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Portare il peso del dolore – 2: Altri volti del dolore

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22/05/2013

Tratto da:
Gianfranco Ravasi, Portare il peso del dolore, Edizioni San Paolo, 2013, p. 19-28

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Prosegue questa settimana la pubblicazione del testo integrale del volumetto “Portare il peso del dolore”, di Gianfranco Ravasi. Nella prima parte, Ravasi ha illustrato le teorie della retribuzione e della sofferenza vicaria, che in diversi contesti dell’Antico Testamento cercano di spiegare l’origine e il significato del dolore. In questa seconda sezione, si approfondiscono la dottrina del dolore come forma di pedagogia divina, atta alla maturazione interiore dell’uomo; il concetto di tentazione-prova, che mira a distogliere l’uomo dalle cattive azioni e preservarlo dall’orgoglio; e l’idea del dolore come forza di espiazione del male del mondo, esemplificata al massimo livello dottrinale e letterario dal capitolo 53 del libro di Isaia, dedicato al “servo sofferente”.
Un primo superamento di queste concezioni si ha con il libro di Giobbe: un’opera “non apocalittica”, nel senso che non risolve il problema del male nell’attesa escatologica di un nuovo mondo in cui tutto si sistemi in una gioia senza fine, ma che – rimanendo ancorato nell’oggi della storia – arriva a postulare come Dio e dolore non siano incompatibili, pur nella permanenza di un mistero che trascende le nostre forze speculative.
Lo spartiacque definitivo rispetto alle letture veterotestamentarie è costituito dal Vangelo, che ci propone l’immagine di un Dio concretamente coinvolto nel nostro dolore e nella nostra morte: un Dio che non addita scorciatoie rispetto alla sofferenza, ma che l’attraversa al nostro fianco, facendola propria nelle sue dimensioni fisiche, morali e spirituali. E che in modo misterioso la riscatta attraverso la sua resurrezione, suscitando nel credente la speranza che, grazie all’amore, il male e la morte non abbiano nella vita l’ultima parola.
Due affermazioni precisano infine con grande intelligenza spirituale il senso generale dell’approccio biblico al senso del dolore. L’antropologia contenuta nella Scrittura è «una ricerca di senso e di salvezza globale, che fonda la più radicale pienezza e integrità dell’esistere: al centro non c’è solo l’anima o la spiritualità ma tutta la realtà dell’essere e dell’esistere umano, compresa la corporeità e la debolezza creaturale». Al tempo stesso, la vita e la prassi di Cristo ci ricordano che l’uomo «ha bisogno di risposte di senso al suo soffrire, e non soltanto di salute, come invece è proposto dall’attuale ricerca frenetica del benessere nel salutismo e nel fitness, o anche del puro e semplice miracolismo».
Da un lato, dunque, l’attenzione alla corporeità, troppo spesso trascurata da una spiritualità unilateralmente protesa all’invisibile; dall’altro, il superamento di quella stessa corporeità nella ricerca di un significato complessivo della persona e della vita.
Il libro del Deuteronomio suggerisce di intendere talora il dolore come pedagogia divina. Esso è espressione della paideia di un Dio padre e maestro che, nel deserto della prova, educa, purifica, fa maturare e arricchisce suo figlio. Attraverso l’alternanza delle umiliazioni e delle consolazioni, dell’avvilimento e della speranza, l’uomo cresce in pienezza, come in un nuovo parto, doloroso ma fecondo. Dobbiamo citare a tale proposito un ampio passo del Deuteronomio: «Ricorda il cammino che ti ha fatto compiere il Signore tuo Dio in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti, per provarti, per conoscere ciò ch’è nel tuo cuore […]. Ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, ti ha fatto mangiare la manna […] per insegnarti che non di solo pane vive l’uomo, ma di tutto ciò che esce dalla bocca di Dio vive l’uomo. Il tuo mantello non si è logorato e non si sono gonfiati i tuoi piedi in questi quarant’anni. Riconosci dunque nel tuo cuore che, come un padre corregge il figlio, così il Signore tuo Dio ti corregge; e osserva il comandamento del Signore tuo Dio seguendo la sua via e temendolo» (Deuteronomio 8,2-6).
