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«Alzati e va', la tua fede ti ha salvato». Meditazione sul vangelo di Luca

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08/10/2014

Tratto da:
Xavier Thévenot, Le ali e la brezza, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2002, p. 74-76

Si ringrazia l’Editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Il brano del Vangelo di Luca dedicato alla guarigione dei dieci lebbrosi, e il commento di Xavier Thévenot, insegnano alcune cose importanti riguardo al rapporto fra uomo e malattia, e all’atteggiamento che verso la malattia rischiano di avere le religioni quando sono vissute alla luce di un legalismo che, invece di liberare, offende e schiaccia l’uomo sofferente.
L’episodio è noto: dieci uomini colpiti dalla lebbra (oggi nota anche come “morbo di Hansen”) si presentano a Gesù per essere guariti. Questi li invia subito ai sacerdoti, perché siano svolti i riti di purificazione previsti dalla legge ebraica per chi guarisca dal terribile male: lungo la strada, e solo a quel punto, i dieci sventurati vengono effettivamente sanati. Uno solo, però, torna a ringraziare Gesù, prostrandosi ai suoi piedi. Ma Cristo lo esorta ad alzarsi e ad andare, pienamente salvato dalla sua fede.
Ecco alcune considerazioni che si possono trarre dal racconto dell’evangelista e dalle parole di Thévenot:
- la malattia spesso condanna «a nascondersi e a tacere» e, in un ambiente religioso formalistico e ispirato a un malinteso concetto di “purità”, impone distanza e isolamento: al punto che Dio stesso, che dovrebbe essere pensato come creatore e padre, fa paura al malato, perché viene percepito «come il Puro per eccellenza»;
- l’atteggiamento di apertura che Gesù ha sempre verso i malati spinge invece questi dieci lebbrosi a non nascondersi più, ad andargli incontro e a rompere il silenzio, implorando con audacia la guarigione: questo è il vero atteggiamento di fiducia e di libertà che il credente, nella sofferenza, dovrebbe avere verso Dio;
- il miracolo della guarigione non è automatico, ma richiede la collaborazione dell’ammalato: i dieci lebbrosi vengono sanati solo nel momento in cui, essendosi fidati delle parole di Cristo, si recano dai sacerdoti per il rito di purificazione;
- eppure uno solo di loro torna indietro a ringraziare il Signore, ed è un samaritano, ossia uno di quegli uomini che gli Israeliti osservanti guardavano con sospetto e disprezzo perché proveniente da una regione, la Samaria, in cui la purezza della fede tradizionale si era compromessa con le credenze pagane: questo dettaglio insegna che la vera fede non è questione di appartenenze etniche e religiose, ma abita in ogni cuore sinceramente aperto all’amore di Dio;
- il gesto di gratitudine del samaritano è però inadeguato perché, sottolinea Thévenot, «non può non ricordare quello degli ebrei davanti al vitello d’oro», o anche l’atto di sottomissione che il diavolo cerca di strappare a Cristo nel deserto, all’inizio del Vangelo. Gesù quindi lo rialza con delicatezza e lo esorta ad “andare”: la guarigione altro non è che un evento che ci riporta sul cammino della vita, insieme con gli altri e, per chi crede, insieme con Dio;
- il miracolo che restituisce la salute è dunque solo una tappa del cammino di salvezza, ossia di umanizzazione della vita del credente, perché «la potenza di Cristo si dispiega nell’intero essere dell’uomo».
Sin qui, l’importante messaggio ricavabile dall’episodio. Ma il senso dei Vangeli emerge spesso anche dal contesto in cui certi eventi vengono collocati, cosicché ciò che precede o ciò che segue può illuminare ulteriormente la portata di un fatto. In questo caso, alla guarigione dei lebbrosi segue un breve dialogo fra Cristo e i farisei: «Quando verrà il regno di Dio?», chiedono costoro. E Gesù risponde: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!». Con queste parole, Cristo offre l’interpretazione più vera dell’episodio dei lebbrosi e avverte che il regno di Dio si realizza in concreto ogni volta in cui qualcuno si prende cura degli altri. In questo senso, un regno di pace attende anche i non credenti quando si fanno prossimi alle sofferenze altrui.
