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Dalla diagnosi negata alla terapia giusta, il mio lungo viaggio nel dolore e nella solitudine

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19/12/2008

Le vostre lettere alla nostra redazione

Mi chiamo Marina e ho trentasei anni. Nel 2003, durante una vacanza con il ragazzo che poi sarebbe diventato mio marito, ebbi un episodio di cistite emorragica che venne curata con degli antibiotici. Una volta tornata a casa, pensavo di essere guarita. Volevo buttarmi alle spalle quella esperienza tanto dolorosa e speravo di non dovermi imbattere mai più nella cistite, ma non fu così.
Dopo alcuni mesi ebbi un altro episodio di cistite acuta: mi fu diagnosticata una infezione da Escherichia Coli e mi venne prescritta una terapia antibiotica. Da allora le cistiti si susseguirono con maggior frequenza. Ad ogni attacco, il medico mi prescriveva terapie antibiotiche sempre più forti e ripetute, anche se ormai le analisi non rilevavano più la presenza di infezioni batteriche.
Nel frattempo io e il mio fidanzato avevamo deciso di sposarci; nonostante la felicità, ero sinceramente preoccupata che potesse capitarmi un attacco di cistite anche durante il viaggio di nozze, che avremmo trascorso in un paese lontano. Così partii munita di ogni sorta di medicinale e di antibiotico... e purtroppo il mio timore si rivelò fondato.
Con il passare del tempo avevo notato che vi era una certa connessione tra i rapporti sessuali e l’insorgenza della cistite, ma i medici ai quali facevo presente questa circostanza la trascuravano, dicendomi che probabilmente il “trauma meccanico” del rapporto poteva influire, ma che in definitiva non vi era nessuna infezione batterica tale da giustificare il dolore che provavo.
Intanto mi accorgevo che ad ogni cistite la situazione peggiorava: passato il dolore acuto, mi rimaneva un malessere fisico che diventava sempre più intenso e continuo. Provavo un senso di fastidio, come di “pesantezza” alla vescica e quasi di “tumefazione”. Il dolore, che aumentava notevolmente durante la giornata, col passare dei mesi si estese progressivamente a tutta la sfera genitale e poi anche a quella anale.
Mi rivolsi allora alla mia ginecologa che mi prescrisse un estratto di mirtillo e... “tanta pazienza”. Nonostante seguissi alla lettera entrambi i consigli, il dolore continuava ad aumentare e, con quello, la mia inquietudine. Gli esami delle urine e l’urinocoltura, che ripetevo frequentemente, ormai da tempo non evidenziavano più nessuna infezione. Nonostante ciò stavo sempre peggio e il medico di famiglia continuava a prescrivermi antibiotici, ritenendo che potesse trattarsi di un infezione batterica non rilevata dalle analisi.
La situazione peggiorava e il dolore si faceva sempre più intenso. Iniziai a sospettare che si trattasse di una malattia non diagnosticata con esattezza e così mi rivolsi, per scrupolo, anche a una dermatologa, che escluse malattie della pelle e mi consigliò di farmi visitare da un omeopata.
Sconfortata, chiesi aiuto a un urologo che mi disse che poteva trattarsi di cistite interstiziale e mi prescrisse una cistoscopia. Ma, all’ospedale, il medico di turno si rifiutò di eseguire l’esame per la persistenza del bruciore e dell’ipersensibilità a livello dell’uretra: mi disse che nel mio caso la cistoscopia sarebbe stata del tutto inutile e, anzi, avrebbe soltanto aggravato i sintomi di una patologia che, a suo avviso, non era affatto una cistite interstiziale ma un problema per il quale, mi disse, “non esiste terapia” e che col tempo si sarebbe probabilmente “risolto da sé”.
Ma non fu così: stavo sempre peggio, sia fisicamente che moralmente. Ormai ero consapevole che gli antibiotici, il mirtillo e la pazienza non erano sufficienti a guarirmi, e del resto mi rendevo conto che i medici che mi avevano visitata sino ad allora non avevano capito quale fosse la mia malattia. In queste condizioni sperare in una guarigione era impossibile!
Con il morale a terra decisi di rivolgermi a un altro ginecologo, un professore universitario, al quale feci presente che il dolore era ormai cronico, avvolgeva non solo l’uretra ma anche la vagina e l’ano, aumentava durante il giorno ed era diventato talmente intenso da impedirmi, soprattutto la sera, anche di stare seduta. Ovviamente feci presente che i rapporti con mio marito si erano dovuti interrompere. Con mia estrema sorpresa e sgomento mi rispose esclamando, in tono molto alterato, che era “inaudito” che avessi interrotto i rapporti sessuali, e questo nonostante che sia io che mio marito, presente alla visita, continuassimo a ripetergli che il dolore era cronico e talmente forte da rendere inconcepibile, per entrambi, l’avere rapporti in quelle condizioni.
Del tutto incurante della sofferenza di cui gli parlavo mi rispose, con tono di rimprovero, che dovevo riprendere immediatamente i rapporti sessuali, aggiungendo frasi come “la funzione fa l’organo” e affermando che comunque tutto si sarebbe risolto con una gravidanza. Anzi, mi ripeté più volte che l’unica cura per me era quella di “fare la gravidanza”: attenzione, non “fare un figlio” ma “fare la gravidanza”. E infatti, basita e attonita, uscii dal suo studio con in mano la richiesta di tutti gli esami propedeutici alla gravidanza!
