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Rinuncie e gioie della vita nell'ebraismo – Prima parte

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06/01/2010

Elena Lea Bartolini

Nel testo vengono parzialmente ripresi e rielaborati alcuni passaggi del seguente saggio: E. Bartolini, Dio ci chiederà conto dei beni di cui non abbiamo goduto, in “Parola Spirito e Vita” 45 (2002) [1] 55-68.

Guida alla lettura

«E’ più importante una vita nel segno dell’amore verso il prossimo che rinunce e forme di ascesi che non permettono di godere e condividere i doni del mondo, che è il mondo di Dio». E’ quanto insegna la tradizione ebraica, ed è il centro focale di questa ampia riflessione di Elena Lea Bartolini, di cui proponiamo oggi la prima parte.
Le religioni si caratterizzano spesso per una sorta di dualismo fra lo spirito, percepito come “superiore”, e il corpo, considerato “inferiore” e di ostacolo a un genuino rapporto con Dio. Anche il cristianesimo non è estraneo a questo tipo di pregiudizio, che tuttavia – è necessario affermarlo con forza – non ha alcun fondamento biblico. Nel Nuovo Testamento, l’esempio di Gesù ci insegna che le gioie della vita possono essere assunte in una spiritualità sana e rettamente orientata. E l’ebraismo, sulla scorta dell’Antico Testamento, arriva a dire che «fuggire deliberatamente da un piacere o da un benessere materiale può costituire un peccato, perché Dio desidera la felicità delle sue creature». L’importante è mantenere un atteggiamento equilibrato verso i beni terreni e, come vedremo nella seconda parte dell’articolo, essere coscienti che ognuno di essi è un dono di Dio, creatore e signore di tutto ciò che esiste.
L’analisi di Elena Lea Bartolini è densa di riferimenti alla ricchissima tradizione ebraica. Ci pare tuttavia che due concetti emergano in particolare. Primo: chi si impone restrizioni o astinenze non necessarie è, secondo il Talmud, «simile a colui che innalza un altare proibito». Compie, in altre parole, un doppio atto di idolatria, perché plasma l’immagine di un dio spietato che non corrisponde alla realtà della Scrittura, e un’immagine di se stesso capace di piegare, con la forza dei propri presuntuosi sacrifici, la volontà perversa di un tale dio. Secondo: nella liturgia dello Jom Kippur, il giorno dell’espiazione, il perdono delle trasgressioni contro Dio viene invocato solo dopo aver annullato «i voti, gli impegni, le consacrazioni, le scomuniche, i giuramenti, le obbligazioni»: il perdono di Dio, in altre parole, è gratuito come il suo amore, e non può essere “acquistato” con le promesse e le azioni dell’uomo.
In questa prima parte della riflessione esaminiamo come il non fruire della bellezza della vita possa a volte costituire, secondo il pensiero ebraico, una vera e propria infedeltà alla volontà di Dio. Nella seconda parte, vedremo come la Bibbia e la tradizione rabbinica insegnino a godere in concreto delle gioie della vita, senza venir meno alla corretta relazione che deve sussistere fra Creatore e creatura.
Dedichiamo il brano a tutti coloro che – a causa della durezza di cuore di molti – trovano nella religione non una consolazione al loro dolore, ma un sistema di vincoli inumani, una vera e propria “ideologia del non-amore” che inasprisce le loro sofferenze.
Introduzione
Che rinunce e privazioni – anche frequenti o “estreme” – possano favorire la vita spirituale e l’ascesi è un’idea abbastanza diffusa nelle religioni, soprattutto in quelle forme dove si percepisce la realtà “mondana” – e quindi anche il corpo – come una sorta di ostacolo nel rapporto fra l’uomo e Dio. In tale orizzonte ogni mortificazione che riguarda l’aspetto carnale può venire considerata una sorta di via ascetica dal naturale al soprannaturale: mortificando il proprio corpo, e costringendolo ad una austerità sempre più radicale, ci si aprirebbe alla dimensione trascendente puramente spirituale. Ci sono inoltre casi nei quali la ricerca della sofferenza attraverso privazioni e autopunizioni è vissuta come una modalità per “acquisire meriti” nella prospettiva di un “premio finale”. Gli esempi al riguardo, che non vanno ricercati solo nel passato ma anche nella storia presente, potrebbero essere svariati, e sono sufficientemente noti a tutti [1].
Nella tradizione ebraica – salvo alcune rare eccezioni e casi per lo più isolati [2] – si è invece di parere diverso: nel Talmud [3] si afferma che «Nell’Aldilà l’uomo dovrà giudicare ed apprezzare tutto ciò che il suo occhio vide, ma che egli non poté mangiare» [4]. I Maestri di Israele, convinti che Dio desideri la felicità delle sue creature, insegnano che fuggire deliberatamente da un piacere fisico o da un benessere materiale può costituire un peccato. I piaceri della vita vanno accolti e goduti come dono divino: derivano infatti da ciò che è stato creato per la gioia dell’uomo e, proprio per questo, sono fondamentalmente buoni; pertanto non solo si invita a goderne, ma si condannano tutti coloro che se ne astengono. Non è certamente un elogio della sregolatezza, bensì un richiamo a uno stile di vita saggiamente equilibrato capace di valorizzare il “sano piacere”, che deve essere gustato con tutte le proprie potenzialità.

