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Le false verità sul male e la sofferenza - Prima parte

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29/09/2010

Tratto da:
Xavier Thévenot, Ha senso la sofferenza?, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2009, p. 31-36

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Il primo settembre abbiamo pubblicato l’introduzione di Luciano Manicardi, monaco di Bose, al volume “Ha senso la sofferenza?” di Xavier Thévenot, sacerdote e teologo, a lungo affetto dal morbo di Parkinson. Commentando l’approccio anticonvenzionale di Thévenot al problema del male e del dolore, Manicardi osservava: «Diffidando dei “bei discorsi” e delle “belle teorie”, mettendo in guardia dalle “scorciatoie del linguaggio” e dagli inganni di un “linguaggio approssimativo” che nutrono frasi spirituali e disumane, elevate e antievangeliche al tempo stesso, l’autore persegue il fine di umanizzare ed evangelizzare la sofferenza e dunque anche le parole sulla sofferenza».
Oggi proponiamo la prima parte di una serie di riflessioni che illuminano con molta efficacia questa impostazione. Thévenot punta il dito contro un certo tipo di uomo religioso, sempre pronto a dare spiegazioni della sofferenza, ma capace in sostanza di produrre solo «chiacchiere prive di equilibrio». I tipici ragionamenti che incoraggiano a “offrire” la sofferenza a Dio, a vedervi il segno della “predilezione” divina o uno strumento di “redenzione”, vengono smascherati nella loro ingannevole ambiguità, nel loro germogliare da un terreno che poco o nulla ha da spartire con l’autentico messaggio della Bibbia, e del Vangelo in particolare.
«Com’è possibile dire che ciò che disumanizza è liberatore, sta salvando il mondo, redime? A quale Dio, a quale Padre potrebbe piacere ricevere in dono ciò che disumanizza, rovina, mutila, in una parola il male?», chiede accorato Thévenot. In realtà, come suggerirà nella seconda parte della riflessione, ciò che salva, ciò che conferisce senso e compiutezza alla nostra vita, non è la sofferenza in sé, ma il modo in cui l’attraversiamo continuando ad amare Dio, noi stessi e gli altri, senza lasciarci travolgere dalla disperazione e dal non senso.
Cosa fare davanti a tanta sofferenza?
Ci sentiamo, innanzitutto, come estranei a noi stessi: «Non mi capisco più. Sono un altro rispetto a chi ero prima di soffrire. Come se fossi abitato da qualcun altro». Quando è forte, la sofferenza mi possiede, mi violenta. Non sono più padrone di me stesso, un’esperienza davvero dura.
Di noi si impadronisce anche una solitudine estrema. Chi mi può incontrare nella mia sofferenza? Tutte le parole che mi sono rivolte risuonano più o meno false... Mi sento solo. Chi è in grado di capire ciò che c’è di unico nel mio dramma interiore, nella mia prova fisica, psichica? Conosco allora la tentazione di rinchiudermi in questa solitudine. Eppure, nello stesso movimento, una parte di me vorrebbe comunicare. Sono lacerato tra questi due desideri, tirato da una parte all’altra.
Quando è molto forte, la sofferenza ci sembra stupida e assurda, come dicono i filosofi: «È folle guanto mi succede, non ha senso». Proprio quello che mi procurava la gioia di vivere, il corpo, la famiglia, i figli, la fede cristiana, oggi mi disorienta. Crollano ora tutte quelle certezze facili che sorreggono la fede e l’amore. A chi o a cosa rivolgermi per rimettermi in piedi? È lo smarrimento! Se sono cristiano, cerco di trovare il senso di quello che mi succede. Ascolto quello che si dice della sofferenza intorno a me. In particolare, coloro che stanno bene, i quali qualche volta diventano per me quasi come un insulto, perché scoppiano di salute, di gioia di vivere. Ci sono persone che hanno sempre pronte spiegazioni della sofferenza. I teologi, i preti, gli amici pieni di buone intenzioni che non esauriscono mai i discorsi e le belle teorie. Li ascolto con onestà ma per lo più sento solo chiacchiere prive di equilibrio.

