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Il lamento di Danae

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17/12/2008

Simonide, Frammento Diehl 13
in: Salvatore Quasimodo, Tutte le poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2003

Guida alla lettura

Un antichissimo mito greco racconta che Danae ebbe un figlio da Zeus, e lo chiamò Perseo. Il padre della giovane, Acrisio, re di Argo, era stato informato da un oracolo che un giorno il nipote lo avrebbe ucciso. Aveva cercato di prevenire l’evento imprigionando la figlia in una tetra torre, ma il padre degli dei si era egualmente congiunto a lei sotto forma di una pioggia sottile. Dopo la nascita del bambino, Acrisio rinchiude la donna e il piccolo in un’imbarcazione, e li abbandona alla furia del mare.
La lirica di Simonide ritrae il tumulto dei sentimenti che agitano il cuore della madre angosciata, in antitesi con l’inconsapevole sonno del piccino: dolore, apprensione, paura, tenerezza, speranza si alternano in un canto mirabile, che trascolora infine in una dolce ninnananna e un’accorata preghiera.
Questi versi antichissimi e immortali ci commuovono in profondità. E quando pensiamo al dramma delle “carrette del mare”, con il loro indicibile carico di sofferenza umana, intuiamo con sgomento che il nostro mondo civile ed evoluto non è così diverso da quello spietato dei tempi arcaici. Dedichiamo dunque questa poesia a tutte le donne di cui non conosceremo mai il volto, né il nome, che lasciano con dolore la loro terra – nella speranza di una vita migliore o, più spesso, trascinate in schiavitù – e che in un naufragio perdono i loro bambini e con loro, probabilmente, la loro unica ragione di vita.
Quando nell’arca regale l’impeto del vento
e l’acqua agitata la trascinarono al largo,
Danae con sgomento, piangendo, distese amorosa
le mani su Perseo e disse: «O figlio,
quale pena soffro! Il tuo cuore non sa;
e profondamente tu dormi
così raccolto in questa notte senza luce di cielo,
nel buio del legno serrato da chiodi di rame.
E l’onda lunga dell’acqua che passa
sul tuo capo, non odi, né il rombo
dell’aria: nella rossa
vestina di lana, giaci: reclinato
al sonno il tuo bel viso.
Se tu sapessi quello che è da temere,
il tuo piccolo orecchio sveglieresti alla mia voce.
Ma io prego: tu riposa, o figlio, e quiete
abbia il mare; ed il male senza fine,
riposi. Un mutamento
avvenga ad un tuo gesto, Zeus padre;
e qualunque parola temeraria
io urli, perdonami;
la ragione m’abbandona.

Biografia

Simonide nacque nell’isola di Ceo (Cicladi), nel 556 avanti Cristo. Acquistò ben presto una vasta fama come lirico corale, e ricevette numerosi incarichi da potenti committenti ad Atene, in Tessaglia e infine in Sicilia, a Siracusa e ad Agrigento, dove si spense intorno al 468. Al tempo delle guerre persiane, celebrò tutte le più importanti vittorie di Atene in carmi purtroppo andati perduti.
Fu uno dei poeti greci più fecondi e multiformi. Scrisse elegie ed epigrammi; e trattò con abilità tutte le forme della lirica corale: partenii, peani, encomi, ditirambi, epinici, lamenti. Fu il primo a chiedere per la sua arte compensi regolarmente pattuiti, il che spinse molti suoi rivali a considerarlo cortigiano e mercenario. Ma i pochi frammenti giunti sino a noi rivelano un poeta potente e ispirato, dotato di uno stile plastico e levigato, tanto che – con Bacchilide e Pindaro – è ricordato come uno dei più grandi lirici del suo tempo.
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