania.
Nel periodo della detenzione, produce una serie di scritti che verranno poi raccolti nel volume “Resistenza e resa”, la sua opera più famosa, in cui riflette sul rapporto tra fede e azione. E a un compagno di prigionia italiano che gli chiedeva come avesse potuto un sacerdote cristiano partecipare a una cospirazione politica violenta, sia pure contro un tiranno sanguinario, disse: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, accontentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante».
Per un primo approfondimento del pensiero religioso e politico di Bonhoeffer, suggeriamo la lettura del saggio di Italo Mancini: “Dietrich Bonhoeffer. Un resistente che ha continuato a credere”, Edizioni Qiqajon, 1995.
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