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Le radici del vero amore

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08/12/2010

Tratto da:
Jean Vanier, La comunità luogo del perdono e della festa, Jaca Book, Milano, 1979, p. 19-20

Si ringrazia l’Editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Questo brano di Jean Vanier sull’essenza del vero amore ha una qualità straordinaria e rara: sa parlare a tutti, a ciascuno offre un possibile piano di lettura, un punto di vista utile a coltivare ciò che nelle relazioni può dare gioia e serenità, o ad affrontare ciò che in esse è causa frequente di solitudine, incomprensione e profondo dolore.
La riflessione di Vanier infatti, pur esprimendo l’esperienza molto peculiare di un uomo che ha vissuto quasi tutta la vita in una comunità al servizio dei disabili fisici e mentali, ci aiuta a riflettere su ciò che dovrebbe e potrebbe essere l’amore di un uomo per una donna, di una madre o di un padre per un figlio, ma anche per un amico, per un collega, per le persone che la vita o il caso ci pongono vicino. E tutto questo senza porsi necessariamente in un’ottica di fede: anche un agnostico o un ateo possono credere che amare «è ascoltare l’altro, mettersi al suo posto, capirlo, interessarsene; è rispondere alla sua chiamata e ai suoi bisogni più profondi; è compatirlo, soffrire con lui, piangere quando piange, rallegrarsi quando si rallegra». Tutte disposizioni del cuore profondamente umane e umanizzanti, prima di essere cristiane o comunque “religiose”.
Tre i punti focali della riflessione, di cui proponiamo una possibile, ma non unica, declinazione pratica.
Primo: l’amore vero non è un’emozione sentimentale o passeggera, ma il frutto di una scelta responsabile e di un impegno rinnovato nel tempo, contro ogni superficialità o cedimento a pulsioni momentanee magari generose, ma dalle radici poco profonde. Qui Vanier sembra parlare innanzitutto ai giovani, e alla loro difficoltà a stabilire relazioni capaci di durare nel tempo. Attenzione, però: questo è vero non solo – come spesso si sente dire unilateralmente e un po’ moralisticamente – nel senso che l’amore deve resistere contro ogni avversità, ma anche e soprattutto nel senso che, se è vero amore e non una proiezione narcisistica del nostro egoismo, non deve innanzitutto provocarle, queste avversità, cedendo alla violenza, alla brutalità, all’indifferenza, al tradimento della fiducia. Altrimenti l’obbligo etico di custodire l’amore ricade sempre e solo sulle vittime, e mai sui potenziali carnefici della relazione.
Secondo: l’amore è innanzitutto volere che l’altro «sia fedele alla sua chiamata». Esso è dunque capace di lasciare andare l’altro lungo le strade della vita, contro il nostro stesso bisogno di lui o di lei. Un’esigenza difficile da accettare, persino nella relazione d’amore per eccellenza, quella di un genitore per il figlio. Quante volte un affetto in buona fede, ma ansioso e possessivo, compromette in profondità il talento di un giovane, la sua passione più vera, quella luce remota ma vivissima pronta a guidare le decisioni della sua vita? «Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza» avverte nella Bibbia il salmo 126, mettendoci in guardia da queste dinamiche distruttive.
Terzo: per passare dall’egoismo all’amore «occorrono tempo e molteplici purificazioni, delle morti costanti e nuove resurrezioni». E questo vale davvero per tutti, perché ogni giorno può nascondere un’insidia alla relazione, e ogni dimensione della nostra personalità, per quanto legittima, può rivelarsi un ostacolo alla comprensione dell’altro.
In questo ultimo scorcio del 2010, anno aspro e difficile per molti, dedichiamo il brano di Vanier a tutti coloro che soffrono per un amore finito o in difficoltà, ma anche a tutti coloro che l’amore lo coltivano con impegno giorno dopo giorno, o che – dopo una morte reale o simbolica – non vogliono cedere alla disillusione e al falso conforto dell’aridità, e tentano di ricominciare.
Una comunità è tale quando la maggioranza dei suoi componenti sta facendo il passaggio da “la comunità per me” a “io per la comunità”, cioè quando il cuore di ognuno si sta aprendo a ogni membro, senza escludere nessuno. E’ il passaggio dall’egoismo all’amore, dalla morte alla resurrezione: il passaggio da una terra di schiavitù a una terra promessa, quella della liberazione interiore.
La comunità non è una coabitazione, perché questo è una caserma o un albergo. Non è una squadra di lavoro e ancor meno un nido di vipere! E’ quel luogo in cui ciascuno, o piuttosto la maggioranza (bisogna essere realisti), sta emergendo dalle tenebre dell’egocentrismo alla luce dell’amore vero: «Non concedete nulla alla vanagloria, ma ognuno per umiltà stimi gli altri superiori a sé; nessuno ricerchi i propri interessi, ma piuttosto ognuno pensi a quelli degli altri» (Paolo, Lettera Filippesi 2,3-4).
L’amore non è né sentimentale, né un’emozione passeggera; è un’attenzione all’altro che a poco a poco diventa impegno, riconoscimento di un legame, di un’appartenenza vicendevole; è ascoltare l’altro, mettersi al suo posto, capirlo, interessarsene; è rispondere alla sua chiamata e ai suoi bisogni più profondi; è compatirlo, soffrire con lui, piangere quando piange, rallegrarsi quando si rallegra. Amare vuol dire anche essere felici quando l’altro è lì, tristi quando è assente; è restare vicendevolmente l’uno nell’altro, prendendo rifugio l’uno nell’altro: «L’amore è una potenza unificatrice», dice Dionigi l’Areopagita.
Se l’amore è essere teso uno verso l’altro, è anche e soprattutto tendere entrambi verso le stesse realtà; è sperare e volere le stesse cose; è partecipare della stessa visione, dello stesso ideale. E, con questo, è volere che l’altro si realizzi pienamente secondo le vie di Dio e al servizio degli altri; è volere che sia fedele alla sua chiamata, libero di amare in tutte le dimensioni del suo essere.
Abbiamo qui i due poli della comunità: un senso di appartenenza gli uni agli altri, ma anche un desiderio che l’altro vada oltre nel suo dono a Dio e agli altri, che sia più luminoso, più profondamente nella verità e nella pace.
Perché un cuore faccia questo passo dall’egoismo all’amore, occorrono tempo e molteplici purificazioni, delle morti costanti e nuove resurrezioni. Per amare, bisogna incessantemente morire alle proprie idee, alle proprie suscettibilità, alle proprie comodità. La via dell’amore è tessuta di sacrifici.

