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Vestibolite vulvare e cistite: il coraggio di non arrendersi

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06/03/2008

Le vostre lettere alla nostra redazione

Avevo 18 anni, la prima volta che conobbi il significato della parola “cistite”. Fu durante la prima vacanza con il mio fidanzato di allora e altri amici. Un senso di pesantezza al basso ventre, una sensazione prima di fastidio, e poi di bruciore, come dei minuscoli ma fittissimi spilli proprio lì... Quando andai in bagno, verso la fine, ecco quella morsa infernale, quel bruciore che dilaga lungo tutte le fibre nervose del corpo, fino alle mani e alle gambe... lì, nei bagni di un campeggio, lontana da casa, da sola. Mi spaventai molto, andai in farmacia, spiegai i miei sintomi e fui liquidata con una scatola di nitrofurantoina e con un “Capita...”. Fu la prima di una lista infinita di cure antibiotiche, e di centinaia di “capita...”.
Questo è stato l’inizio di un calvario durato dodici anni. Oggi ho 30 anni, e soltanto tre mesi fa, dopo – ripeto – 12 anni, mi è stata diagnosticata una vestibolite vulvare dovuta all’ipertono del muscolo elevatore dell’ano. Una situazione che, oltre a svariati altri problemi, si associa anche a quelle maledette cistiti ricorrenti.
In dodici anni ho consultato decine di medici, tra cui urologi, ginecologi, neurologi, psicologi, per non parlare del mio medico di base. Tutti mi hanno prescritto decine di esami e di terapie: esami delle urine, tamponi vaginali e uretrali, ecografie, risonanze magnetiche, antibiotici, antimicotici, disinfettanti urinari, ansiolitici, psicoterapie, ozonoterapia, trazioni lombari... e persino un intervento. Insomma, di tutto e di più.
Quando avevo 24 anni, ebbi l’ennesimo episodio di cistite, associato a una vaginite dovuta a infezione batterica da Escherichia Coli. L’ennesima visita dal ginecologo fu ancora più traumatica delle altre, sia emotivamente che fisicamente. Lui voleva “vederci chiaro” in questa situazione che “non era normale”. Durante la visita mi toccò in un punto molto profondo, io feci un salto sul lettino ed emisi un grido trattenuto, con le lacrime agli occhi. Ecco, aveva capito: “E’ la vescica che ha qualche problema”. Mi prescrisse una lista di analisi, compreso l’esame del virus dell’HIV... che vederselo scritto lì, nero su bianco, non fa un bell’effetto.
L’ultimo esame della lista era una cistoscopia. Non sapevo che cosa fosse, ma ero terrorizzata. E ancora sofferente fisicamente, dal momento che l’ultima crisi acuta di cistite era terminata solo da pochi giorni. Mi fecero spogliare e sdraiare sul lettino, mi misero una pomata anestetica che avrebbe dovuto evitarmi il dolore. Mia madre era fuori, in sala d’attesa. Io ero sdraiata, indifesa, impaurita... proprio come 22 anni prima, quando, a soli 2 anni avevo subito un tampone uretrale, un esame troppo invasivo per una bimba così piccola.
Ma torniamo alla cistoscopia. L’urologo tentò di infilarmi qualcosa nell’uretra. Credo che i miei occhi in quel momento lo supplicassero di non farmi male, ma le mie lacrime e i miei lamenti di dolore a un certo punto furono più eloquenti. Quel medico si arrese: disse che non poteva nemmeno visitarmi, se avevo così tanto male. E andò a comunicare a mia madre la diagnosi che prontamente aveva fatto: “Signora, abbiamo già trovato qual è il problema: non si riesce neanche a mettere il tubicino!”. La diagnosi fu dunque di “stenosi del meato uretrale”: quella cistoscopia non riuscita, bisognava farla in anestesia totale e procedere a un intervento di dilatazione del canale uretrale, perché era ovvio che essendo così stretto non consentiva all’urina di uscire completamente provocando quindi un ristagno e possibili infezioni batteriche.
Mi avrebbero ricoverata pochi giorni dopo (era il 20 dicembre) e poi, una volta uscita, avrei dovuto farmi controllare costantemente perché quel canalino avrebbe potuto restringersi ancora: già mi immaginavo che per il resto della mia vita sarei dovuta tornare lì, nel suo studio, a farmi infilare una sonda nell’uretra per urinare correttamente, e ovviamente senza anestesia (perché mica potevano ricoverarmi ogni volta!). Uscii da quel maledetto studio in lacrime, terrorizzata, dolorante, arrivai a casa, andai in bagno e per la prima volta vidi del sangue nella mia urina. Credo non sia ancora passato giorno, da quella volta, in cui non abbia riprovato quella sensazione di paura ogni volta che vado in bagno.