Questo racconto (Luca 17,12-19) ha come protagonisti dieci uomini, uno dei quali samaritano, colpiti da una malattia della pelle. Un’affezione di questo genere tocca in modo molto forte l’individuo, perché lo colpisce in quell’elemento che fa da confine tra la sua interiorità e il mondo esterno. Essa è spesso sintomo di conflitti psichici abbastanza arcaici, e alimenta quasi sempre sensi di impurità e di vergogna. Quindi diventa facilmente fonte di esclusione sociale. Essere colpiti dalla lebbra significa essere condannati, in un certo senso, a nascondersi e a tacere. Perciò non stupisce il fatto che il libro del Levitico annoveri malattie di questo genere tra quelle che, per motivi di impurità, impongono una distanza dagli altri, e necessitano di un rituale specifico quando finiscono (cf. Levitico 13-14). Guarire dalla lebbra non significa semplicemente ritrovare una pelle presentabile, ma nel contempo poter riconquistare una migliore immagine di sé e ritrovare il proprio posto di soggetto di parola nel gruppo al quale si appartiene. Se si è credenti, significa anche ritrovare il coraggio di avvicinarsi nuovamente a Dio, a quel Dio che prima faceva paura perché appariva come il Puro per eccellenza; infine significa tenersi pronti ad accogliere la salvezza nella gratuità.
Il racconto di Luca conferma appunto queste diverse dinamiche che fanno passare dalla malattia alla salute, tramite la fede. Anzitutto i lebbrosi non si nascondono più: vanno incontro a Cristo. Poi, pur tenendosi a distanza come esige la legge, rompono il silenzio: è con grandi grida che implorano pietà dal Signore. Infine, benché siano continuamente oggetto di diffidenza, essi osano dar fiducia alla parola di Cristo: «Andate a mostrarvi ai sacerdoti». Si mettono quindi per strada, accettando di riferirsi alla Torà (cf. Levitico 14,2-3) e di tener conto della dimensione comunitaria della loro condizione corporale. Ed ecco che, per strada, vengono purificati. Uno di essi, il samaritano, vedendosi guarito ritorna sui suoi passi: non può né tacere, né nascondersi; cammina glorificando Dio ad alta voce. Egli riconosce il dono che il Signore gli ha fatto, lasciandosi così inondare dalla gratuità del Regno. Eppure lo fa con un gesto in parte inadeguato: si prostra ai piedi di Gesù; un gesto che interrompe il cammino e non può non ricordare quello degli ebrei davanti al vitello d’oro (cf. Esodo 32, 1-8) o anche il gesto che il diavolo esige in Luca 4,7. Per questo Cristo gli dice: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato».
Così, in questa pericope, tutto è dinamica, tutto è risurrezione, come se l’evangelista volesse ricordare che recuperare la salute, essere di nuovo inseriti nella comunità umana e, in ultima analisi, ricevere la salvezza, sono esperienze che esigono che l’essere umano riconosca il suo statuto di “homo viator” di fronte e insieme a Dio. Infatti solo un simile riconoscimento nella fede può fare della guarigione una tappa della salvezza, perché esso solo permette di lasciare che la potenza di Cristo si dispieghi nell’intero essere dell’uomo, comprese in particolare le sue parti più vulnerabili (cf. 2 Corinti 12,9).

Il brano del Vangelo di Luca

Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce, dicendo: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Biografia

Xavier Thévenot (1938-2004), sacerdote francese, è stato salesiano di Don Bosco e professore di teologia morale all’Istituto Cattolico di Parigi. Affetto per oltre 20 anni dal morbo di Parkinson, ha scritto pagine dense e sofferte sulla propria esperienza di malattia.
Thévenot amava definire la morale come «ciò a cui gli uomini si obbligano quando vogliono conferire un senso alla propria vita» e come «un insieme di regole e di valori che ci consentono di trovare a poco a poco, e liberamente, cammini di umanizzazione e di felicità».
Teologo di fama internazionale, capace di parlare della morale senza cadere nel moralismo, Thévenot ha contribuito a dimostrare come sia possibile riflettere sulla realtà e assumere decisioni responsabili anche quando il bene e il male sembrano essere inestricabilmente legati.

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