C’è una realtà che intride l’intera esistenza umana: la sofferenza. In questa sede ci accosteremo in particolare alla forma più immediata in cui si manifesta il dolore, cioè la malattia, la cui densità antropologica e la cui versatilità teologica non sono in discussione. Il nostro sguardo spazierà sul complesso panorama dell’Antico Testamento, per poi muovere brevemente al Nuovo, con una specifica attenzione alla testimonianza paolina. L’Antico Testamento ci offre un’interpretazione simbolica della malattia nello spirito del moderno, “globale” approccio al malato. Nello stesso ordine di idee, nel 1978 la scrittrice americana Susan Sontag pubblicava a New York una sorta di diario-riflessione sulla sua esperienza di malata di cancro (dal quale per altro uscirà guarita). Il titolo di quel libro, tradotto in Italia nel 1979, era significativo: “Illness as Metaphor”. Infatti, la malattia è la metafora di un’esperienza umana ben più radicale; è espressione non solo di una questione biologica, ma anche psicologica; intreccia scienza e speranza, paure irrazionali e debolezze strutturali, si apre persino alla fede e alla preghiera, tant’è vero che negli Stati Uniti è vivace il dibattito sul valore della “terapia orante”.
La visione simbolica della persona umana tipica della Bibbia conduce subito a una correlazione tra fisicità e spiritualità, tra biologia e teologia, per cui la malattia non interpella solo la medicina, ma anche la religione. Un primo esempio clamoroso di questo intreccio è registrabile nella cosiddetta teoria della retribuzione, che dal suo terreno primario, quello etico, sconfina quasi obbligatoriamente in quello medico. Secondo questa teoria la malattia sarebbe il segno di una punizione divina per un peccato. In pratica lo schema delitto-castigo della retribuzione può essere formulato anche come peccato-malattia, ove i due piani, fisico e metafisico, medico e religioso, s’incrociano senza imbarazzo, sulla base dell’asserto proclamato dal libro della Sapienza (11,16) e divenuto proverbiale: «Ognuno è punito per mezzo di quelle cose con le quali pecca». Esemplare in questa linea retributiva è la logica degli amici di Giobbe, che ripetutamente attribuiscono le sue sofferenze anche fisiche a precedenti colpe, delle quali proprio la malattia sarebbe la spia e la pena. Emblematica è anche la battuta del Salmo 103,3 che, pur avendo valore metaforico, conferma la tesi generale retributiva: «Il Signore ha perdonato tutte le tue colpe, ti ha guarito da ogni malattia». Altrettanto interessante è il Salmo 38, ove la colpa è sancita da una sofferenza fisica (forse la peste), la terapia è la conversione e la guarigione sboccia dal perdono.
Ma nella linea della connessione tra malattia e peccato c’è un altro diverso percorso da verificare, quello della cosiddetta sofferenza vicaria che è solitamente tipizzata nella figura del Servo di Jhwh (Isaia 53), personaggio interpretato dal cristianesimo come Messia e quindi applicato al Cristo sofferente. In realtà, il Servo si presenta come una variante della precedente interpretazione retributiva, solo che il rapporto non incide sulla stessa persona. Nel caso del Servo, infatti, il peccato è del popolo, la sofferenza è sua: «Egli fu trafitto a causa dei nostri peccati, fu schiacciato a causa delle nostre colpe. Il castigo che ci rende la pace fu su di lui e per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Isaia 53,5). In questa luce alcune sofferenze fisiche acquistano l’aspetto di una missione e di un’intercessione, rivelano una fecondità redentiva, non hanno più soltanto il sigillo della negatività.
