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Il lamento di Elettra

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18/11/2009

Liberamente tratto da:
Sofocle, Elettra. In: Giuseppina Lombardo Radice (a cura di), Le tragedie di Sofocle, Einaudi (I Millenni), Torino, 1982

Guida alla lettura

“Elettra”, la tragedia di Sofocle da cui è tratto il brano che proponiamo, si inserisce nel contesto del cupo mito degli Atrìdi. Questo, in sintesi, il complesso antefatto. Agamennone, re di Argo e capo della spedizione greca contro la città di Troia, rientra vittorioso in patria, ma viene selvaggiamente ucciso dalla moglie Clitemnestra e dall’amante di lei, Egisto. Alla radice di tanto odio, l’omicidio del precedente marito, Tantalo, e di un figlioletto da lui avuto, per mano dello stesso Agamennone; e il sacrificio propiziatorio della figlia Ifigenìa, allo scopo di favorire la partenza della flotta militare achea bloccata dalla bonaccia in un porto dell’Aulide. Nelle drammatiche ore in cui Agamennone viene ucciso, la figlia, Elettra, salva dalla morte il fratello Oreste, ancora bambino: diversamente il piccolo non avrebbe scampo, perché in quel mondo violento un figlio maschio ha il dovere sacro (messo in discussione, con esiti diversi, proprio da grandi autori tragici come Eschilo e Sofocle) di vendicare il sangue del padre. E infatti, divenuto adulto, Oreste riceve da Apollo l’ordine di tornare ad Argo per uccidere Egisto e Clitemnestra. Per ingannare la madre sulla sua vera identità, il giovane si fa passare per un viaggiatore giunto dalla Focide con le ceneri di Oreste: ma prima, nel corso di un drammatico dialogo, si fa riconoscere dalla sorella.
Accolto con ansia quello che crede essere uno straniero, Elettra prende l’urna fra le mani e si abbandona a una disperazione senza freni, compiangendo l’infelice sorte del fratello, morto in una terra lontana, e rievocando con infinito struggimento le cure materne prestategli un tempo. Il dolore della donna turba profondamente Oreste che infine, nel corso di un serrato crescendo poetico, rivela la propria identità. Il riconoscimento spianerà la strada all’atroce vendetta, ma intanto è il profondo amore fraterno che prende il sopravvento, mentre – come sussurra commosso il Coro – «discendono lente dagli occhi lacrime di gioia».
La peculiarità dei temi, la complessità delle trame, l’elevatezza dello stile fanno della tragedia greca una forma d’arte pienamente accessibile solo con un’adeguata preparazione. Tuttavia, alcuni aspetti evidenziati dal dramma di Elettra, e di portata universale nel mondo di allora e di oggi, meritano di essere richiamati all’attenzione di tutti noi: l’intensità dei legami familiari, e con la terra di origine; la sconcertante possibilità di una coesistenza, nel profondo del cuore, degli affetti più delicati e dell’odio più cieco; il conflitto, a volte insolubile, fra opposte istanze di giustizia; il lancinante senso del male e del dolore, capace di rendere apparentemente senza significato la trama delle nostre vite.
[Oreste] Il vecchio Stròfio notizie m’affidò d’Oreste.
[Elettra] Ospite, quali? Che angoscia m’invade!
[Oreste] In breve urna raccolti, i resti lievi di lui, del morto, riportiamo.
[Elettra] Dammi, straniero, per gli dèi, quel bronzo, se lui ricopre:
lo possano stringere queste mie mani, ch’io dolori e pianga
e per me e per tutta la mia gente, su questa sola cenere di lui.
[Oreste] (ai compagni) Porgetele, chiunque sia, quel bronzo:
da odio quel pregar di lei non muove. A lui cara e vicina,
anzi, dev’essere, una congiunta, e del suo sangue forse.
[Elettra] (ricevendo l’urna e stringendola tra le mani)
Ricordo del più caro a me tra gli uomini,
della vita d’Oreste unico avanzo, come dalle speranze mie diverso
d’allora, quando ti lasciai partire, ora, questo riceverti così!
Ora, tu sei tra le mie palme un nulla, ma tutto luminoso
eri in quel giorno, che fuori ti sospinsi dalla casa, figlio!
Se già mancata io fossi ai vivi, prima che te potessi, dalle mie
mani rapito, salvato dal sangue, verso terra non nostra allontanare!
Disteso nella morte tu saresti sceso allora a giacere,
e tu col padre diviso avresti comune sepolcro.
Ma fuor di casa e sopra terra altrui fu la tua morte d’esule, lontano
dalla sorella tua: né di lavacri t’hanno purificato le mie mani,
né dal rogo fiammante, triste peso, t’han sollevato, come pur dovevano;
ma da mani straniere, tu, composto, carico lieve giungi in urna breve.
O me infelice pei lontani giorni della mia dolce inutile fatica,
le molte volte ch’io ti porsi cibo: poiché non eri tu caro alla madre
più che a me caro, ed io soltanto, allora, – e non altra persona della casa –
ero la tua nutrice, e tu sorella, sempre “sorella” mi chiamavi.
Ed ora tutto questo passato si dissolve
in un sol giorno
, con te che moristi:
come vento che investe e che trascina tutto con sé, passasti.
Ed è scomparso il padre; ed io, muoio per te...
Ed essi ridono, i nemici: di gioia ebbra delira
lei, la madre non madre, che tu spesso
per segreti messaggi mi dicevi domato avresti con il tuo castigo.
Caro volto fraterno... E tu ricevimi nell’urna tua,
col nulla tuo confondi il mio nulla, che sia con te per sempre
laggiù: se prima, finché fosti ancora sulla terra, divisi il tuo destino,
posso desiderare ora una morte che dalla tomba tua non mi discosti.
[Coro] (a Elettra) Nascesti, Elettra, d’un padre mortale,
e mortale era Oreste: tu non devi a troppo pianto abbandonarti:
è il debito triste, che tutti dobbiamo scontare.
[Oreste] (a parte, guardando Elettra) Ahimè, che dirò?
Nel difficile passo, quale parola chiamerò in aiuto? Io non ho più la forza di tacere.
[Elettra] (a Oreste) Di che soffri? E perché così mi parli?
[Oreste] È questo il volto famoso d’Elettra?
[Elettra] È questo, sì, se pur tanto disfatto.
[Oreste] Piango, infelice, sulla tua sventura...
[Elettra] Ma una minima parte dei miei mali tu hai vista.
[Oreste] Quadro più triste di così può esistere?
[Elettra] Questo: ch’io vivo accanto agli uccisori.
[Oreste] Di chi?
[Elettra] Gli uccisori del padre: e m’hanno schiava.
[Oreste] Chi dei viventi ti piega a tal forza?
[Elettra] Madre si chiama, né a madre somiglia.
[Oreste] E non hai chi lo vieti, e ti soccorra?
[Elettra] Oh, no: colui che mi restava ancora, cenere sola, a me lo riportasti.
[Oreste] Da quanto con immensa pietà io ti vo mirando!
[Elettra] Tra gli uomini saresti allora il solo che mai mi diede dono di pietà.
[Oreste] Io solo soffro i tuoi stessi dolori.
[Elettra] Un congiunto saresti? E di che luogo?
[Oreste] Lascia, se tutto vuoi sapere, l’urna.
[Elettra] Straniero, per gli dèi, non farmi questo! Della cosa più cara, ospite, ti prego, non privarmi.
[Oreste] Non hai motivo, ora, di piangere... non è tuo quello che chiedi.
[Elettra] Non è il corpo d’Oreste, questo peso nelle mie mani?
[Oreste] Non d’Oreste, credi, se non per una trama di parole.
[Elettra] E la tomba dov’è, dell’infelice?
[Oreste] Ma non esiste: non han tomba i vivi.
[Elettra] Egli vive?
[Oreste] Io vivo!
[Elettra] Sei tu lui?
[Oreste] (Mostra ad Elettra la pietra dell’anello che porta al dito)
Osserva dunque questa pietra incisa col suggello paterno.
[Elettra] Luce del giorno più caro!
[Oreste] Più caro – posso dirlo con te – fra tutti i giorni!
[Elettra] Tra le braccia mi sei?
[Oreste] Così vorrei fosse per sempre.
[Elettra] (al Coro) Amiche, o donne della mia città, guardatelo...
[Coro] (a Elettra) Lo vediamo, figlia, e quello che si svolge
ora dinanzi a noi fa che discendano lente dagli occhi lacrime di gioia.