I bei discorsi e le belle teorie
«Stai soffrendo, ma devi sapere che Dio prova in modo speciale chi ama. La tua sofferenza è segno della sua predilezione per te».
Negli ambienti cristiani è questa spesso la prima riflessione che si sente. Certo, se voglio essere un buon padre o una buona madre di famiglia, so di dover talvolta punire i miei figli per farli crescere, so di dover imporre loro delle esperienze dure, se non altro per formare la loro volontà ed educarne i desideri. Ma so anche di non dover mai imporre ai miei figli in modo arbitrario sofferenze che li schiacciano, che li mutilano, che spezzano il loro gusto di vivere e le loro relazioni.
Perciò pensieri di questo tipo, secondo i quali Dio ci invierebbe queste sofferenze come segno del suo amore per noi, ci sembrano insopportabili. Come se essere prediletti da Dio significasse essere mutilati del proprio gusto di vivere! Che fine fanno così le parole di Gesù: “Sono venuto perché abbiate la vita in abbondanza. Vi do la mia gioia. Nessuno potrà rapirvela” (cf. Gv 10,10; 15,11)?
No, queste teorie non sono affatto conformi al cristianesimo autentico.
Si ascoltano anche altri discorsi: «Stai soffrendo. Sii felice, perché la tua sofferenza serve a salvare il mondo. La tua sofferenza redime». In un primo momento, mi aggrappo a pensieri come questo. Almeno mi mostrano che la mia sofferenza, che in apparenza non serve a nulla se non a farmi disperare, è utile a qualcuno. Ma abbastanza in fretta anche qui spunta il dubbio.
Infatti, la sofferenza in quanto tale isola, deprime, spezza le forze di vita, con il suo peso può schiacciare chi mi è vicino e, quando è davvero forte, mi può far desiderare di farla finita con i miei giorni. In poche parole, la sofferenza disumanizza! Com’è allora possibile dire che ciò che disumanizza è liberatore, sta salvando il mondo, redime? Il cancro di qualcuno contribuisce a liberare gli altri? La sofferenza di un bambino innocente può essere liberatrice per qualcuno? C’è qualcosa di orribile nel dire cose simili. Decisamente, la formula “la sofferenza redime” mi sembra per lo meno piena di trappole, e carica di alcuni errori. E, in un attimo, ho voglia di unirmi ai miei amici non credenti che dicono: «Come fai a pensare che la sofferenza redima il mondo, se ti schiaccia tanto? Ne sparano tante i preti...».
Un altro discorso spesso ascoltato è: «Stai soffrendo? Offri le tue sofferenze a Dio». Certo, si vede bene l'atteggiamento autentico che si cerca di esprimere in questo modo: offri la tua vita a Dio, anche quando è sfigurata dalla sofferenza. Ma alla lettera la formula “offri le tue sofferenze” fa riferimento a un Dio quanto meno strano. Infatti, cos’è la sofferenza? Il male! A quale Dio, a quale Padre potrebbe piacere ricevere in dono ciò che disumanizza, rovina, mutila, in una parola il male? Questi non sarebbe forse un Dio perverso?
Già non è facile trovare il senso della mia sofferenza quando ci sono in mezzo, e mentre ci provo devo anche imbattermi nei discorsi di certi cristiani che mi sembrano in parte sbagliati e a dir poco pieni di insidie. Parole che non aiutano infine quella riconquista di me che mi sforzo di vivere dentro la prova.

Biografia

Xavier Thévenot (1938-2004), sacerdote francese, è stato salesiano di Don Bosco e professore di teologia morale all’Istituto Cattolico di Parigi. Affetto per oltre 20 anni dal morbo di Parkinson, ha scritto pagine dense e sofferte sulla propria esperienza di malattia.
Thévenot amava definire la morale come «ciò a cui gli uomini si obbligano quando vogliono conferire un senso alla propria vita» e come «un insieme di regole e di valori che ci consentono di trovare a poco a poco, e liberamente, cammini di umanizzazione e di felicità».
Teologo di fama internazionale, capace di parlare della morale senza cadere nel moralismo, Thévenot ha contribuito a dimostrare come sia possibile riflettere sulla realtà e assumere decisioni responsabili anche quando il bene e il male sembrano essere inestricabilmente legati.
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