Che l’orizzonte della malattia riveli segnali di trascendenza emerge, per l’antico Israele biblico, anche da alcune sindromi particolari, come la lebbra, le disfunzioni sessuali, le ferite (sangue), la morte. Si ha, dunque, un particolare nesso tra sacralità e malattia. Basterà solo un cenno alla lebbra per rendersene conto. Come accade a Maria, sorella di Mosè, essa è un marchio ignominioso che denota e punisce un delitto grave e che espelle dalla comunità (cfr. Numeri 12,14). Come si dichiara nella legge di purità del Levitico, la lebbra è infettiva a livello di patologia e a livello di società religiosa, comportando una specie di scomunica (cc. 13-14). La guarigione, perciò, oltre a segnalare un intervento trascendente, dovrà essere siglata a livello sacrale attraverso l’attestazione sacerdotale (si vedano Mt 8,4 e Lc 17,14). Questa dimensione trascendente può sconfinare anche nel demoniaco: non per nulla la peste in ebraico è detta “dèber”, termine che è anche il nome di uno spirito maligno (Salmi 78,50 e 91,3.6). Il caso più clamoroso di intreccio tra demoniaco e malattia è quello di Sara, moglie del giovane Tobia, descritto anche con connotazioni magiche (Tobia 7-9). La stessa cosa si ripresenterà ampiamente nel Nuovo Testamento, ove non di rado la possessione diabolica cela in realtà patologie come la follia (Marco 5,1-20) o l’epilessia (Marco 9,14-27).
Sulla scia delle considerazioni finora svolte è facile approdare a una conclusione quasi obbligata. Se la malattia è vincolata a una radice trascendente, è scontato che anche la medicina dovrà essere sacra e il guaritore per eccellenza dovrà essere Dio, definito spesso come “colui che guarisce” (ad esempio, cfr. Esodo 15,26). La manifestazione della sua azione sanante avviene attraverso mediatori sacrali da lui investiti: il profeta (Eliseo per Naaman il Siro secondo 2Re 5, Isaia per Ezechia) e il sacerdote, come si è già accennato per il caso della lebbra. Si deve, però, riconoscere che in un curioso paragrafo del Siracide (38,1-15) – a cui rimandiamo per una lettura integrale e su cui ritorneremo – entrano in scena anche la figura e la mediazione del medico, sia pure con qualche esitazione e riserva per le ragioni ormai note. Lo si accoglie in ultima istanza perché «è stato creato da Dio e da Dio ottiene sapienza» (cfr. 38,1-2). È però evidente che il Siracide respira già un clima differente, ove scorre anche il vento dell’ellenismo e quindi si cerca di ridimensionare l’aspetto solo sacrale della malattia.
Se, invece, Dio rimane il medico per antonomasia, è naturale che la Bibbia offra un’ampia selezione di preghiere a lui indirizzate per ottenere la salute. Nel 1952 un monaco di Maredsous, che era anche biblista, Hilaire Duesberg, ha raccolto i testi salmici di questo tipo, intitolando il suo libro con un esplicito “Le Psautier des malades” (Il Salterio dei malati). Lapidaria è la confessione del Salmo 30,3: «Signore mio Dio, ho gridato a te e mi hai guarito». Il tempio diventa, così, anche ospedale, con sacrifici e atti rituali vari per impetrare e ottenere la guarigione (curiosi i transfert, come il serpente di bronzo eretto nel deserto per sanare l’avvelenamento da serpenti, secondo il racconto di Numeri 21,4-9). Per la ragione che la malattia è collegata alla colpa, è ovvio che il Dio guaritore offre innanzitutto l’assoluzione e il perdono: «Guarisci l’anima mia, poiché ho peccato contro di te» (Salmo 41,5). Nel Siracide si ha un passo in cui il vocabolo greco “íasis” (guarigione) significa “remissione” di una colpa: «Chi conserva l’ira contro un altro uomo, può chiedere al Signore la íasis?» (28,3).