Biografia

Jean Vanier nasce nel 1928 a Ginevra, dove suo padre – Governatore Generale del Canada – è in servizio come diplomatico (il Paese nordamericano otterrà la piena indipendenza solo nel 1931).
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, si trova a Parigi. Nel 1940, la sua famiglia si rifugia in Inghilterra, su un’affollatissima nave di rifugiati. E’ questo il primo contatto del giovanissimo Jean con il dramma dell’emarginazione. L’anno successivo, tornato in Canada, Vanier sente il bisogno di contribuire alla liberazione dell’Europa e si iscrive al College della Marina Reale Inglese: inizia così una precoce carriera militare che lo vedrà prima cadetto e poi ufficiale della Marina britannica e della Marina canadese. A vent’anni, però, abbandona la vita militare per intraprendere gli studi umanistici: studia filosofia all’università di Parigi, ove consegue il dottorato, e successivamente insegna per alcuni anni a Toronto.
Nel 1963, la vera e definitiva svolta della sua vita: l’incontro con la disabilità mentale e fisica. E’ lui stesso a raccontare: «Mi trovavo di nuovo in Francia, e un sacerdote mi mise in contatto con alcuni ragazzi che non erano assetati di studio, ma si chiedevano: chi sono, perché sono così, perché i miei genitori non sono felici che io esista?». Colpito da quegli incontri, l’anno dopo Vanier accoglie con sé due giovani disabili, Raphael e Philippe, in una casetta a Trosly-Breuil, villaggio a nord di Parigi. Inizia così l’esperienza delle comunità dell’Arca.
«A poco a poco – ricorda ancora Vanier – mi sono reso conto della profonda ferita che segna le persone disabili. Anche se attentamente curate, non comprendono perché sono emarginate, perché non vivono come i loro fratelli e le loro sorelle. E può succedere anche che siano gravemente oppresse: ho visto, in giro per il mondo, bambini incatenati, uomini e donne ammassati nella sporcizia. L’esperienza mi ha insegnato che la loro violenza, le loro stranezze, la loro depressione sono una richiesta di vera relazione: “Vale la pena occuparsi di me? Posso essere amato come gli altri?”. La sola risposta possibile è che un altro cuore dica loro: “Sì, tu lo meriti. Sono disposto ad impegnarmi con te perché voglio che tu viva in piena dignità”».
Nel 1971, con Marie Melene Matthieu, fonda il movimento “Fede e Luce”, che riunisce persone con handicap, i loro genitori e i loro amici per condividere momenti di divertimento e di preghiera.
Fino al 1981 Vanier gestisce personalmente la comunità dell’Arca di Trosly-Breuil, dove attualmente vive. La sua sensibilità e il suo lavoro per costruire una società più umana sono stati riconosciuti anche attraverso riconoscimenti come la Legion d’Onore in Francia, il Premio Internazionale Paolo VI, il Premio umanitario Rabbi Gunther Plaut.
In una recente intervista, ha affermato: «Fra i nostri ospiti c’è anche chi non ha la possibilità di parlare. E allora comunichiamo attraverso gli occhi. Con loro, io che prima ero sempre stato con persone vincenti ho scoperto persone che hanno perso tutto. La malattia mentale è una grossa domanda per il nostro mondo. Ma viviamo in un mondo che ancora fa fatica ad accettare chi è disabile. Eppure, siamo nati tutti nella debolezza, e moriremo nella debolezza. E tutti abbiamo bisogno di sentirci apprezzati e di essere considerati unici: di non essere un numero in un gregge, ma di essere ascoltati e amati. E’ un bisogno che va al di là di qualsiasi capacità o incapacità».
Oggi nel mondo ci sono oltre 130 comunità dell’Arca, e oltre mille comunità “Fede e Luce”. La loro carta costitutiva dice: «Le nostre comunità non sono una soluzione ma un segno, il segno che una società realmente umana deve essere fondata sull’accoglienza e sul rispetto dei più piccoli e dei più deboli».
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