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E se la mamma non torna? Bambini e angoscia di separazione

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20/05/2009

Tratto da:
Judith Viorst, Distacchi, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 2004, p. 3-9

Guida alla lettura

In questo brano duro e toccante, Judith Viorst ci spiega la profondità del legame che i bambini molto piccoli hanno con la madre, un legame che – anche in casi estremi e agghiaccianti – ci spingono a pensare che qualsiasi situazione sia meglio della separazione. Una riflessione preziosa, che può aiutare molte mamme di oggi, impegnate su tanti fronti di attività (lavoro, partner, figli, casa, amici, impegno sociale...) e che possono essere indotte, anche da pareri scientifici autorevoli ma poco documentati, a sottovalutare gli effetti di assenze ripetute o prolungate sulla serenità dei loro piccoli.
Sappiamo però tutti che esistono anche casi più gravi e penosi della nostalgia di una mamma magari super-impegnata, ma pur sempre equilibrata e affettuosa. Sono i casi drammatici dei bambini maltrattati, abbandonati, o gravemente trascurati anche nelle loro più elementari necessità fisiche, alimentari e sanitarie.
Dedichiamo dunque il brano a questi sfortunati bambini. Ma lo dedichiamo anche alle loro giovani mamme, spesso colpite dalla depressione post-partum o dalla psicosi puerperale, malattie infide e pericolose che poco per volta divorano lo spazio dell’amore. E lo dedichiamo alle bambine maltrattate, abbandonate e trascurate di ieri: bambine diventate donne e che oggi, forse con inquietudine ma certamente tanto coraggio e voglia di amare, si aprono al desiderio della maternità, al desiderio di dire sì alla vita, nonostante il dolore immenso e ingiusto patito nei lontani anni della loro infanzia.

La vita comincia con la perdita. Usciamo dal grembo senza un appartamento, un piatto pronto, un lavoro o un’automobile. Siamo dei neonati succhianti, piangenti, dipendenti e indifesi. La nostra mamma si frappone tra noi e il mondo, proteggendoci da un’angoscia che ci sovrasterebbe. Non abbiamo un bisogno più grande del bisogno di nostra madre.
I bambini hanno bisogno della madre. A volte anche gli avvocati, le casalinghe, i piloti, gli scrittori e gli elettricisti hanno bisogno della mamma. Nei primi anni di vita ci imbarchiamo nell’impresa di lasciare ciò che va lasciato per diventare esseri umani a sé stanti. Ma fino a quando non impariamo a tollerare la nostra separatezza fisica e psichica, il bisogno della presenza della madre – della sua continua presenza, in senso stretto – è assoluto.
E’ difficile diventare una persona a sé stante, separarsi emotivamente e fisicamente, essere in grado, esternamente, di stare da soli sulle proprie gambe e, internamente, sentire di essere una persona distinta dalle altre. Ci sono perdite che dobbiamo sopportare, anche se possono essere controbilanciate da guadagni, mentre ci allontaniamo dal corpo e dall’essere di nostra madre. Ma se è nostra madre a lasciarci – quando siamo troppo giovani, troppo impreparati, troppo impauriti, troppo indifesi – il costo di questo abbandono, il costo di questa perdita, il costo di questa separazione può essere troppo alto.
C’è un momento in cui è giusto separarci da nostra madre. Ma se non si è pronti a lasciarla e a essere lasciati, qualsiasi cosa è meglio della separazione.

Un bambino giace in un letto d’ospedale. Ha paura e sente dolore. Delle ustioni coprono il quaranta per cento del suo piccolo corpo. Qualcuno lo ha cosparso di alcol e poi, difficile da immaginare, gli ha dato fuoco.

Cerca la mamma.
Sua madre gli ha dato fuoco.

