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Memoria del male: un'esigenza permanente

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24/02/2016

Tratto da:
Enzio Bianchi, Il senso della memoria, La Stampa, 27 gennaio 2016

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

La memoria come elemento fondativo della cultura e della civiltà: in questo senso, l’articolo scritto da Enzo Bianchi per la “Giornata della memoria” (27 gennaio) mantiene in ogni tempo tutta la sua validità e sottolinea un’esigenza che deve ispirare il cammino di ciascuno di noi in ogni circostanza.
Tre le dimensioni fondamentali di una memoria vissuta con impegno e responsabilità. Prima dimensione: la memoria come ponte tra il passato, il presente e il futuro. Conservare la memoria di ciò che è stato, sottolinea Bianchi, per quanto possa essere forte la sirena della rimozione, ci rende capaci di discernere ciò che accade e di intuire, e forse prevenire, ciò che avverrà. E’ l’antico concetto della storia come “maestra di vita”, sempre più obsoleto in una società in cui l’uomo è divenuto insensibile al tempo (se non come spauracchio da esorcizzare nell’illusione di un’eterna giovinezza), vera «intelligenza digitale senza storia né passione».
Seconda dimensione: la memoria come momento decisivo del processo di elaborazione etica che porta alla condanna del male e alla sua assunzione come «atto nelle possibilità di ogni essere umano», «vincibile solo attraverso un preciso, ostinato, intelligente lavoro quotidiano fatto di pensieri e azioni radicalmente “altri”». La memoria dunque come elemento indispensabile del nostro personale cammino di umanizzazione, come orizzonte su cui proiettare criticamente le nostre pulsioni e rispetto al quale esercitare, giorno dopo giorno, la nostra capacità di bene.
Terza dimensione – la più originale e importante: la memoria come «fondamentale strumento per discernere ciò che dell’oggi merita di avere un futuro». Dunque, la memoria non solo come filtro protettivo dall’iniquità, non solo come punto di riferimento etico e morale, ma anche come ambito di selezione dei valori fondanti della nostra cultura, come setaccio che aiuti a distinguere ciò che va conservato nel domani nostro e dei nostri discendenti, e ciò che può essere lasciato andare senza rimpianti. La memoria, dunque, come momento sorgivo di civiltà, come terreno su cui coltivare ciò che vogliamo ci rappresenti nel profondo nei tempi a venire.
«Ricordati di non scordare», cantava Battisti a inizi anni Settanta. E la pubblicità del film “Memento” gli faceva eco trent’anni dopo: «Ricordati di non dimenticare!». Frasi paradossali, ma che ben rendono l’idea del significato e dell’importanza della “Giornata della memoria”. L’uno dopo l’altro scompaiono i testimoni-vittime della tragedia della shoah: figli, parenti, amici raccolgono le ultime briciole di racconto di un vissuto impossibile da narrare e da essere accolto come credibile; libri, monumenti, pellicole cercano di fissare una verità che vorremmo tutti rimuovere. E intanto, a furia di rimuovere e di schedare, perdiamo la nostra facoltà di memoria: «Archiviare significa dimenticare», ammonisce Enzensberger.
Allora il senso e la portata della giornata della memoria va rinnovata ogni anno, non solo e non tanto per trasmettere il testimone alle nuove generazioni, ma prima ancora come terapia per una società malata di amnesia, una società afflitta da Alzheimer collettivo, in preda all’incapacità di conservare memoria di ciò che è stato e, quindi, di discernere ciò che accade e di intuire ciò che avverrà. A livello culturale le nostre difese immunologiche non sanno più come far tesoro, né individualmente né collettivamente, di quelle che chiamavamo le “lezioni della storia”: il linguaggio stesso è superato. Così, per esempio, un Paese che per oltre un secolo ha visto decine di milioni di suoi cittadini emigrare nei cinque continenti alla ricerca di un lavoro e di una vita degna di questo nome, nello spazio di un paio di generazioni si ritrova a percepire l’immigrazione come un morbo da combattere e i migranti come minacce capaci di destare le più irrazionali paure.