Biografia

Sofocle nacque intorno al 497 avanti Cristo, nei pressi di Atene, da una famiglia agiata anche se non aristocratica. La bellezza e l’abilità nella danza gli ottennero l’incarico di guidare il coro che, nel 480, celebrò la vittoria dei Greci sui Persiani a Salamina. Talento precoce, conseguì la prima vittoria nell’agone poetico a poco più di ventotto anni: complessivamente vinse diciotto volte, imponendosi come l’autore tragico più amato dal popolo ateniese. A livello politico, fece parte del collegio degli “ellenotami”, amministratori del tesoro della confederazione delio-attica, e fu due volte stratego, prima con Pericle (441-440) e poi con Nicia (428-427).
Nel corso della sua attività poetica, introdusse importanti innovazioni tecniche, fra cui l’aumento dei componenti del coro, l’aggiunta di un terzo attore e la composizione di drammi indipendenti, liberi dal legame tradizionale della trilogia. Ma è sotto il profilo dell’elaborazione del materiale mitico che Sofocle lasciò l’impronta più originale, di portata incalcolabile per la cultura europea dei secoli successivi: fu soprattutto lui, infatti, a problematizzare il comportamento e il destino sino a quel momento relativamente lineari degli eroi cantati dal mito, mostrando in pagine immortali come la grandezza umana non ponga al riparo dalla rovina più catastrofica e inspiegabile, e come la vera essenza del tragico non stia tanto nel susseguirsi di vicende più o meno violente e sanguinose, quanto nel conflitto fra istanze etiche parimenti legittime, eppure inconciliabili. L’“Antigone”, illuminando con ineguagliata potenza poetica l’insanabile contrasto fra le norme sacre della polis e le leggi non scritte dei legami di sangue, rappresenta il vertice di questa interpretazione critica dei nostri rapporti con il mondo e la vita.
Sofocle morì nel 406, sazio di giorni e di gloria: gli Ateniesi lo venerarono come un eroe, innalzando un santuario alla sua memoria e onorandolo ogni anno con solenni sacrifici rituali. Per noi moderni, rimane una delle figure più importanti della letteratura di tutti tempi, protagonista straordinario di quel quinto secolo avanti Cristo che, ad Atene, diede un’impronta decisiva alla nostra civiltà.
Parole chiave di questo articolo
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