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Il significato della sofferenza nell'ebraismo – Teorie esplicative

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10/06/2009

Elena Lea Bartolini

Tratto dal testo della relazione presentata alla Terza Giornata Insubre di Bioetica Clinica, Varese, 3 giugno 2003, pubblicato in AA. VV., Il significato della sofferenza. Tre religioni monoteiste interpretano l’esperienza della malattia, a cura di M. Picozzi, L. Violoni e P. Cattorini, Franco Angeli Edizioni, Milano, 2004, pp. 32-38

Guida alla lettura

Proseguiamo la pubblicazione dell’articolo introduttivo di Elena Bartolini sul significato della sofferenza nell’Ebraismo. Nella prima parte, la professoressa ha chiarito come il concetto di Ebraismo non sia riconducibile alle categorie classiche di “popolo”, “cultura”, “religione”, e come la forma argomentativa dell’antinomia sia fondamentale per comprenderne tutte le categorie di pensiero: si prende quindi coscienza del dolore solo di fronte al suo contrario, la gioia. Inoltre, ha illustrato come nell’Ebraismo l’uomo sia visto come un “io” inscindibile di corpo e di spirito, e come ogni sofferenza fisica venga quindi sempre considerata in relazione alle sue implicazioni psicologiche e spirituali.
In questa seconda parte entriamo nel vivo delle interpretazioni del male nella storia, nella natura e nelle vicende personali dell’uomo, analizzando in particolare le teorie della sofferenza come retribuzione (il male punisce il malvagio), della sofferenza espiatrice (il male redime il malvagio) e della sofferenza come mistero (il male colpisce anche il giusto e non è spiegabile, ma l’uomo deve continuare a benedire Dio anche nelle situazioni di dolore).

La sofferenza secondo la teoria della retribuzione
Una spiegazione tradizionale ritrovabile in molti passi della Torà [1] è quella secondo la quale Dio ricompensa i buoni in rapporto ai loro meriti e punisce i malvagi in rapporto alle loro colpe, come testimoniato nel seguente passo dell’Esodo dove Dio si rivolge al popolo di Israele dicendo:

«Se ascolterai la voce del Signore tuo Dio e farai quanto è retto agli occhi Suoi, e obbedirai ai Suoi precetti, e osserverai tutti i Suoi statuti, nessuna delle malattie che ho posto in mezzo agli egiziani porrò sopra di te, perché io il Signore sono il tuo medico» (Es 15,26).
Dio dunque è il “medico” del suo popolo, il responsabile della salute e della malattia considerate come segno di fedeltà o infedeltà ai suoi insegnamenti. Nella ricompensa sono comprese la felicità, la salute e la longevità, mentre la punizione prevede dolore, malattia e morte (cf. Dt 30,15-20). Si legge a questo proposito nel Talmud:
«Tutti i giudizi del Santo [di Dio], che benedetto Sia, sono sulla base di misura per misura» (Talmud Babilonese, Sanhedrin 90a).
“Misura per misura”, cioè bene per bene e male per male sulla base di un giudizio divino. Tale spiegazione non dà però ragione della “sofferenza innocente”, e per questo viene rimessa in discussione dalla letteratura biblica sapienziale di cui fra poco faremo cenno.


La sofferenza espiatrice
Un’altra spiegazione è quella che individua nel “castigo divino” che fa soffrire l’uomo una dimensione espiatrice volta a correggere e purificare, poiché, come ricordano sia il Libro dei Salmi che quello dei Proverbi:

«Beato l’uomo che Tu ammonisci, o Signore, e lo ammaestri per mezzo della Tua Torà» (Sal 94,12);
e, ancora:
«Il Signore corregge chi ama» (Pr 3,12).
A conferma di questo il Talmud ribadisce che ci sono dei castighi, come certe malattie, che lavano tutte le iniquità dell’uomo e devono quindi essere accolti come sofferenza per amore che espia le colpe commesse:
«Si insegna: “Egli rende se stesso come un sacrificio per una colpa commessa” (Is 53,10); come il sacrificio per la colpa viene offerto volontariamente, così anche le sofferenze [possono essere considerate come espressione d’amore da parte di Dio] se volontariamente [accettate]. E se le accetta [con amore], quale sarà la sua ricompensa? “Egli vedrà discendenza e vivrà a lungo” (Is 53,10)» (Talmud Babilonese, Berakhot 5a ).
Secondo questa prospettiva la sofferenza assume un valore redentivo: non a caso infatti il Talmud cita un passo profetico, tratto da uno dei canti del Servo di Dio, dove si attesta il valore espiatorio delle sofferenze del giusto.


