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Rinuncie e gioie della vita nell'ebraismo – Seconda parte

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20/01/2010

Elena Lea Bartolini

Nel testo vengono parzialmente ripresi e rielaborati alcuni passaggi del seguente saggio: E. Bartolini, Dio ci chiederà conto dei beni di cui non abbiamo goduto, in “Parola Spirito e Vita” 45 (2002) [1] 55-68.

Guida alla lettura

Proponiamo oggi la seconda e ultima parte della riflessione di Elena Lea Bartolini sul giusto rapporto con le gioie della vita secondo l’ebraismo. Nella prima parte abbiamo visto come le religioni considerino spesso il corpo come indegno delle istanze dello spirito: una concezione estranea alla teologia biblica e che può condurre l’uomo ad affrontare inutili rinunce, o a non combattere con la necessaria determinazione la malattia e il dolore, nella convinzione che ciò faccia piacere a Dio. E abbiamo osservato come i maestri più fedeli all’autentico spirito della Torah insegnino invece che i piaceri della vita possono e, anzi, devono essere vissuti con serenità perché Dio vuole la felicità delle sue creature.
Oggi approfondiamo questi concetti alla luce della tradizione rabbinica. Dio ha creato il mondo per la gioia dell’uomo, e l’uomo è chiamato ad accogliere tale dono gustandolo con tutto il suo essere: lo spirito non ha dunque bisogno di affrancarsi dal corpo, perché ogni bene terreno, se utilizzato secondo una giusta intenzione e nel rispetto degli altri, non solo non ostacola ma anzi favorisce il cammino di comunione con il Signore e i fratelli. Chi si mortifica inutilmente, chi fa propria una mentalità doloristica che vede nella sofferenza e nella privazione un sacrificio gradito a Dio, commette un peccato grave, tanto più se cerca di imporre agli altri questa distorta visione del mondo (si ricordi, a questo proposito, il severo ammonimento di Gesù: «Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!» - Lc 11,47).
Ciò che davvero conta è invece il modo in cui si fruisce delle gioie della vita: occorre perseguire un saggio equilibrio, che eviti di fare dei beni e dei piaceri terreni lo scopo unico dell’esistenza; inoltre, e questo è specifico della spiritualità ebraica, ogni momento di pace e benessere va riconosciuto come dono di Dio, il che avviene attraverso la “benedizione”: una formula rituale, ma non per questo meno autentica e sentita, che esprime la riconoscenza del credente verso il Creatore in ogni circostanza della vita quotidiana.
L’esempio poetico della benedizione per gli alberi in fiore insegna infine che abituarsi a ringraziare educa non solo a un salutare decentramento da sé, ma anche allo stupore per la bellezza del mondo, aprendo gli occhi e il cuore a tutto ciò che, nel divenire spesso difficile dei giorni, può alleviare il dolore, la nostalgia, la solitudine, la paura. In questo senso, ancora una volta la Bibbia può insegnare qualcosa di importante anche per chi non crede in un’origine trascendente della realtà, ma condivide con le donne e gli uomini di ogni tempo la fatica di vivere e l’aspirazione a un’esistenza libera dal male.
La sana gioia di vivere godendo il mondo di Dio
