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Il sentiero intimo e fragile del dolore

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14/03/2008

Le vostre lettere alla nostra redazione

Alla fine – dopo tre anni di dolore – la diagnosi è stata: endometriosi, vestibolite vulvare, infezione da candida e contrazione difensiva del muscolo elevatore dell’ano. E ho iniziato la terapia... Ma facciamo un passo indietro.
Sono giovane e ho la fortuna di avere un partner attento, dolce e paziente che ha vissuto con me l’intero percorso che ho intrapreso.
Fin da bambina ho sempre assunto molti antibiotici e la candida non si è fatta attendere, così come il gonfiore, il prurito, il bruciore e il rossore ai genitali esterni. Una volta iniziata la relazione con il mio compagno, però, i sintomi si sono fatti ancora più insistenti: e a quello di cui già soffrivo, si è aggiunto un forte dolore non solo al primo tratto della vagina, ma anche in profondità. Il dolore mi accompagnava durante l’intero rapporto, con la spiacevole sensazione di avere un “muro” che impedisse la penetrazione, per quanto il mio compagno cercasse di essere delicato.
Inizialmente consultai due medici che sottovalutarono totalmente gli indizi e mi risposero in termini simili: «E’ un problema psicosomatico», «Magari con un altro ragazzo è meglio», «Fai sesso anche se senti male, per sacrificio».
Un anno e mezzo fa fui operata di endometriosi in un ospedale della zona in cui vivo: l’operazione mi portò molti benefici ma gli altri problemi – la candida, la vestibolite e la contrattura del muscolo – rimasero tali e quali.
Un mese dopo l’operazione, ebbi finalmente il primo colloquio con un nuovo medico, che avevo sentito una volta alla radio. Mi ha prescritto tante cose utili: lo stretching per rilassare il muscolo contratto, un farmaco per modulare l’attività del mastocita, una pillola che non altera il mio umore, e mi ha anche dato molti consigli e suggerimenti sugli stili di vita inerenti all’abbigliamento e all’alimentazione, che hanno un forte peso nella vestibolite vulvare.
Piano piano, questo medico mi sta portando sulla via della guarigione, consentendomi di avvicinarmi di nuovo a quell’amore completo che ognuno credo abbia il diritto di vivere serenamente.
Durante questo viaggio nel dolore, fisico e non, che ho scoperto terribilmente affascinante, ho vissuto tanti momenti di sconforto e di sfiducia, ma ho anche sperimentato un rapporto più profondo con il mio corpo, una maggiore consapevolezza delle sue potenzialità e la scoperta di una timida, e allo stesso tempo coinvolgente, femminilità.
A altre donne che, come me, sono state portate dalla vita ad addentrarsi lungo uno dei sentieri più intimi, delicati e fragili che esistano – quello del dolore – consiglio di non dubitare mai di quel che sentono e di cercare risposte che assicurino quel rispetto che è dovuto alla sofferenza nelle sue molteplici manifestazioni.

Paola C.

Non avrei mai pensato di poter avere una ragazza e quando me la sono trovata appoggiata alla spalla, in un’indimenticabile gita a Parigi, stentavo a crederci sul serio. Non sapevo come fare, nessun libretto delle istruzioni, mai neanche una storia precedente! Il primo bacio non fu spettacolare, ma fu lunghissimo. Camminare tenendosi per mano, il primo abbraccio, la prima carezza... tutto una novità.
A quei tempi ero convinto che amare significasse prendere qualcosa e servirsene per la propria felicità. E così feci, spingendo Paola, oggi me ne rendo conto, a una sopportazione eroica del mio modo di comportarmi. Arrivammo così alla prima volta, e se ai suoi problemi aggiungete un mio difetto congenito, che non mi permetteva di avere un’erezione piena, vi lascio immaginare lo splendore. Niente era come ce l’eravamo immaginato: nessuna dolcezza, nessuna tenerezza. Solo dolore e fatica!
Dopo l’operazione chirurgica che in me rimise le cose a posto, tentammo di riprendere la nostra vita intima. Era bello davvero perdersi l’uno nelle braccia dell’altra, dimenticarsi di come si era, sentirsi completi. Ma il suo dolore era sempre lì, prima molto nascosto, poi sempre più forte.
Il primo ginecologo che consultammo non ebbe dubbi: “dolore psicosomatico”. Ci prescrisse una pillola, e disse alla mia ragazza che doveva «risolvere le cose da sola». Il dolore però non passava, diventava insopportabile per lei aprirsi a me e per me vederla piangere durante i rapporti. Eravamo tesi, era come se lo attendessimo, quel maledetto dolore, e chiaramente, addio atmosfera. Così approdammo al secondo ginecologo che, pur criticando il primo, trattò la cosa nello stesso modo, dicendo a lei che «avrebbe dovuto provare lo stesso, facendo un po’ di sacrificio!».
Un mattino, alla radio, mentre andavamo al lavoro, sentimmo un’intervista a un medico che si occupava di problemi femminili. Stava parlando di dolore durante i rapporti. Il modo in cui ne parlava ci trasmise fiducia. Decidemmo di prendere un appuntamento non appena possibile.
Intanto io ero cambiato, alla rabbia si era sostituita la pazienza, il rancore aveva lasciato posto alla speranza. Il sesso non era più un bene da consumare: era un modo per entrare in relazione, un modo per dirsi più profondamente quello che ci legava.
Provammo ancora, con dolore e senza risultati. Di ritorno da una vacanza, la mia ragazza venne ricoverata in ospedale e fu diagnosticata l’endometriosi. Un mese dopo l’operazione, ecco il primo incontro con il nuovo medico. Una persona straordinaria, capace di mettere a proprio agio le persone, con un atteggiamento che cura di più di mille terapie. Sempre disponibile a spiegare, raccontare, con un sorriso che rassicura. Veloce, puntuale, con un rispetto profondo per le pazienti.
Le cose poco per volta miglioravano, il dolore diminuiva... Ma fu ancora questo medico a scoprire, durante una visita, una massa all’ovaio e a richiedere un’ecografia immediata. L’esito suonò come una sconfitta: la precedente operazione aveva lasciato qualcosa che ha fatto infezione e l’ovaio era stato gonfiato da un ascesso. Affrontammo così un’altra operazione.
Oggi siamo ancora in cura, ma vediamo che in lontananza la strada si fa più diritta. Non sappiamo come andrà a finire, ma sappiamo di essere finalmente in buone mani.
Tutta questa storia avrebbe potuto non avere questo esito: e se una parte del merito si deve alla nostra resistenza, una grossa fetta la dobbiamo al nostro medico, che accompagna la nostra rinascita e fa il tifo per noi.
Mario A.
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