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Portare il peso del dolore – 5: La voce di Giobbe: genesi e struttura del testo

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03/07/2013

Tratto da:
Gianfranco Ravasi, Portare il peso del dolore, Edizioni San Paolo, 2013, p. 43-48

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Nella quinta parte del volumetto “Portare il peso del dolore”, Gianfranco Ravasi spiega la formazione e la struttura del libro di Giobbe. La riflessione è importante per due ragioni: la prima, di ordine metodologico; la seconda, di ordine interpretativo.
Sul piano del metodo, Ravasi illustra un dato tecnico che può sorprenderci: il libro di Giobbe non è il prodotto di un unico scrittore, e rivela anzi strati narrativi diversi, anche di origine orale, provenienti da epoche e ambienti differenti. Questa situazione a “mosaico” è tipica di molti dei libri che compongono la Bibbia, a cominciare da Genesi sino ai profeti, in particolare Isaia. Ed lo è anche per tanti altri testi antichi, come Iliade e Odissea (e all’interno del Nuovo Testamento, per gli stessi Vangeli). La concezione che noi moderni abbiamo dell’opera letteraria, unita magari a una scarsa conoscenza delle scienze filologiche, ci porta invece a pensare il contrario: un libro, un autore, un solo momento creativo.
Rendersi conto di questa differente dinamica compositiva è decisivo non solo sul piano culturale, ma anche a livello teologico, perché è il più potente antidoto al fondamentalismo, per il quale il testo biblico è tutto ugualmente “vero”, sincronico e ispirato, quasi fosse stato scritto da Dio in persona, senza intermediazione. E’ invece importante che il credente impari a distinguere, all’interno dei singoli libri, la “parola” ispirata da Dio, sempre normativa, e le parole umane, condizionate dalla cultura, dalla mentalità e anche dai pregiudizi del tempo: altrimenti si rischia di elaborare una spiritualità deviata, come tante volte abbiamo sottolineato in questa rubrica parlando proprio del tema del dolore.
Sul piano interpretativo, Ravasi chiarisce come il libro di Giobbe non spieghi affatto l’esistenza del male, ma ribadisca il mistero, motivandolo con l’infinita distanza fra la mente di Dio e la debole razionalità dell’uomo. Una conclusione deludente, se vogliamo: ma sempre meno della «sclerosi ideologica» in cui si dibattono gli amici del protagonista, e che riproduce due teorie del male tanto radicate a quel tempo quanto inumane e assurde, come quella della “retribuzione” (l’uomo soffre perché pecca) e quella “pedagogica” (l’uomo soffre per purificarsi).
Il tema della distanza incolmabile fra il pensiero di Dio e quello delle sue creature tornerà con accenti poetici immortali nel XIX canto del Paradiso di Dante: «Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d’una spanna?» (vv. 79-81). Ma in Dante avremo anche il superamento di questa amara consapevolezza, nella fede, resa certa dalla morte e resurrezione di Cristo, in un Dio che alla fine del mondo concretamente riparerà i torti e asciugherà le lacrime di chi avrà sofferto.
Il libro di Giobbe non è un prodotto fiorito in un unico periodo creativo dalla mente e dalla fede di un unico scrittore, anche se esiste un poeta primario e decisivo a cui deve essere ricondotta la sostanza poetica e religiosa dell’opera terminale che possediamo. Lo spunto a questo grande artista era stato offerto probabilmente da un racconto popolare avente per protagonista un esotico Giobbe, “figlio dell’Oriente”. Possiamo affermare con buona approssimazione che il prologo (cc. 1-2) e l’epilogo (42,7 ss) in prosa sono il nucleo preesistente di questa parabola assunta dal poeta come base e come primo strato per il suo poema, a cui sono seguiti almeno altri cinque strati.
Nonostante la complessa stratigrafia, Giobbe rivela ancora una sua planimetria strutturale che è da tenere davanti agli occhi mentre si percorre questo mondo poetico incantevole. La prima area è rappresentata dal citato prologo in prosa (cc. 1-2), articolato in sei scenette distribuite tra cielo e terra (1,1-5; 1,6-12; 1,13-22; 2,1-6; 2,7-10; 2,11-13) e aventi per tema la sofferenza vista, però, come prova della fede. La seconda area si espande nel dialogo poetico tra Giobbe e gli amici (cc. 3-27). I nove interventi di Giobbe e le tre serie di tre discorsi degli amici si sviluppano in un crescendo in tre cicli (cc. 3-11; 12-20; 2127), secondo un procedimento tipicamente semitico fatto di riprese, di espansioni, di digressioni, di altissima poesia e di retorica, di simboli e di proteste, di teologia e di umanità.