Non godere può significare trasgredire
Nell’orizzonte che abbiamo delineato si sottolinea che vivere alla presenza di Dio, cioè alla luce dei Suoi insegnamenti, non può che essere fonte di luce e di gioia: «Non c’è tristezza in presenza del Santo, che benedetto sia, come è detto: “Forza e gioia sono nel Suo luogo” (1Cr 16,27)» [5]; e ancora: «La Shekinah [presenza divina] non splende in mezzo alla vanità, alla tristezza, allo scherno, alla leggerezza o alla futile ciarla, bensì in mezzo alla gioia del dovere religioso» [6]. Per “dovere religioso” si intende la halakhah, la prassi religiosa codificata che, abbracciando ogni aspetto della vita, riguarda anche la corporeità; pertanto se tale dovere deve attuarsi “in mezzo alla gioia” deve permettere all’uomo un giusto godimento, anche fisico, di ciò che il mondo creato da Dio gli mette a disposizione. È quindi un bene per lui poter apprezzare le gioie e i piaceri terreni facendo un saggio uso dei beni che il Signore gli ha donato per renderlo felice. In altri termini: è importante camminare alla luce degli insegnamenti rivelati senza cadere in esagerate restrizioni o in astinenze non necessarie, come ben ricordato dal seguente passo talmudico: «Chi si impone dei voti di astinenza è come se si mettesse un collare di ferro intorno al collo; è simile a colui che innalza un altare proibito; è simile a colui che afferra una spada e se l’immerge nel cuore. Ciò che la Torah [l’insegnamento divino rivelato al Sinai] proibisce è già sufficiente per voi: non cercate di aggiungervi altre restrizioni» [7].
Per la stessa ragione – all’epoca del Tempio – anche il voto di nazireato, che prevedeva l’astinenza temporanea dalle bevande fermentate come il vino, doveva essere sciolto compiendo un sacrificio di espiazione per la non necessaria rinuncia a cui ci si era sottoposti (cf. Nm 6,1-21). Si sottolinea in questo modo che la privazione di un bene terreno lecito, anche se finalizzata a uno scopo ritenuto buono, è comunque una scelta con cui l’uomo deliberatamente si priva di ciò che Dio gli offre, e per questo costituisce un “peccato verso se stessi”.
Il Qitzur Shulchan ‘Arukh, opera autorevole relativa alla halakhah, illustrando le qualità nelle quali l’uomo deve impegnarsi per condurre una vita santa ribadisce e conferma che non è bene sottrarsi completamente da ciò che è permesso, e lo fa proprio mettendo in relazione alcune possibili scelte austere con il voto di nazireato. Le osservazioni e le indicazioni pratiche che ne derivano sono le seguenti:
Se l’uomo giungesse alla conclusione: «Siccome l’invidia, l’avidità, gli onori e tutto ciò che è analogo accorciano la vita dell’essere umano, mi allontanerò da essi ancora di più, fino all’opposto, fino al punto di non mangiare carne, di non bere vino, di non sposarmi, di non abitare in una bella casa, di non indossare vestiti eleganti ma al contrario usare una tela di sacco o qualche cosa di analogo»; anche questo sarebbe un comportamento scorretto, che è proibito seguire. Chi si adegua a questo atteggiamento viene chiamato peccatore in quanto, riguardo al nazireo, è scritto: «E dovrà espiare a causa del peccato che ha compiuto verso di sé» (cf. Nm 6,11ss.) [8]. I nostri Maestri, che il loro ricordo sia in benedizione, hanno detto: «Se il Nazireo, che si è privato solo del vino, rende necessario che si compia un atto di espiazione, a