La sofferenza come mistero
Ma perché il giusto dovrebbe soffrire? Perché dovrebbe “espiare” delle colpe non commesse? È proprio questo tipo di sofferenza ad essere oggetto di particolare riflessione nei testi sapienziali della Bibbia. Un esempio particolarmente significativo lo ritroviamo nel Libro di Giobbe, dove si sottolinea l’impossibilità da parte dell’uomo di scrutare e comprendere il mistero divino (cf. Gb 38-41), e dove Giobbe stesso afferma:

«Il Signore ha dato, il Signore ha tolto,
sia benedetto il Nome del Signore!»
(Gb 1,21)
Inoltre, se viene da Dio, la sofferenza è una prova che l’uomo può reggere, così come ha retto Abramo quando gli è stato chiesto di rinunciare al figlio della “promessa” (cf. Gen 22,1ss.) [2]. Per questo la tradizione rabbinica insegna che:
«L’uomo è tenuto a pronunziare una benedizione per il male, come la pronunzia per il bene, come è detto: “Ed amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua forza” (Dt 6,5). “Con tutto il tuo cuore”, cioè con le tue inclinazioni, la buona e la cattiva; “con tutta la tua anima”, cioè Egli prende anche la tua anima; “con tutta la tua forza”, cioè con tutti i tuoi beni. Altra spiegazione di “con tutta la tua forza” è: con qualunque misura Egli ti misuri, rendigli grazie”» (Mishnà, Berakhot IX,5) [3].
La sofferenza viene così ricollocata nell’orizzonte di un mistero imperscrutabile, che ha comunque a che fare con il rapporto fra Dio e gli uomini secondo una dinamica che deve esprimersi nel segno della “benedizione”.

Note

1) Il termine Torà designa l’insegnamento divino rivelato al Sinai. In senso stretto indica il Pentateuco (o libri di Mosè), in senso ampio può indicare tutto il canone ebraico della Scrittura e la tradizione orale normativa (Mishnà).
2) Un “sacrificio” non compiuto, volto a provare la fede del patriarca e a mostrare che il Dio di Israele è il Dio della vita che non vuole sacrifici umani.
3) La frase finale in ebraico è un gioco di parole: “forza” è me’od, “misura” è middà, “ringraziare” è modè.

Biografia

Di origini ebraiche da parte materna, Elena Lea Bartolini è nata a Pavia nel 1958. Dottore in Teologia Ecumenica con specializzazione in ermeneutica rabbinica, è membro dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG), del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI) e dell’Associazione Mariologica Interdisciplinare Italiana (AMI).
E' docente di Giudaismo presso il Centro Studi Vicino Oriente di Milano e presso l’ISSR-MI collegato alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale; collabora con diversi Atenei pontifici – tra i quali l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia, l’Università Pontificia Salesiana (UPS), il San Bonaventura, il Marianum e l’Auxilium di Roma – e con diversi Istituti Teologici.
E' docente e consulente all’interno di diverse iniziative locali e nazionali per il dialogo fra le chiese e gli ebrei: in particolare, ha curato il progetto Judaica (1998-2003) promosso dalla Casa Editrice Ancora di Milano. Autrice di numerosi libri, attualmente dirige la collana “Studi Giudaici” per la Casa Editrice Effatà e cura la rubrica “Judaica” per la nuova edizione della rivista “Terrasanta” nell’ambito dei periodici della Custodia francescana. È consulente di redazione per le riviste “Terrasanta” e “Jesus”.
Ha curato la revisione ecumenica e la stesura delle voci ebraiche per l’“Enciclopedia del Cristianesimo”, edita da De Agostini (Novara 1997); ha curato alcuni “Quaderni” sull’Ebraismo per le Edizioni Studio Domenicano (Bologna 1997-1999), per le quali ha coordinato anche i “Quaderni” sulle Chiese della Riforma (Bologna 2004-2007).
Ha diretto la sezione “Ebraismo” per la nuova edizione dell’“Enciclopedia Filosofica”, edita da Bompiani (Milano 2006), a cura della Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, sotto la direzione del Prof. Virgilio Melchiorre dell’Università Cattolica di Milano.
Collabora con gli Uffici Nazionali della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e con alcune riviste, tra le quali, SeFeR (Studi-Fatti-Ricerche), Qol, Horeb, Studi Ecumenici, Parola Spirito e Vita (PSV), Rivista di Pastorale Liturgica (RPL), La scuola domenicale.
E' membro del gruppo interconfessionale “Teshuvah” del Centro Ecumenico Diocesano di Milano, per il dialogo fra le chiese e gli ebrei, e collabora con il Segretariato Attività Ecumeniche (SAE). E' socio fondatore e membro del Consiglio direttivo del  Centro Studi Nazareth Alta Formazione (CeSNAF), per la promozione integrale della persona, della coppia e della famiglia.

Per un elenco delle principali pubblicazioni, si veda Il significato della sofferenza nell'ebraismo – Introduzione

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