Il primo amico, Elifaz, ha qualche lineamento che lo accosta al “veggente” (4,12-5,7), cioè al profeta; Bildad rimanda al giurista, tutore del diritto dell’alleanza, mentre Zofar è il “sapiente” che si riferisce alla sapienza tradizionale empirica di Israele. Ma tutti si ritrovano attorno ad un nodo teologico fondamentale ribadito sino alla sclerosi ideologica: quello della retribuzione, cioè se tu soffri è perché hai peccato (delitto-castigo). La tragedia esistenziale e religiosa di Giobbe viene dagli amici compressa nello stampo freddo di una ricetta teologica, di un dogma codificato dalla tradizione contro cui si erge l’umanità di Giobbe, contro cui si scatena l’autenticità della domanda religiosa di Giobbe. L’ansia di “razionalità” degli amici alla fine non distrugge solo la tragica realtà del male ma anche il mistero stesso di Dio. Ed è questo che Giobbe non riesce ad accettare e a sottoscrivere. Il cuore dell’opera si rivela, dunque, come una vigorosa polemica contro la rigidità delle ideologie religiose.
Giungiamo, così, al vertice dell’opera: Dio, continuamente “provocato” da Giobbe e chiamato in causa come l’unico che ha una parola da dire sul gorgo tenebroso del male, accetta di fare la sua deposizione. E’ la terza area, quella dei cc. 29-31 e 38,1-42,6, intessuta su un dialogo tra Giobbe e Dio. Nei cc. 29-31 Giobbe, attraverso un’evocazione nostalgica del passato, un “giuramento d’innocenza” e una confessione negativa, cita in causa Dio perché si decida a depositare la sua risposta. E il Signore finalmente interviene ma, anziché replicare con un’autodifesa, interroga Giobbe sul mistero dell’essere attraverso due discorsi. Il primo (cc. 38-39) è strutturato su quattro serie di quattro strofe interrogative nelle quali sfila tutta la gamma delle meraviglie e dei segreti dell’essere. Giobbe è come un pellegrino stupito in questa scenografia stupenda di cui non riesce a conoscere la trama generale e le strutture nascoste, anche se esse ovviamente esistono e sono quindi da riconoscere all’unico Signore e Creatore.
Il secondo discorso (cc. 40-41), dopo un balbettante e brevissimo intervento di Giobbe, convoca due mostri cosmici, tipici dell’antico Vicino Oriente, Beemot e Leviatan (simboli delle energie negative del creato che sembrano attentare allo splendore dell’essere o, secondo altri, simboli delle due potenze planetarie di allora, Mesopotamia ed Egitto, e quindi di tutti i dinamismi della storia): Dio solo può controllare e dare senso a tutta questa massa incombente sull’uomo. Giobbe, quindi, scopre che Dio non è riducibile a uno schema “razionale” e che a lui sono affidati quelli che per la mente umana restano misteri: egli solo li sa inquadrare in un progetto (‘etzah) legato alla sua logica infinita e trascendente.
E’ per questo che la confessione finale di Giobbe non è tanto il riconoscimento di una spiegazione al mistero del male, quanto piuttosto una professione di fede autentica in Dio; non è tanto un asserto di filosofia per giustificare l’opera di Dio quanto piuttosto una proclamazione teologica: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti hanno visto» (42,5). L’epilogo (42,7 ss) è, in realtà, secondario e col suo “happy end” chiude solo il prologo (cc. 1-2) e ricompone la trama dell’antica parabola popolare su Giobbe.
La quarta area della struttura dell’opera può sinteticamente comprendere le maxi-addizioni dell’inno alla sapienza del c. 28, che tutto sommato è in buona posizione come anticipazione dello sbocco finale, e il fascicolo dei quattro discorsi di un quarto amico che entra in scena in finale, Elihu (cc. 32-33; 34; 35; 36-37), la cui originalità sta soprattutto nella proposizione della teoria “pedagogica” della sofferenza. Il dolore è visto come una paideía, cioè un’educazione che Dio compie nei confronti di empi e di giusti perché si liberino sempre più dalle loro scorie e dal loro limite e contemplino il progetto divino accogliendolo e amandolo.
La stesura di questa mappa, sia pure in forma molto semplificata e scheletrica, ci permette di intravedere già il vero nucleo ideologico dell’opera. Un’opera non tanto di etica o di spiegazione razionale del perché soffriamo o del male, quanto piuttosto di teologia pura. Come scriveva uno studioso, con Giobbe siamo alla ricerca del vero volto di Dio demolendo i luoghi comuni, le spiegazioni facili e quindi inutili, il Dio fatto ad immagine dell’uomo, quello che Lutero chiamava “simia Dei”, una scimmiottatura di Dio.

Biografia

Gianfranco Ravasi, nato nel 1942 a Merate (Lecco) e ordinato sacerdote nel 1966, è stato per molti anni Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Nel settembre 2007, dopo essere stato nominato da Benedetto XVI Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra, è stato consacrato Arcivescovo Titolare di Villamagna di Proconsolare. A lungo docente di esegesi dell’Antico Testamento nella Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale e di Ebraico nel Seminario arcivescovile milanese, è membro di numerose accademie e istituzioni culturali italiane e straniere, oltre che autore di diversi volumi. Collabora con i quotidiani L’Osservatore Romano, Il Sole 24 Ore, Avvenire, con il settimanale Famiglia Cristiana e con il mensile Jesus. Il 20 novembre 2010 è stato creato Cardinale da Benedetto XVI.
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