Il teologo tedesco Johannes Baptist Metz, tra i primi e i più acuti nel ripensare la teologia cristiana “dopo Auschwitz”, constatava con tristezza l’affermarsi di un uomo «completamente insensibile al tempo, un uomo come macchina dolcemente funzionante, come intelligenza computerizzata che non ha bisogno di ricordare perché non è minacciata da alcuna dimenticanza, come intelligenza digitale senza storia e senza passione». Non basta infatti che un fatto sia accaduto perché diventi patrimonio acquisito, individuale e collettivo: è la memoria che compie questa metamorfosi, che coglie, rilegge e interpreta il passato affinché non piombi nel baratro dell’oblio e l’onda del non senso ci sommerga.
Non so quanto siamo consapevoli del fatto che si registra un raffreddamento di convinzioni verso ogni forma di “commemorazione”: chi ricorda appare a molti una persona paralizzata su un passato che non ha saputo rottamare. Così anche questa giornata odierna rischia di essere ascritta tra le cose che si devono fare ma senza abitarle, senza cioè che ci interpellino in profondità, senza che suscitino in ciascuno di noi responsabilità. Per la mia generazione, andare a visitare i campi di sterminio in gennaio – come feci recandomi con la scuola a Dachau a diciassette anni – era una scoperta che scuoteva fino alle fondamenta la nostra umanità. Oggi rischia di essere un’esperienza tra tante, abituati come siamo alla “conoscenza” delle notizie e degli orrori perpetrati nel mondo intero. In verità, se non ci si ricorda ciò che avvenne nell’epifania del male che colpì gli ebrei, non si è più capaci nemmeno di provare orrore per ciò che può di nuovo accadere.
Ma bisogna anche vigilare per non trasformare il “dovere” della memoria in un’ossessione paralizzante: ricordare le offese e i torti subiti – come persona, come gruppo sociale, etnico o religioso, oppure come membro dell’unica umanità condivisa – non deve servire a riattizzarli, ad alimentare sentimenti di vendetta uguale e contraria, a ridare loro vitalità. Al contrario, la memoria del male serve a farcelo assumere come atto nelle possibilità di ogni essere umano – e quindi anche di me stesso – e a considerarlo vincibile solo attraverso un preciso, ostinato, intelligente lavoro quotidiano fatto di pensieri e azioni radicalmente “altri”. E’ questo innanzitutto il compito dell’indispensabile “purificazione della memoria”: non un cinico cancellare i misfatti, non un’oltraggiosa equiparazione di vittime e carnefici, ma la faticosa accettazione che l’interrogativo postoci emblematicamente da Primo Levi – «se questo è un uomo» – contiene in sé l’ancor più tragica costatazione che «questo è stato fatto da un uomo».
A quelli che continuano a ripetere «Dov’era Dio?» – e oggi lo fanno senza aver patito nulla, per semplice vezzo letterario – io chiedo di porsi una domanda ancor più seria: «Dov’era l’uomo?». Sì, dov’era l’umanità? Perché ha taciuto quando sapeva? Perché è stata testimone e per anni ha attenuato o cercato di nascondere quanto accaduto? La memoria è essenziale all’umanizzazione: dove regna la dimenticanza, regna la barbarie.
La memoria diventa allora il luogo dell’indispensabile discernimento, l’esercizio in cui il passato, anche se amaro, diventa nutrimento per il futuro. Discernimento ancor più cogente in un tempo come il nostro in cui si assiste all’incepparsi stesso della trasmissione non solo di valori, ma degli eventi che tali valori hanno suscitato, all’enfasi posta sull’oggi o su un futuro concepito dagli uni come irraggiungibile miraggio e dagli altri come l’ossessivo aggrapparsi all’attimo presente. Ci si scorda delle radici, si rimuove il travaglio del passato, si rottama l’oscuro lavorio di generazioni o il tragico annientamento di popoli e così ci si priva del fondamentale strumento per discernere ciò che dell’oggi merita di avere un futuro. La memoria infatti non è la meccanica riesumazione di un evento passato che in esso ci rinchiude: al contrario, quando facciamo memoria noi richiamiamo l’evento accaduto ieri, lo invochiamo nel suo permanere oggi, lo sentiamo portatore di senso per il domani. In questa accezione la memoria apre al futuro e nel contempo attesta una fedeltà a eventi e verità, a un intrecciarsi di vicende che assume lo spessore di “storia”. Se fare memoria è questo operare un discernimento sul già avvenuto per alimentare l’attesa del non ancora realizzato, possiamo a ragione far nostre le parole intelligenti e sorprendenti del filosofo ebreo francese Marc-Alain Ouaknin, che così parafrasa il quarto comandamento: «Onora tuo padre e tua madre, cioè: Ricordati del tuo futuro!».

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani.
Parole chiave di questo articolo
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