La reazione di questo ginecologo mi ferì moltissimo, e sulle prime disorientò anche mio marito, che non capiva più se credere a me o a lui, visto che con tanta perentorietà aveva dichiarato ingiustificabile, assurda e inaudita la sospensione dei nostri rapporti. Fu solo il dialogo e il rapporto profondo di conoscenza e di amore che ci lega a far svanire nel giro di un giorno tutti i suoi dubbi: si scusò e riconobbe che non si trattava affatto di una malattia immaginaria e che di “inaudita” c’era solo la reazione del ginecologo. Inoltre entrambi ci rifiutavamo di concepire un figlio come terapia della cistite e del dolore intimo.
Decisi pertanto di rivolgermi a un’altra ginecologa, che mi parlò di ipersensibilità della mucosa, mi consigliò di non riprendere i rapporti sessuali e mi disse che la terapia fondamentale era quella di bere molta acqua, almeno due litri e mezzo al giorno. Insieme a questa prescrizione, che riteneva la principale, mi disse di assumere uno sciroppo e delle vitamine, di usare un gel intimo e un sapone speciale per l’igiene intima. Tuttavia precisò che, se entro due mesi il dolore non fosse cessato, non restava che rivolgersi a uno psicologo...
Seguii per qualche mese anche questa terapia ma mi resi presto conto che non solo il gel acuiva il bruciore, ma anche che il bere tanto e lo sciroppo, seppur utili, da soli non potevano certo risolvere la malattia: ormai ero più che sicura che nessuno avesse ancora diagnosticato correttamente il mio problema. Sapevo però che il dolore che provavo, così forte, cronico e invalidante, non era certo attribuibile a una nevrosi e che uno psicologo sarebbe stato certamente depistato da una errata diagnosi del medico. Ero disperata.
Cercai, come potevo, di approfondire da sola l’argomento e di capire qualcosa di più sul dolore intimo. In libreria trovai un libro che affrontava l’argomento e, leggendolo, mi fu tutto chiaro: sembrava che l’autrice, in un capitolo, avesse fatto la mia fotografia, e così scoprii che forse la mia malattia aveva un nome che non avevo mai sentito pronunciare: “vestibolite vulvare”. Riconoscevo tutti i sintomi, probabilmente – pensavo – originati dalle prime cistiti. Decisi così di prendere un appuntamento con la dottoressa che aveva scritto il libro.
Dopo circa tre anni di dolore, il giorno dell’appuntamento, questa ginecologa mi spiegò in modo chiaro la mia patologia, che era proprio la vestibolite vulvare, e mi prescrisse una cura articolata che comprendeva l’uso di farmaci, esercizi di stretching per rilassare il muscolo pubococcigeo e una modifica profonda del mio stile di vita. Così, dopo tanto tempo, potei guardare in faccia la mia malattia, dare un nome a quel dolore sconosciuto e finalmente, con le cure giuste, iniziai a guarire!
Il disorientamento e l’angoscia per un male ignoto lasciarono spazio alla comprensione del mio corpo e alla consapevolezza di quello che mi stava accadendo. Iniziai la terapia con impegno, con la speranza e la voglia di guarire, che per la prima volta dopo tanto tempo sentivo possibile. Infatti, già dopo un mese stavo molto meglio. La terapia è stata lunga ed impegnativa, ma era quella giusta. Finalmente.
Adesso, che sono quasi al termine della cura penso con felicità e sollievo al giorno in cui trovai quel libro che trattava della vestibolite vulvare e del dolore intimo e che mi consentì di trovare la professionista capace di aprirmi la strada verso la guarigione. Allo stesso tempo, però, penso con tristezza e con rabbia a quella parte della mia vita passata in compagnia del dolore fisico che diventava anche sofferenza morale, a tutto il tempo trascorso a piangere, a tutto quello che potevo fare e non ho fatto, alle passeggiate, alle sere con gli amici, e all’intimità con mio marito che per tanto tempo ho perso, a tutte le volte che ho parlato con i medici della mia sofferenza senza trovare le risposte giuste, all’angoscia e al disorientamento nel sentirmi sola di fronte a un male ingiustificatamente sconosciuto e non curato, al tempo della mia vita che mi è stato sottratto per una diagnosi negata. E allora penso che il diritto alla cura anche del dolore, se una cura esiste, sia un diritto assoluto del paziente e un dovere del medico.
Spero che condividere la mia esperienza con altre donne che soffrono di questa patologia dia loro forza e speranza. Spero che la fatica che le donne devono affrontare nel trattare argomenti così intimi e delicati, troppo spesso con professionisti che non sanno dare il supporto terapeutico e morale adeguato, non le faccia desistere dal continuare a cercare gli specialisti preparati, in grado di fornire le risposte e la cura giuste. E mi auguro infine che tra i medici si diffonda una cultura della terapia del dolore che troppo spesso e ingiustamente viene negata.
Marina L.

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