Di quei tre giorni in ospedale ricordo soprattutto la notte prima dell’intervento, insonne e in preda a un dolore urente, come un ferro bollente lì, per tutta la notte... Ero sotto antibiotici, ma mi rendevo benissimo conto che quello non era il solito bruciore della cistite!
Ovviamente l’intervento non risolse i miei problemi, anzi.
Poi, quattro anni fa, conobbi il mio attuale compagno: primo weekend al mare insieme e, il secondo giorno, ecco ricomparire la cistite. Lacrime e dolore. Tornati a casa, lui mi portò da suo zio, un urologo specialista in urodinamica, il quale si accorse subito dall’esame urodinamico che nel mio modo di urinare c’era qualcosa che non andava. Ma era altrettanto certo che non si trattava di una questione organica, di una malformazione, bensì di una contrazione muscolare: urinavo “a scatti”, perché non riuscivo a rilassare il muscolo che regolava, tra le altre funzioni, anche lo svuotamento della vescica.
Contemporaneamente avevo sempre problemi alla schiena e forti mal di testa... Andai da una neurologa, che mi diagnosticò una “protrusione del disco intervertebrale lombo-sacrale”: un problema che, secondo lei, era anche alla base dei miei problemi di cistiti ricorrenti. Nessuno, però, sapeva spiegarmi perché la cistite e il dolore arrivavano sempre un paio di giorni dopo un rapporto sessuale! Questa neurologa diceva che il sesso non c’entrava niente: “Se fosse così, avresti dolori subito dopo i rapporti, e non due o tre giorni dopo!”. Secondo lei, se avessi continuato a mettere in relazione le mie cistiti con i rapporti sessuali, avrei finito per “nevrotizzare” questo problema. E mi prescrisse cicli di trazioni lombari, tutte le sere per 20 giorni, a intervalli di alcuni mesi.
Dopo l’ennesima cistite che, ripeto, non era caratterizzata da bruciore ma da dolore (e non è la stessa cosa), ricontattai la neurologa che mi disse: “Tu sei psicologa, però mi sa che sei tu ad averne bisogno...”. Ci mancava solo questa! Andai avanti sempre più demoralizzata... Paura, dolore, ancora trazioni, altre due crisi in due mesi, corse al pronto soccorso in preda a dolori lancinanti dopo avere urinato, dolori che mi prendevano le gambe, mi facevano tremare. Dolori sedati da iniezioni di calmante e poi, come sempre, dalle cure antibiotiche.
A quel punto, persa per persa, trovai la forza di impormi: doveva esserci per forza, un legame tra quei dolori e i rapporti sessuali! Tra l’altro, le ultime volte in cui avevo fatto l'amore avevo provato anche dolore, una cosa che non mi era mai capitata. Iniziai a fare ricerche, e su Internet trovai il recapito di un dottore specializzato in problemi come il mio. Improvvisamente, non so neppure io perché, ritrovai la speranza che credevo di avere perso per sempre. Decisi di farmi visitare. E tre mesi fa ho iniziato una terapia mirata per chi soffre, come me, di “vestibolite vulvare”, un disturbo legato all’ipertono del muscolo elevatore dell’ano. A ripensarci, questo muscolo mi aveva sempre dato problemi, fin da ragazza: ricordo per esempio che a 15 anni avevo provato a inserire un assorbente interno, ma non ci ero riuscita.
La nuova cura è impegnativa, ma finalmente mirata: e comprende anche degli psicofarmaci, indispensabili a mio avviso per riprendere coraggio e un minimo di gioia di vivere. Questa cura mi sta consentendo di vedere finalmente la luce in fondo a un tunnel nerissimo.
Ho ancora paura, tanta: paura del dolore fisico, quello che non ti inventi nella testa, quello che ogni cellula del tuo corpo ha immagazzinato e impresso a fuoco dentro di sé dopo anni di sofferenze.
Dopo tanti anni segnati dal dolore, dalla paura, dall’indifferenza e dall’ignoranza, ma anche dalla ricerca incessante e dal coraggio di andare fino a fondo, mi sento di dire che ogni donna deve avere il diritto di esprimere il proprio dolore, di essere ascoltata ed essere presa sul serio... dai familiari, dal compagno, dai medici. Se potessi tornare indietro non sottovaluterei nessuno dei sintomi, non mi farei fare visite invasive né tanto meno quegli interventi che hanno traumatizzato non solo la mia psiche ma anche il mio corpo.
Sto facendo una gran fatica: ma non c’è prezzo che non pagherei per riavere, o forse avere per la prima volta, una vita senza dolore e soprattutto senza paura.

Silvia G.

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