Non importa che tipo di madre un bambino abbia perduto, o quanto difficile sia vivere con lei. Non importa se le sue mani lo abbracciano o gli fanno del male. Separarsi dalla madre è peggio che essere nelle sue braccia mentre intorno esplodono le bombe. Separarsi da lei è peggio che non stare con lei anche se la bomba è lei.
Perché la presenza della madre – di nostra madre – significa sicurezza. La paura di perderla è il primo terrore che conosciamo. (...) L’angoscia di separazione scaturisce dalla pura verità che, senza una figura che si occupi di lui, il neonato morirebbe. (...)
Eppure tutti noi siamo abbandonati da nostra madre. Ci lascia prima che noi possiamo sapere che tornerà. Ci abbandona per lavorare, per fare la spesa, per andare in vacanza, per partorire un altro figlio; ci sentiamo abbandonati quando non c’è e noi abbiamo bisogno di lei. Ci lascia per continuare la sua vita, una vita per proprio conto – e noi dobbiamo imparare ad averne una per conto nostro. Ma nel frattempo cosa facciamo quando abbiamo bisogno di lei e lei non c’è?
Indubbiamente sopravviviamo. Certamente sopravviviamo alle brevi e temporanee assenze. Ma queste ci fanno conoscere una paura che può lasciare un segno nella nostra vita. E se nella prima infanzia, specialmente nei primi sei anni, siamo stati troppo deprivati della presenza della madre di cui abbiamo bisogno e che desideriamo, possiamo aver subito una ferita emotiva paragonabile all’essere cosparsi di alcol e bruciati. Questa deprivazione nei primi anni di vita è stata proprio paragonata a bruciature o ferite estese. Il dolore è inimmaginabile. Difficile e lento è il recupero. Il danno, anche se non fatale, può essere permanente. (...)
Solo negli ultimi quarant’anni si è rivolta piena attenzione all’alto costo determinato dalla perdita della madre e alle sofferenze immediate e future di pur brevi separazioni. Un bambino tenuto lontano dalla madre può mostrare reazioni di separazione che possono durare a lungo anche dopo che sono di nuovo tornati insieme – disturbi del sonno e della nutrizione, incapacità nel controllo degli sfinteri e persino una diminuzione dei vocaboli usati. Inoltre, anche alla tenera età di sei mesi, il bambino può non solo essere piagnucoloso o triste, ma anche gravemente depresso. E per di più, strettamente connessa, c’è la dolorosa sensazione conosciuta come angoscia di separazione, che include sia la paura – quando la mamma non c’e – dei pericoli da affrontare senza di lei, sia quella – quando la mamma è presente – di perderla di nuovo. (...)
A sei mesi un bambino si può formare un’immagine mentale di sua madre assente. La ricorda e la vuole specificatamente e il fatto che lei non sia presente gli procura dolore. Sopraffatto dal bisogno insistente che solo sua madre, la madre che non c’è, può soddisfare, si sente profondamente indifeso e deprivato. Più il bambino è piccolo e minore è il tempo che occorre – una volta che si sia sintonizzato sulla madre – perché l’assenza venga vissuta come una perdita permanente. Figure familiari sostitutive lo possono aiutare a tollerare le separazioni quotidiane, ma solo a tre anni il bambino comincia a capire che la madre che non è presente è egualmente viva e vegeta in un altro luogo e che tornerà da lui.
Solo che l’attesa per il ritorno della madre può sembrare interminabile, può sembrare eterna.
Dobbiamo ricordare che il tempo passa più in fretta col passare degli anni e che una volta noi lo misuravamo in modo diverso, tanto che un’ora ci poteva sembrare un giorno, un giorno un mese, e un mese era quindi indubbiamente un’eternità. Non c’è allora da stupirsi che da bambini ci si disperasse per l’assenza della mamma come ci capita da adulti per la morte di una persona. Non c’è da stupirsi che un bambino che viene tolto alla madre divenga pazzo di dolore per la frustrazione e il desiderio.
L’assenza non rende più appassionati ma solo più disperati.
L’assenza, in realtà, provoca una sequenza tipica di risposte: protesta, disperazione e infine distacco. Togliete un bambino alla madre e affidatelo a degli estranei in un posto sconosciuto ed egli troverà questo modo di vita intollerabile. Griderà, piangerà, si agiterà. Cercherà ansiosamente e disperatamente la mamma che non c’è. Protesterà perché spera, ma dopo un po’, quando vedrà che lei non viene, la protesta diventerà disperazione, uno stato d’animo di struggimento sotterraneo che può albergare un dispiacere immenso.
Ascoltate la descrizione che Anna Freud fa di Patrick, un bambino di tre anni e due mesi che, durante la seconda guerra mondiale, venne mandato al Centro di raccolta per bambini rifugiati di Hampstead (Inghilterra) e che