La stessa funzione ha la tentazione-prova, quando parte da Dio: si pensi all’esperienza di Abramo per il sacrificio di Isacco (Genesi 22), prova lacerante ma destinata a rendere la fede del patriarca pura e radiosa. Come vedremo, nel libro di Giobbe questa visione è adottata dall’ultimo degli amici a intervenire, Elihu, nei capitoli 32-37. Egli è convinto che il monito del dolore è utile «per distogliere l’uomo dalle sue cattive azioni e preservare il mortale dall’orgoglio, per impedirgli di cadere nella fossa e di passare il canale [infernale]» (Giobbe 33,17-18). Anche Geremia, addestrato dal dolore, si erge come profeta di Dio, capace di comprendere in pienezza il senso della storia che sta vivendo.
Una seconda breccia nella fortezza apparentemente inespugnabile del dolore è aperta da una celebre pagina, riletta dal cristianesimo in chiave messianica, alla luce della passione e morte di Gesù. Si tratta del cosiddetto quarto carme del Servo del Signore, ripreso nel capitolo 53 di Isaia, a cui abbiamo già accennato e sul quale ora ritorniamo. Come si è visto, in esso leggiamo: «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Isaia 53,5). Il dolore del giusto ha in sé una forza espiatrice per il male del mondo; la sofferenza diventa simile a una generazione che è immersa nelle doglie; esse, però, non sono vane e fini a se stesse, perché danno alla luce una nuova creatura. La storia travagliata e infame è redenta dal sangue dei martiri che fecondano il deserto dei secoli, liberano l’umanità dal suo limite, la conducono a una pienezza inattesa.
Fin qui, per usare l’espressione dell’esegeta tedesco Otto Eissfeldt, siamo di fronte a «spiegazioni teologiche della sofferenza», ma non a una vera e propria «teologia della sofferenza». Essa ci viene offerta solo da Giobbe, colui che maggiormente s’incunea in quella roccaforte misteriosa. Ora ci accontentiamo di delineare una sintesi essenziale del suo pensiero al riguardo. In seguito a lui dedicheremo un’apposita analisi attraverso una guida di lettura integrale del suo libro che si rivela particolarmente complesso e fin arduo, pur nella sua straordinaria fragranza e bellezza umana e religiosa.
Il libro di Giobbe non vuole offrire soluzioni antropologiche all’enigma che artiglia la carne dolente e ferisce la coscienza credente o agnostica. La sua è una via aperta nel mistero. Il dolore innocente e l’immenso mondo delle lacrime sono la strada più ardua e più seria per comprendere la vera realtà della fede e di Dio. Le spiegazioni razionali continuano a essere travalicate perché il dolore è riflesso di un mistero più alto, che trascende la ragione ed è penetrabile solo attraverso la Rivelazione. Un mistero che, allora, non si scioglie razionalmente, ma che non è affidato all’assurdo, al fato, all’irrazionale, bensì a una suprema razionalità, quella divina, che disegna un suo progetto.
Giobbe non è un apocalittico, convinto che il presente sia tormentato, sconcertante e confuso e che il futuro escatologico risistemerà tutto, demolirà ogni cosa, lasciando spazio a un nuovo e perfetto ordine di rapporti, a una gioia senza fine. Anche questa è, certo, una teologia della sofferenza. Giobbe, invece, rimane nella storia e ne cerca non l’eliminazione attraverso la purificazione, ma l’interpretazione teologica. Infatti essa alla fine viene affidata alla “visione” diretta del Signore, cioè a una sua rivelazione sul senso del male: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5).
Dolore e Dio non sono contraddittori e la loro coerenza è un contenuto fondamentale della fede. Su questa via si inserisce la supplica dei salmisti che, come nel caso di Giobbe, fiorisce in mezzo alla desolazione segnata da quei «perché?», «fino a quando?» (Salmi 6,4; 13,2-3; 35,17; 42,10; 43,2; 90,13), che lacerano l’anima. Alla fine, però, il dolore viene affidato a Dio. I salmi di supplica e di lamentazione si concludono sempre con un incontro, come è accaduto a Giobbe. E’ un dialogo personale con Dio; è a lui che viene rivolto l’interrogativo ed è lui a rispondere, donando talvolta la gioia e la liberazione, trasformando altre volte «il rifiuto in invocazione» (Gabriel Marcel), aprendo uno spiraglio sulla sua ‘etzah, cioè su quel «progetto» – come si afferma in Giobbe 38,2 – che riesce a contenere in sé, in un’armonia trascendente, dolore e gioia, nulla ed essere, limite e pienezza. Oltre questa frontiera procederà solo il Nuovo Testamento, che ci presenta un Dio direttamente coinvolto con la sofferenza e la morte.
