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Il tempo che muore – Seconda parte

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26/05/2010

Luciano Manicardi
Monaco di Bose

Testo della relazione tenuta al Corso di formazione per pastori e diaconi protestanti sul tema "Temps, vie et ministère: assumer ou subir", Bose, 28 febbraio - 5 marzo 2010

Guida alla lettura

Pubblichiamo oggi la seconda e ultima parte dell’articolata riflessione di Luciano Manicardi, monaco di Bose, sul significato esistenziale e spirituale della morte.
Il filosofo greco Epicuro insegnava che la morte non ci deve far paura, perché quando sopraggiunge noi non ci siamo più. In realtà noi ne facciamo esperienza attraverso la morte degli altri, in particolare delle persone che amiamo; e, più indirettamente, attraverso le diverse situazioni di perdita, abbandono e separazione che la vita ci fa incontrare. Questo contatto con la morte può scatenare in noi angoscia, sensi di colpa, persino risentimento: ma, più in profondità, ci spinge a interrogarci su ciò che può dare un senso non effimero alla nostra vita.
Questo senso, secondo Manicardi, può essere trovato solo nell’amore dato e ricevuto: solo l’amore può integrare vita e morte, perché «l’amore è ciò che illumina e dà senso al tempo, alla vita, ma l’amore è anche ciò che porta a considerare la vita dell’altro più importante della propria fino a rendere possibile e perfino “logico” il morire per l’altro, il dare la vita per l’altro». Solo l’amore, in altre parole, può spingerci ad accettare la morte nonostante il nostro attaccamento alla vita, a integrarla nel nostro orizzonte di valori e di possibilità, aiutandoci così a superare una tensione apparentemente irriducibile e a dare unità a tutta la nostra esistenza.
L’esempio più alto di questa possibilità, per un cristiano, è costituito dal modo in cui è vissuto ed è morto Gesù: aprendosi senza riserve all’amore per Dio e per gli altri, Cristo si è liberato in modo radicale della paura della morte, facendo della propria vita un dono assoluto e narrandoci – all’alba del terzo giorno – che l’amore può davvero essere forza di resurrezione. Un messaggio valido, a nostro avviso, anche per chi non crede in un fondamento trascendente dell’esistenza, ma avverte che l’adesione a un’etica del bene è la sola possibile risposta all’assedio del non senso e della negazione della vita.
La morte dell’altro
Epicuro aveva formulato un elegante ma poco consolante trucco per liberare l’uomo dalla paura della morte. Egli ha affermato: «Abituati a pensare che nulla è per noi la morte, né per i vivi, né per i morti, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più». Questa idea che “la morte è un nulla” (Lucrezio) non ci convince molto. In realtà noi facciamo esperienza della morte. La facciamo attraverso la morte degli altri. E la facciamo attraverso le varie forme di perdita, di abbandono, di separazione che la vita ci fa incontrare. In particolare, quando si viene a creare una distanza irrecuperabile tra due persone che si sono amate, ecco che noi patiamo una morte: non muore solo l’altro che si allontana, ma si assiste anche alla propria morte nel cuore della persona amata. Ma soprattutto è essenziale l’esperienza della morte fisica della persona amata: «Aver spesso pensato alla morte non serve a niente finché non si viene a sapere della morte di qualcuno che si ama», afferma Maurice Merleau-Ponty [1]. Con la morte dell’altro a cui ero legato da affetto “la morte mi tocca”, la morte penetra in me.
La morte dell’altro mi consente di prendere contatto con la morte attraverso le reazioni che lascia in me. Reazione che può essere innanzitutto di angoscia, l’angoscia della fine della visibilità dell’altro: al termine del romanzo di André Schwartz-Bart, “L’ultimo dei giusti”, Golda stretta nell’ultimo abbraccio al suo ragazzo Erni, nella camera a gas, dice esalando l’ultimo respiro: «Ma non ti rivedrò più? Mai più?». L’esperienza del “mai più”, della fine irrimediabile del tempo, è ciò rende angosciosa l’esperienza della morte: noi forse non possiamo fare l’esperienza della nostra propria morte, ma conosciamo la morte nell’altro che amiamo e che ci vien tolto. Con lui muore qualcosa di noi e la morte diviene una realtà onniavvolgente.
Lo esprime bene Agostino sempre a proposito dell’amico morto [cfr. Il tempo che muore – Prima parte]: «Tutto ciò che vedevo era morte. La mia patria mi era diventata un tormento, la casa paterna si era trasformata in indicibile infelicità. Tutto ciò che avevo condiviso con lui, senza di lui si era trasformato in strazio immane». Ed è l’intensità dell’amore per l’altro che è morto che ci fa conoscere qualcosa della morte: «Quanto più lo amavo», prosegue Agostino, «tanto più odiavo e temevo la morte, nemica crudelissima che me lo aveva tolto».
Una seconda possibile reazione alla morte può essere il senso di colpa: colpa del sopravvissuto, che non ha alcun merito di essere ancora vivo mentre la persona amata non c’è più. Scrive Montaigne: «Da quando lo persi non faccio che trascinarmi languente e persino i piaceri che mi si offrono, invece di consolarmi, mi raddoppiano il dolore della sua perdita. Di ogni cosa facevamo a metà; ora mi sembra di sottrargli la sua parte».
Oppure, ancora, possiamo reagire con risentimento verso colui che se n’è andato e ci ha lasciati soli. Landsberg parla del risentimento nei confronti dell’infedeltà di chi è morto: «Nell’esperienza decisiva della morte del prossimo c’è come il sentimento di una sua infedeltà tragica, allo stesso modo in cui c’è un’esperienza della morte nel risentimento per l’infedeltà... I teologi dicono che Dio solo è fedele, perché Dio non muore».
Ma soprattutto la riflessione sulla morte, come fine del tempo, arriva a condurci a ciò che può dare senso al tempo che ci è concesso, al tempo della vita. E ci conduce a trovare questo senso nell’amore.