A questo punto è legittima una domanda: il medico e la medicina che funzione espletano in una concezione così teocratico-sacrale? Il medico per eccellenza dovrebbe essere solo il Signore, l’unico che può spezzare il cerchio negativo della retribuzione. Effettivamente non mancano nella Bibbia giudizi aspri nei confronti dei medici, e non per un adeguamento a uno stereotipo molto diffuso di sfiducia e di sarcasmo nei confronti della medicina e dei suoi cultori (come per esempio in Marco 5,25-26). Del re Asa, ad esempio, si lamenta il fatto che, colpito da una grave affezione ai piedi: «Non ricercò il Signore, ma solamente i medici» (2Cronache 16,12)! Ad alimentare questo scetticismo squisitamente teologico aveva contribuito anche il fatto che in Israele vigeva la norma di purità che vietava il contatto con il sangue e con i cadaveri (Numeri 19,10-22): era inevitabile che la medicina ne risultasse penalizzata, a differenza di quanto accadeva in Egitto, ove la dissezione dei cadaveri in vista dell’imbalsamazione e mummificazione aveva arricchito di molto le conoscenze fisiologiche e mediche.
Tuttavia il passo citato riguardante il re Asa e altri testi (Isaia 3,7 o Geremia 8,22, ad esempio) confermano l’esistenza di una classe medica anche in Israele, attestata pure dall’archeologia: negli scavi dell’Ofel, la collina ove sorgeva l’acropoli davidica di Gerusalemme, è venuta alla luce una bolla dell’epoca monarchica che recava la scritta: «Appartenente a Toshbalem, figlio di Zakkur, il medico». Non mancava poi nell’antico Israele il ricorso a terapie, venate di elementi magico-sacrali per le ragioni sopra addotte, ma anche per fenomeni culturali comuni ad altre civiltà. Pensiamo, tanto per esemplificare, all’impiastro di fichi fatto approntare da Isaia per il re Ezechia (Isaia 38,21), al fiele, al cuore e al fegato di un pesce, usato per funzioni magiche, ma anche come terapia oftalmica dal giovane Tobia su suggerimento dell’angelo Raffaele, il cui nome significa “Dio che guarisce” (Tobia 6,4; 8,3; 11,11-12). Pensiamo anche ai farmaci menzionati da Geremia (8,22; 46,11; 51,8), alle “proprietà medicinali delle radici” affermate dal libro della Sapienza (7,20), ai consigli igienico-sanitari del Siracide (30,14-18; 31,19-22; 37,27-31: passi anche piacevoli da leggersi) e persino alla musicoterapia applicata alla pazzia del re Saul (1Samuele 16,14-22). La grande svolta nei confronti del medico e della medicina si registra con il citato atteggiamento del Siracide nel suo ritratto del medico (38,1-15), forse influenzato anche dalla cultura greca che aveva esaltato la missione medica a partire da Ippocrate di Kos (V secolo a.C.). La sua prospettiva – a cui abbiamo già accennato – non è quella di un «fideismo rinunciatario né di uno scientismo esasperato […], è quella di un credente: medico e paziente sono nelle mani di Dio; la preghiera accompagna l’attività dell’uno e la sofferenza dell’altro […]. Il fondamento teologico che Ben Sira pone alla medicina non contrasta con l’autonomia della medicina stessa, né con le capacità e l’intelligenza del medico: peccare contro il proprio Creatore e disprezzare il medico è per Ben Sira la stessa cosa» (Luca Mazzinghi).
Per quanto divinamente assistita, la medicina non è comunque l’ariete che può violare sistematicamente la roccaforte della sofferenza e del dolore. Non bisogna mai dimenticare che esiste un’ampia porzione di dolore che prescinde da qualsiasi riferimento alla responsabilità umana. Detto in altri termini, il nesso peccato-malattia, se può valere in qualche caso (pensiamo all’etilismo o alla droga liberamente assunta o a un sesso disordinato che genera stati fisiologici segnati da immunodeficienze gravi) non può certo spiegare l’intero orizzonte tenebroso e misterioso del dolore e del male. Quali brecce di speranza è però possibile intravedervi?