Guida alla lettura
Sullo sfondo, la pagina evangelica di Matteo che ci rivela come, alla fine del mondo, l’unico metro con cui saremo giudicati sarà proprio la compassione che avremo avuto per i deboli e i diseredati. Una pagina che, come la parabola del Samaritano misericordioso (Luca 10, 29-37), ci decentra con autorità, esortandoci ad essere noi stessi “prossimo” degli altri, e rivelandoci che la vera storia del mondo non è quella degli eventi spettacolari o violenti, ma nasce dall’umile trama quotidiana dell’aiuto dato e ricevuto.
Quando qualcuno ha compassione ci ritroviamo veramente guardati, ascoltati, accuditi. Nel nostro soffrire, involontariamente urliamo (molti dei nostri comportamenti possono essere considerati come delle “urla”). Tutti noi l’abbiamo fatto fin da quando eravamo bambini, e ancora aneliamo a essere accuditi. La sofferenza intensifica questo anelito: troveremo la “madre” o il “padre” di cui abbiamo bisogno? Qualcuno avrà nei nostri confronti quella qualità d’attenzione che sgorga da un interesse profondo per noi?
L’attenzione compassionevole è un affare complesso e non c’è garanzia del fatto che, soprattutto se soffriamo intensamente, riusciremo a riconoscerla. Facilmente regrediamo fino allo stato di bambini che scalciano e urlano e “odiano” i propri genitori. Eppure, anche ammesse tutte le complicazioni del caso, resta qualcosa di cui quasi tutti noi, in quasi tutte le situazioni, sappiamo accorgerci se lo stiamo ricevendo o no; e in verità scalciare e urlare ci è possibile solo con quelle persone nel cui interesse per noi abbiamo fiducia.
La tragedia è che, pur avendo disperatamente bisogno di attenzione compassionevole, non possiamo garantircela. Non si può manipolare, acquistare, fabbricare o produrre con una qualche formula. Qualcuno deve offrirla, con libertà e responsabilità. Poi deve continuare a offrirla con fedeltà. Questo ci rende così vulnerabili che ci spingiamo anche molto in là pur di trovare forme alternative di sicurezza. Neghiamo o sopprimiamo il nostro bisogno. Oppure diventiamo stoici, rassegnati a non doverla incontrare. O ci accontentiamo di forme di conforto più “affidabili”: il bere, il lavoro, ogni genere di dipendenza o di evasione. O diveniamo aggressivi, nei confronti di noi stessi o degli altri. O sviluppiamo forme di relazione che tentano l’impossibile: attenzione compassionevole senza la vulnerabilità. L’elenco potrebbe riempire pagine e pagine: ciascuno di noi può aggiungervi il proprio modo di cercare di compensare la mancanza di attenzione compassionevole e di evitare i rischi del farvi affidamento.
Se l’attenzione che qualcuno presta è autenticamente compassionevole, allora non si ferma al fatto di essere attenti; lui o lei desidera parlare, agire e persino soffrire con noi e per noi. E’ in una simile passività, nel ricevere la loro compassione, che le dinamiche più potenti del nostro sentire e del nostro agire vengono plasmate. La gratitudine meravigliata per tale compassione può costituire l’ispirazione di un’intera vita. L’amarezza di vedersela negata può essere altrettanto potente: la sofferenza può contrarre tanto quanto dilatare. La compassione è quell’eccedenza che incontra la nostra sofferenza con pieno realismo e rende possibile un movimento espansivo d’amore e generosità.
Nello sperimentare atti di compassione tocchiamo con mano ciò che è realmente importante nella storia del mondo. Davanti a Dio, la compassione è quel che conta di più. Nel momento del bisogno lo riconosciamo. Che questi atti vengano ampiamente conosciuti o no, questo è accidentale. La gran parte viene compiuta da gente normale in situazioni non spettacolari. Forse il “giudizio finale” trova la sua migliore raffigurazione come la manifestazione e la conferma del giudizio di Dio su questo genere di storia. Il capitolo 25 di Matteo offre una lista di quegli eventi che risulteranno essere stati più significativi: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, accogliere gli stranieri, vestire gli ignudi, visitare i prigionieri e aver cura dei malati. Il racconto mostra visivamente un cenno di quella “storia alternativa” che è intrecciata nelle nostre vite grazie alle persone che, nel momento di massima intensità del nostro bisogno, ci hanno prestato un’attenzione compassionevole. È anche un invito a orientarci a partire da quegli eventi e, nella nostra vita pubblica come in quella privata, a impersonare il nostro ruolo nel dramma sempre in corso della compassione.
Biografia
I suoi interessi più recenti vertono sull’interpretazione della Sacra Scrittura alla luce del dialogo ecumenico e interreligioso, e nel contesto dello scenario internazionale successivo all’11 settembre. Il suo impegno mira da sempre ad «attingere da ogni tradizione interpretativa di testi sacri non cristiani spunti adatti a ripensare la stessa lettura cristiana della Bibbia, nonché per promuovere cammini di incontro tra le diverse tradizioni religiose» (Dare forma alla vita, Prefazione, p. 6). Si occupa anche dei rapporti delle religioni con le culture e le tradizioni secolari.
Sposato, con tre figli, collaboratore delle comunità dell’Arche fondate da Jean Vanier, unisce alla competenza accademica una passione per tutto ciò che è umano e una spiccata attenzione per la dimensione poetica dell’esistenza. Il volume da cui è tratto il passo è il suo primo libro tradotto in italiano.