Amore e morte
Il filosofo Gabriel Marcel, segnato fin dall’infanzia dalla morte della madre, afferma: «Ciò che conta non è la mia morte né la morte di un altro qualsiasi, ma è la morte di coloro che amiamo; il problema, l’unico problema essenziale, è posto dal conflitto di amore e morte». Noi conosciamo (e patiamo) qualcosa della morte a misura del nostro amore, ma la morte è anche ciò che pone in crisi gli amori che viviamo: essa ha infatti il potere di troncarli da un momento all’altro. L’amore è ciò che illumina e dà senso al tempo, alla vita, ma l’amore è anche ciò che porta a considerare la vita dell’altro più importante della propria fino a rendere possibile e perfino “logico” il morire per l’altro, il dare la vita per l’altro. E’ l’amore che sa integrare in sé vita e morte, morte e vita: è di tale dinamica che esso si nutre, è in tale conflitto che esso si gioca. E’ l’amore che ci fa sentire nemica la morte, è l’amore che può arrivare a rendercela amica e sorella. Sì, ancora una volta, parlare della morte ci porta a parlare della vita, delle “relazioni”, che sono il contenuto della vita, dell’amore, che è ciò che dà senso alla vita.
Noi non abbiamo parole che siano all’altezza di un evento così grave come la morte. Ma il ricordo dei morti che abbiamo amato, con cui abbiamo avuto dei legami, con cui abbiamo vissuto sensatamente il tempo rendendolo ciò che è veramente, ovvero occasione di incontro con l’altro, suscita in noi il silenzio, linguaggio che ha in sé un profondo potere di concentrazione, di semplificazione, di riduzione all’essenziale, di verità. Al ricordo dei morti si addice il sostare del silenzio, non il vagare delle parole, che più che mai in questa occasione rischiano di mostrarsi vane. In questo silenzio, muti come sono muti i morti, diviene possibile ascoltare quella parola originaria che per gli uomini è la morte, diviene possibile ascoltare la parola insita nella memoria dei volti e dei nomi di quanti abbiamo amato, di quanti ci hanno amato e ora non ci sono più, diviene possibile ascoltare quella parola fondante che è il Cristo, il Verbo fatto carne, la Parola di Dio che anche i morti ascolteranno. La memoria dei morti ci fa rientrare in noi stessi e ci convince che la morte è la porta stretta della verità. E in tale memoria essi ci indicano la via della vita, l’essenziale del vivere: l’amore. E così noi assistiamo a questo umanissimo e dolente miracolo per cui coloro che morendo, attraverso la loro stessa morte, ci hanno fatto fare l’esperienza della morte, costoro, nel nostro silenzioso ricordo, ritrovano parola in noi e ci guidano al centro della nostra esistenza, ci insegnano a vivere, cioè ad amare quei volti e quei nomi che ci stanno accanto, che hanno accordato la loro esistenza alla nostra. Ci insegnano ad amare il frammento in cui esperiamo il tutto.
Una poesia di Rilke dice: «Concedi, Signore, a ciascuno la sua morte, il morire che fiorì da quella vita, in cui ciascuno trovava amore, senso, sofferenza». Per molti questa preghiera resta inesaudita. Ma l’essenziale è che anche nella discontinuità fra modo della morte e modo della vita, fra modalità della morte e vita vissuta, quest’ultima sia stata traversata dall’amore, abbia conosciuto qualcosa dell’amore, abbia obbedito all’amore. Allora si delineerà la continuità veramente importante, davvero essenziale fra l’amore di Dio che ci ha creati, il nostro amore con cui abbiamo amato gli altri e l’amore di Dio che in Cristo ci dona la vita eterna. Ascoltare il ricordo dei morti in Cristo ci porta ad ascoltare la parola unica e vivificante dell’amore, dell’amore di Cristo, dell’amore in Cristo, dell’amore per Cristo.
«Chi ascolta la mia parola», dice Gesù, «è passato dalla morte alla vita». Gli fa eco il discepolo amato: «Chi ama i fratelli è passato dalla morte alla vita». Mi ha colpito la testimonianza di un uomo non credente come Edgar Morin [2] che così si è espresso riguardo alla morte: «L’Evangelo dice: diventiamo fratelli, viviamo da fratelli, e saremo salvati. Io dico: diventiamo fratelli, viviamo da fratelli, perché siamo perduti. Senza voler imporre questo vangelo della perdizione, io credo che la coscienza umana debba integrare questa incertezza, questa angoscia e questa presenza della morte. E per superare l’angoscia non c’è altra via che la partecipazione, la comunione, l’amore. Il solo modo di sopportare questo niente che ci circonda, è di vivere poeticamente, di vivere nell’amore la nostra condizione umana. L’amore che il cantico dei cantici dice essere forte come la morte, è, almeno, il suo unico antidoto».

