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Il segreto della vera gioia

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17/05/2017

Tratto da:
Michel Ledrus, I frutti dello Spirito, Ancora, Milano 1984, p. 52-54
in: Comunità Monastica di Bose (a cura di), Letture dei giorni, Piemme, Casale Monferrato 1994, pag. 232-234

Si ringrazia l’Editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questa densa riflessione Michel Ledrus, teologo gesuita, parla dei fondamenti della felicità: una condizione che rifugge l’egoismo e fiorisce in modo stabile solo quando ci apriamo agli altri, quando ci indirizziamo agli altri per renderli, a loro volta, felici. A prima vista, trattandosi di un presbitero cristiano, la formula potrebbe apparire scontata: ma Ledrus dice molto di più, e formula alcuni pensieri davvero originali che possono aiutare chi soffre nel proprio cuore a squarciare il velo della tristezza e del dolore di vivere.
Il suo ragionamento, in particolare, si articola in cinque passaggi fondamentali:
1) la vera gioia è innanzitutto una “gioia con gli altri”, perché l’uomo è fatto per vivere in relazione. Ma questo non basta. La gioia più autentica nasce non solo dalla condivisione di una soggettiva condizione di benessere, ma dal perseguire innanzitutto la felicità degli altri, mettendo se stessi – per così dire – in secondo piano: solo così potremo a nostra volta essere sereni;
2) questa regola esistenziale non ammette compromessi: chi si chiude in se stesso non sarà semplicemente un po’ meno felice, ma triste e solo;
3) la nostra capacità di rendere felici gli altri dipende innanzitutto da un nutrito gruppo di qualità morali: amabilità, gentilezza, benevolenza, generosità, pazienza, comprensione, apertura, magnanimità, rispetto. Ne deriva l’importante conseguenza che, per fare il bene, non occorre poter contare su talenti intellettuali o ricchezze materiali, ma su virtù che tutti possono coltivare nel proprio animo, indipendentemente dallo status sociale e dalla condizione economica;
4) tuttavia, e qui restiamo disorientati, non si può porgere la mano agli altri se non si ha il cuore sereno: causa ed effetto sembrano capovolgersi. Il paradosso, però, è solo apparente, perché la serenità di cui si parla qui è il frutto di una «vita limpida e pura», e della «fedeltà alle proprie convinzioni più profonde»: due importanti premesse di ordine interiore e anche pratico, senza le quali la nostra vita è priva di unità e di obiettivi, priva di senso profondo, priva di un orizzonte chiaro e definito;
5) chi non riesce a realizzare queste due premesse, e arriviamo al momento più alto della riflessione, cade preda della tristezza, che però, secondo la tradizione monastica e dei padri della chiesa, è vista nella prospettiva non tanto di una malattia della psiche (la moderna depressione), quanto piuttosto di un vizio dello spirito, che «distrugge la capacità creativa dell’uomo, demolisce le forze migliori del cuore e dell’intelligenza, avvilisce e paralizza i voli più luminosi dell’anima».
Dalla considerazione della felicità siamo passati a un’osservazione molto più generale e decisiva: l’inerzia operativa, l’autorealizzazione mancata, l’autostima distrutta, il fallimento esistenziale possono essere la conseguenza di una tristezza oscura che ottunde lo spirito e verso la quale abbiamo innanzitutto una responsabilità di ordine morale. Parole sapienti, che possono orientare la vita di chi è alla ricerca di se stesso, e offrire un’ancora di salvezza a chi si sente perduto.