«Vivi nella gioia? Così fai la volontà del cielo...» [1]. Con queste parole il Baal Shem Tov, fondatore del movimento chassidico [2], ricorda ai suoi discepoli che vivere alla luce della Torah significa vivere nel segno di una gioia che scaturisce dal saper godere dei doni della terra in quanto doni divini per gli uomini. Per questo anche Rabbi Pinchas di Korez sottolinea che «tutti i piaceri ci vengono dal Paradiso: persino le buone barzellette. […] Perché la gioia scaturisce dai mondi superiori: dall’Aureola Divina. E per questo lava tutti i peccati» [3]. Come infatti ribadisce Avraham Kalisher: «La Torah è stata data all’uomo per permettergli di celebrare la vita e tutto ciò che la rende degna di essere festeggiata» [4].
In questo modo i maestri chassidici ripropongono un insegnamento tradizionale nell’ebraismo: Dio crea il mondo per l’uomo, per la sua gioia; e l’uomo, che è creato ad immagine Sua, deve saper accogliere e vivere tale dono gustandolo con tutto il suo essere. Secondo l’antropologia biblica infatti, il centro vitale della persona è il cuore, in ebraico lev, considerato sede della ragione, della volontà e dei sentimenti, segno quindi di una dimensione corporea inscindibilmente connessa allo spirito, che permette all’orante di rivolgersi a Dio dicendo: «Tutto il mio essere [5] esulterà nel Signore e si allieterà nella Sua salvezza./Tutto il mio corpo [6] dirà: “Signore, chi è come Te?” (Sal 35,9-10)». A partire da tale orizzonte antropologico unitario, la convinzione di fondo è che lo spirito non ha bisogno di separarsi dal corpo per sperimentare il divino, come ricorda Rabbi Shmelke dopo il suo incontro con Rabbi Dov Bär di Mesritsch, conosciuto anche come il grande Maggid, cioè il grande predicatore:
Fino ad ora avevo mortificato il mio corpo, affinché potesse sopportare l’anima. Ora ho visto e appreso che l’anima può sopportare il corpo e non ha bisogno di separarsi da esso. È questo che ci è detto nella santa Torah: «Io stabilirò la mia dimora in mezzo a voi, e la mia anima non vi disprezzerà». Poiché l’anima non deve disprezzare il suo corpo [7].
Ogni dono terreno infatti, se utilizzato secondo una retta kavvanah, cioè secondo una giusta intenzione, non può nuocere ma, al contrario, aiuta nel cammino di comunione con il Signore. A questo proposito Rabbi Baruch, nipote del Baal Shem Tov, raccontava:
A mio nonno, il Baal Shem Tov, fu chiesto un giorno: «Qual è l’essenza del servizio di Dio? Noi sappiamo che in tempi passati sono vissuti “uomini dell’azione”, che digiunavano da un Sabato all’altro. Ma voi avete abolito questo, dicendo che chi si mortifica deve renderne conto come un peccatore, perché ha tormentato la sua anima. Spiegateci allora, qual è l’essenza del servizio di Dio?». Il Baal Shem Tov rispose: «Io sono venuto in questo mondo per mostrare un’altra via, cioè che l’uomo veda d’acquistare queste tre cose: amore a Dio, amore di Israele e amore alla Torah; e non c’è bisogno di mortificarsi» [8].
“L’altra via” di cui si parla non è una novità rispetto alla Tradizione ebraica, bensì un ritorno alla medesima nella sua forma più autentica ed equilibrata, senza cioè cadere in eccessi che rischiano di snaturarne il senso introducendo elementi dualistici ad essa estranei. Possiamo infatti considerare le indicazioni del Baal Shem Tov come una significativa interpretazione dell’invito a “scegliere la vita” testimoniato nel libro del Deuteronomio (cf. Dt 30,15-20), dove tale scelta deve coincidere con una vita santa alla luce degli insegnamenti rivelati, e dove l’importante è saper stare al cospetto del Signore coscienti del Suo amore e della giusta distanza fra Creatore e creatura.