maggior ragione chi si astiene da ogni cosa». Per questo motivo i nostri Maestri, che il loro ricordo sia in benedizione, hanno prescritto di rinunciare solamente a ciò che la Torah ci ha vietato, senza proibirsi, tramite voti o giuramenti, le cose permesse. Così hanno detto i nostri Maestri: «Non ti è sufficiente ciò che la Torah ha vietato, per cui tu ti proibisci delle cose che sono permesse?» (Talmud, Nedarim 9,1). E i nostri Maestri, che il loro ricordo sia in benedizione, hanno vietato di tormentarsi con il digiuno più di quanto dovuto. Per tutte queste situazioni e per quelle analoghe, re Salomone, che la pace sia con lui, ha detto: «Non essere esageratamente tzaddiq, giusto, e non cercare di essere troppo saggio; perché dovresti rovinarti?» (Qo 7,16). E ha detto anche: «Equilibra bene la tua condotta e tutte le tue strade si consolideranno» (Pr 4,26) [9].
Ben si comprende allora perché la Tradizione insista sul fatto che, chi desiderasse ricorrere a misure di austerità non prescritte, «dovrà pure specificare che ha intenzione di comportarsi in quel modo solo in quella occasione oppure quando lo vorrà, ma in ogni caso, non in maniera definitiva» [10]. Per questo la liturgia del giorno di Kippur, il giorno del perdono, prevede l’annullamento di tutti i “voti” attraverso la preghiera solenne del Kol Nidrè, ripetuta tre volte, dove a un certo punto si dice:
Noi ci ritrattiamo con la presente dichiarazione dinanzi al nostro Padre celeste, se pronunziammo voto si consideri come non emesso, altrettanto dicasi per qualsiasi impegno, consacrazione, scomunica, giuramento, obbligazione; sia annullato totalmente il voto, l’impegno, la consacrazione, la scomunica, il giuramento, l’obbligazione. Annullati i voti, gli impegni, le consacrazioni, le scomuniche, i giuramenti, le obbligazioni, invochiamo remissione, perdono, espiazione, per tutti i nostri peccati” [11].
L’annullamento dei “voti” di cui in questo testo si parla, riguarda in modo particolare gli impegni presi nei confronti di Dio in relazione all’astensione volontaria dai piaceri permessi. Il motivo di tale scioglimento va compreso alla luce di una duplice prospettiva: da una parte si afferma la gratuità del perdono divino, che non è legato ai giuramenti e alle promesse dell’uomo, e, dall’altra, emerge la consapevolezza dell’importanza dell’impegno da assumere nei confronti del prossimo che va “amato come se stessi” (cf. Lv 19,18). Proprio in questa circostanza infatti, la condizione per ottenere il perdono da parte di Dio per i peccati verso i propri simili è mostrare segni di conversione che riparino, dove possibile, al male commesso [12]. In questo modo si sottolinea che è più importante una vita nel segno dell’amore, della giustizia e delle opere di bene verso il prossimo [13] rispetto a rinunce e a forme di ascesi che non permettono di godere e condividere i doni del mondo che è il mondo di Dio.
La vita santa secondo la Torah, quella vita cioè alla luce dell’esortazione: «Siate santi perché Io, il Signore, Dio vostro, sono Santo» (Lv 19,2), è quella di chi sa gustare le gioie che derivano da un sano equilibrio capace di evitare qualsiasi eccesso, sia nel senso dell’austerità che in quello della libertà senza vincoli; è quella dove l’amore verso Dio e quello verso il prossimo si manifestano nel segno di una gioia autenticamente vissuta e comunicata.