Accettare la fine del tempo nella fede
L’atteggiamento di rimozione e rifiuto della morte visibile oggi nella nostra società sembra rispecchiare un atteggiamento più radicale di incapacità di accogliere i limiti insiti nella propria condizione umana. Freud ha scritto che «noi non sappiamo rinunciare a nulla» e la morte è il segno della perdita assoluta. Come assumerla? Come accettarla? Cosa tanto più difficile se la si situa sociologicamente all’interno delle nostre società abitate dal diniego nei confronti della morte.
«Contro tutte le altre cose è possibile procurarsi una sicurezza, ma a causa della morte, noi, gli uomini, abitiamo una città senza mura»: la morte, ricordano queste parole di Epicuro, pone un sigillo di precarietà e di insicurezza sulla vita umana. E l’insicurezza produce paura, e la paura schiavizza. Gli uomini, ricorda la lettera agli Ebrei, «sono schiavi tutta la vita a causa della paura della morte» (Eb 2,15). E sentendoci città senza mura, noi cerchiamo di costruirci protezioni e difese che, mentre vogliono preservarci dalla morte, in realtà ci allontanano dalla vita. E buona parte della nostra vita rischia di passare in questo inganno. A noi dunque il compito di accettare la nostra morte.
Di fronte alla morte, le parole di Gesù nel IV vangelo dirigono la nostra attenzione non su atteggiamenti difensivi e di paura, ma sulla fede, sull’affidarsi al Signore, sulla confidenza con il Signore, sul credere alla sua parola. «Chi crede nel Figlio ha la vita eterna» (Gv 6,40); e ancora: «Chi crede in me, fosse anche morto, vivrà» (Gv 11,25); «Chi crede ha la vita eterna» (Gv 6,47); «Chi ascolta la mia parola è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,24). Sì, la fede in Cristo è il luogo della resurrezione. Quando tutta la nostra vita, la nostra persona, decide di affidarsi al Signore senza più riserve di sé, senza più nulla da difendere, senza più diffidenze e paure, senza mura e baluardi, senza bastioni e roccaforti, allora essa abita lo spazio della resurrezione. E allora conosce l’amore e la speranza, l’audacia e la libertà evangeliche, quelle che Gesù stesso ha vissuto. E Gesù ha vissuto la sua esistenza, cioè le sue relazioni con gli altri, sotto il segno del suo personale affidamento al Padre, non difendendosi dagli altri, ma accogliendoli. Vivendo il primato della fede nel Padre che l’ha mandato, Gesù vive non per fare la sua volontà, ma la volontà del Padre (cf. Gv 6,38), che è volontà di vita piena per ogni uomo. Una vita così vissuta è una vita che integra la morte e la trasforma in amore, che è forza di resurrezione.
Sì, se la fede è il luogo della resurrezione, l’amore è la forza della resurrezione. Non vi è infatti solo la paura della morte che ci porta a difenderci, ma anche e soprattutto la paura della vita, delle perdite che il vivere comporta, dei confronti impietosi con gli altri che ci conducono a chiuderci in noi e a vivere nel risentimento, dei timori che gli altri ci possano sottrarre qualcosa. Credere, aver fede in Gesù Cristo, significa fare dell’amore il luogo in cui la morte viene messa a servizio della vita, e anzitutto della vita degli altri. In tutto questo ci vengono in aiuto le esperienze di morte che la vita ci fa fare. L’esperienza del lutto segna lo scacco del narcisismo, e manifesta l’inutilità del costruire barriere per difenderci dalla morte che la vita ci potrebbe recare. E ci può aprire, con la sua muta lezione, all’unica cosa necessaria e vitale: credere l’amore, vivere l’amore, fare della vita un atto di amore. Vivificare il nostro tempo con l’amore. Allora potrà avvenire forse anche a noi di vivere e di morire nella gratitudine e nella benedizione, dando sostanza e carne alla bella e antica immagine formulata dall’imperatore filosofo: «L’oliva matura cade benedicendo la terra che l’ha portata in sé e rendendo grazie all’albero che l’ha fatta crescere» (Marco Aurelio).

Note della redazione

1) Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) è stato un filosofo francese, esponente dell’esistenzialismo.
2) Edgar Nahoum, detto Edgar Morin (1921) è un filosofo e sociologo francese, di origine ebraica sefardita.

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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