Disprezzare il mondo significa disprezzare Dio
“Scegliere la vita” senza inutili mortificazioni significa pertanto equilibrio, che si coniuga con una visione positiva del mondo che è il mondo di Dio. A questo proposito, la Tradizione ha conservato una significativa narrazione che ha come protagonista Rabbi Shimon bar Jochai, vissuto verso la metà del II secolo dell’Era Volgare e considerato l’autore dello Zohar, il Libro dello Splendore, opera fondamentale della Qabbalah, la Tradizione mistica ebraica. Questo maestro fu costretto a nascondersi assieme a suo figlio in una caverna in seguito alle critiche da lui stesso mosse nei confronti dell’amministrazione romana. Rimase in tale nascondiglio per ben dodici anni durante i quali visse in maniera austera e lontano dal mondo finché, appreso che il sovrano era morto e il decreto di condanna revocato, decise di uscire. Vide degli uomini che aravano e seminavano, ed esclamò: «Dimenticano la vita dell’eternità e si occupano della vita che è transitoria». E dovunque egli e suo figlio volgevano gli occhi, il paese veniva subito consumato dal fuoco. Uscì allora dal cielo una Bath Qol, una “voce divina”, e disse loro: «Avete lasciato la vostra caverna per distruggere il mio mondo? Tornateci!» [9]. Il racconto mette in evidenza che “occuparsi della vita”, e di conseguenza dei piaceri che ne derivano, significa custodire il mondo di Dio affidato all’uomo (cf. Gen 2,15), quel mondo creato affinché egli ne possa godere (cf. Gen 1,28-29).
Ma quali sono le condizioni che garantiscono un godimento, non solo nella giusta misura, ma nella coscienza che tutto ciò viene da Dio?
Unitamente all’importanza di un saggio equilibrio che eviti degenerazioni ed eccessi in contrasto con ciò che la Torah insegna, la Tradizione insiste su un altro elemento fondamentale, insegnando che il godimento di ogni bene terreno è subordinato alla “benedizione”, cioè ad un gesto posto dall’uomo che ne espliciti il riconoscimento come dono divino. Troviamo infatti scritto nel Talmud: «È proibito all’uomo godere di qualche cosa che è di questo mondo senza pronunciare una benedizione; chi gode dei beni di questo mondo senza dire una benedizione commette un atto di infedeltà. […] Chi gode dei beni di questo mondo senza dire una benedizione agisce come se depredasse il Santo [il Signore]» [10].
L’accento è pertanto significativamente posto sul modo in cui si gode: il piacere è lecito, è un valore positivo; tuttavia non deve diventare lo scopo della vita, non deve essere considerato un diritto assoluto, soprattutto non deve portare l’uomo a considerarsi il padrone incondizionato del mondo né, tanto meno, il suo creatore. L’atto di “infedeltà” di chi “gode senza benedire” consiste nel non riconoscere la signoria di Dio sulla creazione, atteggiamento considerato come una sorta di “furto” nei confronti di Colui che è il creatore di ogni cosa [11]. Siamo quindi nella logica di chi ha la coscienza di godere di qualcosa che gli è offerto ma che non gli appartiene totalmente, di chi sa che il mondo può rivelare la sua identità e dischiudere il suo senso solo per chi è capace di pronunziare una benedizione di fronte ad ogni cosa, poiché la medesima costituisce uno spazio relazionale nel quale Creatore e creatura possono incontrarsi.
Per questo la tradizione ebraica conosce benedizioni per qualsiasi circostanza della vita, e insegna che le stesse vanno solitamente recitate sia prima che dopo il godimento di un bene: prima per riconoscerlo come dono del Signore e, dopo averlo gustato, per renderGli grazie. C’è quindi una stretta connessione fra l’atto del benedire e l’esperienza del godere: ciò di cui si rende grazie è ciò che si è effettivamente gustato, ciò che effettivamente ha procurato piacere, sia che si tratti di cose necessarie, sia che si tratti di beni non indispensabili ma che comunque procurano gioia. Un significativo esempio è la benedizione che deve recitare chi vede alberi in fiore nel mese di Nissan, il mese in cui cade la festa di Pesach, il “memoriale” dell’uscita dall’Egitto: «Benedetto Tu, o Signore Dio nostro, Re del mondo, che non ha fatto mancare nulla nel suo mondo e ha creato buone creature e alberi buoni per far godere di loro gli uomini» [12].
L’orientamento di fondo che la Tradizione rabbinica propone, è dunque quello di una coscienza equilibrata, che sa apprezzare il dono della vita nel segno di una libertà vissuta come valore: è la libertà di chi accoglie un insegnamento divino per l’uomo, per la sua felicità. È questo infatti lo scopo per cui la Torah è stata donata: per essere “libertà su tavole”, come insegna Rabbi Joshua ben Levi che, nel III secolo, commentando il passo dell’Esodo che dice: «Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, incisa sulle tavole” (Es 32,16), utilizza un gioco di parole permesso dalla lingua ebraica e precisa: “Leggi qui non charut [“inciso”], ma cherut [“libertà”]» [13].
La domanda allora si riapre sul modo in cui tale libertà è accolta, vissuta, e testimoniata. Ogni forma di legalismo che ne snatura il senso appare dunque discutibile, così come risulta inaccettabile una sua applicazione che non tenga in debito conto gli aspetti materiali di un’esistenza che deve essere goduta, e non subita o repressa. Una vita santa deve essere una vita felice, capace di sani piaceri. I Maestri ci insegnano infatti che Dio non solo ci ha affidato i beni terreni, ma ci chiederà conto anche di come li abbiamo utilizzati e goduti a favore della felicità a cui ci ha chiamato: rinunciare a tutto questo rischia di portarci a disprezzare quell’umanità che è immagine Sua. È una inutile rinuncia, un sacrificio che non ci è chiesto e che non siamo autorizzati ad imporre ad alcuno.
Troppo spesso forse, dimentichiamo che i nostri pensieri non sono sempre quelli di Dio e le nostre vie non sono sempre le Sue vie (cf. Is 55,8), pertanto troviamo più rassicuranti rigide ed eccessive forme ascetiche che sembrano garantirci la “via giusta” rinunciando alla gioiosa libertà dei figli di Dio.