Cerchiamo allora di dare uno sguardo alla concezione della malattia, della sofferenza e della guarigione nel Nuovo Testamento. Quest’analisi ci induce a ribadire un dato fondamentale: l’antropologia biblica è una ricerca di senso (e di salvezza) globale, che fonda la più radicale pienezza e integrità dell’esistere. Al centro non c’è solo l’anima o la spiritualità ma tutta la realtà dell’essere e dell’esistere umano, compresa la corporeità e la debolezza creaturale. È curioso osservare che nel vangelo di Marco il 31 per cento del testo (209 versetti su 666) è occupato da racconti di miracoli e, se ci si attesta solo sul ministero pubblico di Gesù (i primi 10 capitoli del vangelo), la percentuale sale al 47 per cento (209 versetti su 425). Le mani di Cristo si sono sistematicamente posate su carni malate e sofferenti. Interessanti, sono, però, anche alcune caratteristiche dell’atteggiamento di Gesù.
Non si ha nei vangeli una catechesi esplicita sulla malattia, sul come viverla o spiegarla. Le guarigioni operate sono ricondotte dagli evangelisti spesso alla categoria di «segni», così da orientarle verso una prospettiva più alta, quella della redenzione integrale dell’umanità nel regno di Dio. Cristo si è distaccato dalla teoria della retribuzione, già contestata da Giobbe ma – come si è visto – cara a molte pagine anticotestamentarie, secondo cui peccato e malattia si richiamano come causa ed effetto. Basti solo citare la sua reazione alla domanda dei discepoli di fronte al caso del cieco nato: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco? Rispose Gesù: Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (Giovanni 9,2-3). Egli, però, ha ricordato che l’uomo, compreso il malato, ha bisogno di risposte di senso al suo soffrire e non soltanto di salute, come invece è proposto dall’attuale ricerca frenetica del benessere nel salutismo e nella fitness, o anche del puro e semplice miracolismo.
Inoltre il passaggio stesso del Figlio di Dio nella sofferenza fisica e psichica attraverso la sua passione e morte depone in essa un seme pasquale di trasfigurazione e di liberazione trascendente. Egli, infatti, per essere veramente uomo, entra nella realtà oscura integrale della sofferenza sia morale (la solitudine degli amici e il loro tradimento, così come il rifiuto del suo popolo), sia fisica (le torture, la crocifissione), sia spirituale (il silenzio del Padre sulla croce), sia nell’approdo estremo della morte fino a divenire un cadavere. È, questo, il livello supremo ed estremo dell’Incarnazione. Ma anche in questo abisso egli non cessa di essere il Figlio di Dio e quindi feconda il nostro dolore e il nostro morire con la forza liberatrice e salvifica della sua divinità. Dopo di lui, tutta la sofferenza umana del passato, del presente e del futuro è irradiata di eternità, è illuminata dalla luce della Pasqua che supera i limiti della morte e si estende a tutta l’umanità. In questa prospettiva le guarigioni non sarebbero soltanto un segno teofanico della potenza taumaturgica di Cristo, quanto piuttosto un emblema efficace del suo amore salvifico e redentore e della sua solidarietà con l’umanità, manifestata in pienezza nella sua passione e morte.

Biografia

Gianfranco Ravasi, nato nel 1942 a Merate (Lecco) e ordinato sacerdote nel 1966, è stato per molti anni Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Nel settembre 2007, dopo essere stato nominato da Benedetto XVI Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra, è stato consacrato Arcivescovo Titolare di Villamagna di Proconsolare. A lungo docente di esegesi dell’Antico Testamento nella Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale e di Ebraico nel Seminario arcivescovile milanese, è membro di numerose accademie e istituzioni culturali italiane e straniere, oltre che autore di diversi volumi. Collabora con i quotidiani L’Osservatore Romano, Il Sole 24 Ore, Avvenire, con il settimanale Famiglia Cristiana e con il mensile Jesus. Il 20 novembre 2010 è stato creato Cardinale da Benedetto XVI.

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