Per la gioia, come per l’amicizia, l’uomo che vuole acquistarla mediante una ricerca affannosa, la perde, e non la troverà proprio perché è tanto ripiegato su se stesso e preoccupato dei suoi interessi, che non pensa più al bene altrui, cioè non si indirizza più a un altro per renderlo felice. In altre parole, non considera più l’altro come una persona, ma in qualche modo come uno strumento che gli può servire per i propri scopi, più o meno elevati. D’altra parte, l’uomo – l’esperienza ce lo insegna – non può sentirsi a lungo felice da solo, perché la gioia tende ad una felicità con gli altri, ad un essere felici insieme. L’uomo infatti è strutturalmente relazione, cioè è per la sua essenza stessa un essere indirizzato verso l’altro: questo dato fondamentale fa sì che sarà un uomo gioioso solo l’uomo che in tutte le sue relazioni cerca di rendere felici gli altri. Evidentemente, la gioia raggiungerà il suo culmine dove si rivela come il frutto di un reciproco amore disinteressato.
E’ quindi una regola fondamentale che non si può essere sereni e gioiosi interiormente, se non si aiutano gli altri ad esserlo; ciò in pratica significa che bisogna essere più attenti a rendere sereni gli altri che a procurare gioia a noi stessi. La letizia spirituale accompagna una vita dedita agli altri, mentre il farci centro di tutto e il chiuderci in noi stessi ci rende tristi e soli. Così, colui che si rende colpevole dall’infelicità altrui, spegna la luce nei propri occhi ed essi diventano torbidi e duri. La letizia invece fiorisce in colui che sostiene amabilmente i propri fratelli, che è gentile, è benevolo, generoso verso di loro, che dimostra pazienza, comprensione, apertura verso tutti, che è magnanimo e rispettoso nei suoi rapporti con tutti. In fondo, si sperimenta che la gioia è un fiore della carità, un raggio dell’amore cristiano, che crea comunione.
E’ chiaro che non si può porgere la mano all’altro, per condividere le semplici gioie della vita, se non si ha il cuore sereno. Come può, chi non vive in armonia con se stesso, incontrarsi in modo gioioso con un altro? Anche qui bisogna ribadire che la gioia accompagna una vita limpida e pura. Il libro dei Proverbi osserva: «Il cuore felice rende lieto il volto, il cuore in pena abbatte lo spirito» (Pr 15,13); e il Siracide: «Il cuore dell’uomo modella il suo volto, sia in bene, sia in male. Il viso ilare è indice di animo sereno, il volto triste è segno di preoccupazioni e affanni» (Sir 13,25-26). Tale serenità dell’anima sarà il frutto della fedeltà alle proprie convinzioni più profonde e all’impegno di andare avanti accogliendo la vita come dono di Dio. (…)
Ma dobbiamo anche difendere e proteggere la serenità del cuore! Questo richiede da parte dell’uomo un atteggiamento attivo e prima di tutto l’attenzione di allontanare da sé ogni forma di tristezza insana e malvagia, in cui spesso si cela una vera tentazione da cui bisogna liberarsi con tanto più impegno quanto più ne è oscura e imprecisa l’origine. La tristezza, dice in proposito il Pastore d’Erma, è il peggiore di tutti gli spiriti cattivi. Più di ogni altro spirito malvagio distrugge la capacità creativa dell’uomo, demolisce le forze migliori del cuore e dell’intelligenza, in una parola avvilisce e paralizza i voli più luminosi dell’anima.

Biografia

Michel Ledrus (1899-1983), gesuita di origine belga, dal 1939 sino alla morte è vissuto a Roma, insegnando teologia missionaria, poi teologia spirituale, e sempre assolvendo la funzione di apprezzatissimo direttore spirituale, anche del cardinale Carlo Maria Martini.
Secondo padre Ledrus la Scrittura, scrutata con intelligenza d’amore in ogni suo frammento, è la sorgente di ogni esperienza umana autentica e realizzante. Nel Nuovo Testamento, in particolare, Cristo rivela l’uomo all’uomo nella pienezza della sua vocazione e dei mezzi per portarla a compimento, «icona perfetta che fa capire tutto dell’amore di Dio e di come l’uomo possa – e quanto! – essere Parola efficace di Dio».
Fra le sue pubblicazioni spiccano “Il Padre Nostro preghiera evangelica” (1981), “Appunti di dottrina spirituale” (1981), “I frutti dello Spirito” (1984) ed “Etica evangelica” (1998).
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