Note

1) V. Malka, Così parlavano i chassidim, Paoline, Milano 1996, p. 82.
2) Isra’el ben Eliezer (1700 ca. – 1760), detto Baal Shem Tov, “Signore del Nome buono”, cioè del Nome divino. Figura carismatica e fondatore del movimento chassidico sviluppatosi nell’Europa dell’Est attorno al 1750 come momento di rinnovamento spirituale nell’orizzonte della tradizione mistica ebraica. Per ulteriori approfondimenti rimando a: E. Bartolini, L’esperienza di Dio nel chassidismo, in AA. VV., Narrare l’esperienza mistica (Ebraismo/ottavo quaderno), a cura di E. Bartolini, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1999, pp. 99-149.
3) J. Langer, Le nove porte. I segreti del chassidismo, Adelphi, Milano 1987, p. 204.
4) V. Malka, Così parlavano i chassidim, p. 145.
5) Nel testo ebraico il termine utilizzato è “nafshj”, che comprende i significati di “essere vivente”, “essere che respira”, ed è usato anche con il significato di “persona”.
6) Il termine ebraico corrispondente in questo caso è “‘atzmotaj”, letteralmente “le mie ossa”. Tale termine viene utilizzato anche per esprimere i significati di “corpo”, “persona”, “forza”.
7) M. Buber, I racconti dei chassidim, Garzanti, Milano 1988, p. 149.
8) M. Buber, I racconti dei chassidim, p. 95.
9) Cf. Talmud Babilonese, Shabbat 33b.
10) Talmud Babilonese, Berakhot 35a e 35b.
11) Nel testo ebraico della Scrittura, la radice verbale b-r-’, che esprime il significato di “creare”, ha sempre come soggetto Dio, in quanto l’uomo può solo trasformare ciò che il Signore ha creato.
12) Ritrovabile in: Berakhoth. Introduzione alle benedizioni, a cura di R. Di Segni, Carucci-D.A.C., Roma 1980, p. 70. Come si può notare, la formula di benedizione inizia rivolgendosi direttamente a Dio (“benedetto Tu”), per poi passare alla forma impersonale (“che non ha fatto...”, “che ha creato...”); in questo modo si afferma sia la sua immanenza, cioè il suo essere nel mondo accanto all’uomo, sia la sua trascendenza, cioè il suo essere “totalmente Altro” non riconducibile a concetti umani.
13) Mishnah, Avot VI, 2. Il gioco di parole per assonanza è permesso dal fatto che l’alfabeto ebraico è solo consonantico.

Biografia

Di origini ebraiche da parte materna, Elena Lea Bartolini è nata a Pavia nel 1958. Dottore in Teologia Ecumenica con specializzazione in ermeneutica rabbinica, è membro dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG), del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI) e dell’Associazione Mariologica Interdisciplinare Italiana (AMI).
E’ docente di Giudaismo presso il Centro Studi Vicino Oriente di Milano e presso l’ISSR-MI collegato alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale; collabora con diversi Atenei pontifici – tra i quali l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia, l’Università Pontificia Salesiana (UPS), il San Bonaventura, il Marianum e l’Auxilium di Roma – e con diversi Istituti Teologici.
E’ docente e consulente all’interno di diverse iniziative locali e nazionali per il dialogo fra le chiese e gli ebrei: in particolare, ha curato il progetto Judaica (1998-2003) promosso dalla Casa Editrice Ancora di Milano. Attualmente dirige la collana “Studi Giudaici” per la Casa Editrice Effatà e cura la rubrica “Judaica” per la nuova edizione della rivista “Terrasanta” nell’ambito dei periodici della Custodia francescana. E’ consulente di redazione per le riviste “Terrasanta” e “Jesus”.
Ha curato la revisione ecumenica e la stesura delle voci ebraiche per l’“Enciclopedia del Cristianesimo”, edita da De Agostini (Novara 1997); ha curato alcuni “Quaderni” sull’Ebraismo per le Edizioni Studio Domenicano (Bologna 1997-1999), per le quali ha coordinato anche i “Quaderni” sulle Chiese della Riforma (Bologna 2004-2007).
Ha diretto la sezione “Ebraismo” per la nuova edizione dell’“Enciclopedia Filosofica”, edita da Bompiani (Milano 2006), a cura della Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, sotto la direzione del Prof. Virgilio Melchiorre dell’Università Cattolica di Milano.
Collabora con gli Uffici Nazionali della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e con alcune riviste, tra le quali, SeFeR (Studi-Fatti-Ricerche), Qol, Horeb, Studi Ecumenici, Parola Spirito e Vita (PSV), Rivista di Pastorale Liturgica (RPL), La scuola domenicale.
E’ membro del gruppo interconfessionale “Teshuvah” del Centro Ecumenico Diocesano di Milano, per il dialogo fra le chiese e gli ebrei, e collabora con il Segretariato Attività Ecumeniche (SAE). E’ socio fondatore e membro del Consiglio direttivo del Centro Studi Nazareth Alta Formazione (CeSNAF), per la promozione integrale della persona, della coppia e della famiglia.

Per un elenco delle principali pubblicazioni, si veda Il significato della sofferenza nell'ebraismo – Introduzione
Sullo stesso argomento per pazienti

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