Guida alla lettura
Naturalmente questo non significa che il fare non abbia importanza. Basta pensare alle parole di Gesù sull’ultimo giudizio: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-37).
Il fare, però, risponde ai bisogni profondi di chi soffre, e non soltanto alle sue immediate esigenze materiali, quando si alimenta della comune esperienza di fronte al dolore, la sola che ci porta alla compassione autentica: e questo è un messaggio valido anche per chi ha una visione laica della vita. Manicardi cita a questo proposito il filosofo lituano-francese, di origini ebraiche, Emmanuel Lévinas (1905-1995): «Solo un io vulnerabile può amare il suo prossimo».
Per chi è credente, inoltre, il fare si ispira all’esempio di Cristo stesso: il quale, come ricorda Manicardi in un altro passo del libro, non ha mai guarito le persone in modo magico, “ma con l’arte e la fatica dell’incontro e del dialogo” (op. cit., pag. 12).
Dedichiamo il brano a chi si trova vicino a una persona che soffre, e a tutti coloro che fanno dell’aiuto agli altri una delle ragioni profonde della propria esistenza.
Nella tradizione cristiana, la carità è una virtù teologale, non morale. Eppure, nella stessa tradizione la carità è stata moralizzata: così, una volta ridotta nei limiti della morale, da evento relazionale che al suo cuore aveva l’iniziativa gratuita di Dio verso l’uomo, è diventata opera delle mani dell’uomo e occasione del suo protagonismo. Infine la carità è stata cosificata: è qualcosa da fare, una realtà obiettivata, un oggetto più che un soggetto. Il rischio della carità, anche all’interno della chiesa, è di essere managerializzata, divenendo problema di efficacia e di organizzazione. E’ evidente che dietro a tutto questo vi è una visione che non sa raccordare fede e opere, grazie di Dio e impegno dell’uomo. (...)
Un’azione di carità scissa dalla compassione, dalla consofferenza con l’altro, dall’assunzione della sua mancanza, resta fondamentalmente estranea all’altro e non cambia nulla in noi stessi. Una carità che non conosca la sofferenza – sia la sofferenza dell’amare che la sofferenza di chi è nel bisogno – è distante dal suo fondamento evangelico e dalla sua più autentica dinamica antropologica. Crescere nella carità è crescere alla statura di Cristo, dunque diminuire, entrare nello spogliamento di Cristo, nella sua passione per Dio e per gli uomini. La carità dunque, e ovviamente anche la solidarietà, non consiste innanzitutto nel fare dei servizi – questa sarebbe ancora una comprensione funzionale della carità – ma nel divenire, liberamente e per amore, servi. In questo modo la carità viene situata sul piano dell’essere. E anche la solidarietà. (...)
Solo una solidarietà così intesa inserisce la vicinanza dell’uomo al fratello nella dinamica della comunicazione di Dio all’uomo. Solo una carità e una solidarietà così intese possono fare spazio a quelle dimensioni di gratuità e di bellezza che sono costitutive dell’autentica carità.
Può essere utile concludere ricordando un episodio della vita del poeta Rainer Maria Rilke. Si dice che, quando abitava a Parigi, ogni giorno usciva di casa e si imbatteva in una mendicante cui dava regolarmente un’elemosina. Un giorno le diede non denaro, che era ciò di cui essa aveva bisogno, ma una rosa, che era inutile e puramente gratuita, e la povera donna si illuminò ed esclamò, piena di gioia: «Mi ha vista! Mi ha vista!». Il poeta ha saputo vedere il volto della mendicante e ascoltarne la sete profonda, la sua persona, non l’ha ridotta al suo bisogno materiale.
Il rischio di una carità cieca e sorda, di una solidarietà che fa molto per l’altro senza vedere e ascoltare l’altro, è sempre in agguato. Anche per noi, oggi.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.