Note

1) Per quanto riguarda il cristianesimo pensiamo non solo ai monaci stiliti o a certe pratiche medioevali, ma anche al modo con cui si intendeva la spiritualità prima del Concilio Vaticano II. Per quanto riguarda le religioni non cristiane, pensiamo ad esempio alla “rimozione del desiderio” proposta dal buddismo.
2) Per esempio alcune forme estreme di essenismo, la comunità di Qumran presso il Mar Morto, esperienze comunque limitate nel tempo che non hanno avuto seguito.
3) Il Talmud, dalla radice “l-m-d” (studiare), è la raccolta della Mishnah – la Torah (insegnamento divino rivelato) orale codificata fra il II e il III secolo dell’Era Volgare – e dei suoi commenti (Ghemarah), non estesi però a tutti i trattati. Esistono due redazioni del Talmud: quella palestinese (risalente all’inizio del V secolo dell’Era volgare), costituito da 39 trattati, e quella babilonese (V-VI secolo dell’Era volgare), assai più diffuso, costituito da 36 trattati. La Mishnah è scritta in ebraico, la Ghemarah in aramaico.
4) Talmud Palestinese, Qiddushin 66d.
5) Talmud Babilonese, Chagigah 5b.
6) Talmud Babilonese, Pesachim 117a.
7) Talmud Palestinese, Nedarim 41b.
8) Il passo del libro dei Numeri è qui citato secondo la spiegazione dei Maestri che intendono il sacrificio espiatorio previsto alla fine del nazireato soprattutto in relazione alle astinenze non prescritte. L’originale ebraico permette anche altre interpretazioni che comunque non escludono questa: nell’attuale testo della Bibbia Italiana (CEI), per esempio, il sacrificio di espiazione è posto in relazione con l’impurità contratta dall’involontario contatto fisico con un cadavere.
9) Qitzur Shulchan ‘Arukh, di Rav Shlomo Gantzfried, Testo ebraico con traduzione a fronte in italiano a cura di M. Levy, Lamed Edizioni, Milano 2001, p. 186.
10) Qitzur Shulchan ‘Arukh, p. 388.
11) Tefilot Jom Kippur. Preghiere del giorno di espiazione, secondo il rito italiano. Testo ebraico e traduzione italiana a cura di D. Disegni, Marietti, Torino 1966, p. 27.
12) Precisa la Mishnah al riguardo: «Jom Kippur procura il perdono solo per le trasgressioni commesse tra l’uomo e Dio; per le trasgressioni commesse tra uomo e uomo, Jom Kippur procura il perdono solo se uno si è prima rappacificato con il suo fratello» (Mishnah, Joma’  VIII, 9).
13) Cf. Mishnah, Avot  I, 2 e 18.

Biografia

Di origini ebraiche da parte materna, Elena Lea Bartolini è nata a Pavia nel 1958. Dottore in Teologia Ecumenica con specializzazione in ermeneutica rabbinica, è membro dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG), del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI) e dell’Associazione Mariologica Interdisciplinare Italiana (AMI).
E’ docente di Giudaismo presso il Centro Studi Vicino Oriente di Milano e presso l’ISSR-MI collegato alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale; collabora con diversi Atenei pontifici – tra i quali l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia, l’Università Pontificia Salesiana (UPS), il San Bonaventura, il Marianum e l’Auxilium di Roma – e con diversi Istituti Teologici.
E’ docente e consulente all’interno di diverse iniziative locali e nazionali per il dialogo fra le chiese e gli ebrei: in particolare, ha curato il progetto Judaica (1998-2003) promosso dalla Casa Editrice Ancora di Milano. Attualmente dirige la collana “Studi Giudaici” per la Casa Editrice Effatà e cura la rubrica “Judaica” per la nuova edizione della rivista “Terrasanta” nell’ambito dei periodici della Custodia francescana. E’ consulente di redazione per le riviste “Terrasanta” e “Jesus”.
Ha curato la revisione ecumenica e la stesura delle voci ebraiche per l’“Enciclopedia del Cristianesimo”, edita da De Agostini (Novara 1997); ha curato alcuni “Quaderni” sull’Ebraismo per le Edizioni Studio Domenicano (Bologna 1997-1999), per le quali ha coordinato anche i “Quaderni” sulle Chiese della Riforma (Bologna 2004-2007).
Ha diretto la sezione “Ebraismo” per la nuova edizione dell’“Enciclopedia Filosofica”, edita da Bompiani (Milano 2006), a cura della Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, sotto la direzione del Prof. Virgilio Melchiorre dell’Università Cattolica di Milano.
Collabora con gli Uffici Nazionali della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e con alcune riviste, tra le quali, SeFeR (Studi-Fatti-Ricerche), Qol, Horeb, Studi Ecumenici, Parola Spirito e Vita (PSV), Rivista di Pastorale Liturgica (RPL), La scuola domenicale.
E’ membro del gruppo interconfessionale “Teshuvah” del Centro Ecumenico Diocesano di Milano, per il dialogo fra le chiese e gli ebrei, e collabora con il Segretariato Attività Ecumeniche (SAE). E’ socio fondatore e membro del Consiglio direttivo del Centro Studi Nazareth Alta Formazione (CeSNAF), per la promozione integrale della persona, della coppia e della famiglia.

Per un elenco delle principali pubblicazioni, si veda Il significato della sofferenza nell'ebraismo – Introduzione

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