rassicurava se stesso e quelli che volevano ascoltarlo, con il più grande sfoggio di fiducia, che la mamma sarebbe arrivata, gli avrebbe messo il soprabito e lo avrebbe portato a casa...
Col passare del tempo allungava la lista degli abiti che la madre gli avrebbe fatto indossare: «Mi metterà il soprabito e le ghette, mi chiuderà la cerniera e mi metterà il berrettino».
Quando questa formula divenne monotona e infinita, qualcuno gli chiese se non potesse smettere di ripeterla... Egli smise di ripeterla ad alta voce ma il movimento delle labbra mostrava che continuava a ripetere a se stesso le medesime cose.
Allo stesso tempo sostituì alle parole dei gesti coi quali mostrava come avrebbe messo il berretto, indossato l’immaginario soprabito, chiuso la cerniera... Mentre gli altri bambini erano per lo più indaffarati a giocare, suonare ecc. Patrick, per nulla interessato, restava in qualche angolo, muoveva le labbra e le mani con un’espressione del viso assolutamente disperata.

Siccome il bisogno di una madre è così potente, la maggior parte dei bambini emergono dalla disperazione e cercano dei sostituti materni. Ha quindi senso supporre che, se il bisogno è così forte, una volta tornata la madre il bambino si getti nelle sua braccia.
Ma le cose non vanno così.
Perché, abbastanza sorprendentemente, molti bambini – soprattutto al di sotto dei tre anni – possono accogliere freddamente la madre al suo ritorno, trattandola con una distanza, con un’indifferenza che sembrerebbero voler dire: «Mai vista questa signora in vita mia». Questa risposta viene chiamata distacco – una chiusura dei sentimenti affettivi – e ha a che fare con la perdita in diversi modi. Punisce la persona per aver abbandonato. Serve come espressione mascherata di rabbia, perché l’odio intenso e violento è una delle principali risposte dell’essere stato abbandonato. E può inoltre agire da difesa – che può durare per due ore, o giorni, o per l’intera vita – una difesa contro l’angoscia di amare sempre e di essere sempre abbandonati.
L’assenza non rende più appassionati, ma più freddi.
E se questa assenza è, di fatto, l’assenza di una stabile figura parentale, se l’infanzia è una serie di separazioni, che cosa accade? La psicoanalista Selma Fraiberg racconta di un ragazzo di sedici anni della contea di Alameda che chiese mezzo milione di dollari in risarcimento per essere stato affidato a sedici famiglie diverse. Qual era esattamente il danno in base al quale aveva deciso di fare la causa? La sua risposta fu: «È come una cicatrice nel cervello».

Biografia

Judith Viorst nasce nel 1931 negli Stati Uniti. Dopo gli studi alla Rutgers University (New Jersey), si occupa a lungo di giornalismo (scrive per il New York Times e il Washington Post) e di letteratura per adulti e bambini. Fra i libri per l’infanzia riscuotono particolare successo di pubblico la collana “Alexander”, in cui un ragazzino di cinque anni racconta le sue avventure e la sua vita quotidiana con i genitori e due fratelli, e “Sad Underwear”, una raccolta di poesie su sentimenti ed esperienze vissute dal punto di vista dei bambini.
Negli anni Settanta Judith Viorts entra al Washington Psychoanalytic Institute, ove si specializza in Psicoanalisi con orientamento freudiano. Il volume “Distacchi” (“Necessary Losses”, nella versione originale), da cui è tratto il brano proposto, è considerato la sua opera più significativa in questo ambito di interesse.
Attualmente vive e lavora a Washington, D.C., insieme con il marito Milton, scrittore e commentatore politico.
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