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Giuturna, la condanna dell'immortalità

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03/04/2013

Tratto da:
Publio Virgilio Marone, Eneide, versione poetica di Cesare Vivaldi, commento e note di Cesare Mussini e Francesco Marzanti Chiesa, Garzanti 1990 – Libro XII, vv. 1050-1101

Guida alla lettura

Il brano che proponiamo è tratto dall’ultimo canto dell’Eneide. Il conflitto fra Troiani e Rutuli per il controllo del Lazio è giunto a un punto di stallo, e i rispettivi capi – Enea e Turno – decidono di stipulare una tregua e risolvere la guerra con un duello. Giunone, nemica di Enea e consapevole del destino di Turno, cerca di impedire lo scontro: e lo fa tramite Giuturna, ninfa delle fonti e sorella di Turno, che prese le sembianze di Camerte, guerriero latino, e poi di Metisco, auriga del fratello, induce i soldati a violare la tregua e scatenare un nuovo combattimento.
La mischia si fa sempre più violenta, sino a quando Enea pone sotto assedio la stessa Laurento, capitale della regione e sede del re Latino. A quel punto Turno abbandona il carro, intimando ai combattenti di sospendere la lotta e ad Enea di riprendere il duello. Tutti si ritirano e i due formidabili eroi si trovano finalmente l’uno di fronte all’altro. In alterne azioni, la divina Giuturna continua ad aiutare il fratello. Nel momento culminante del confronto, Giove e Giunone concludono il patto fatale: Enea vincerà, ma i Latini non saranno sottomessi; i due popoli si fonderanno e da loro trarrà origine la stirpe dei Romani.
Da quel momento, gli eventi precipitano e la sorta di Turno è segnata. Giove manda sulla terra una Furia, ambasciatrice di morte, che trasformatasi in gufo svolazza intorno al volto di Turno, annunciandone l’imminente fine. Giuturna, che in cambio dell’amore concesso al padre degli dei aveva ottenuto l’immortalità, comprende il significato del presagio e, maledicendo il destino che non le permette di morire con il fratello, si getta disperata nelle profondità del suo fiume. Poco dopo, il duello e il poema si chiuderanno con la vittoria di Enea e la morte del rutulo: «Il corpo di Turno – concluderà Virgilio con parole immortali – si distende nel freddo della morte, la sua vita sdegnosa cala giù tra le Ombre».
I versi che qui riproduciamo, fra i più drammatici dell’intero poema, descrivono la discesa della Furia su Turno, e il pianto senza speranza di Giuturna. Secondo la tradizione più diffusa, le Furie erano tre – Aletto, Tisifone e Megera – e abitavano negli Inferi. Anche Virgilio segue, altrove, questa versione del mito: qui invece pone nell’Oltretomba la sola Megera, e colloca le altre due ai lati del trono di Giove, pronte a eseguirne gli ordini. I termini che raccontano l’assalto del mostro affondano le radici nei miti più cupi ed arcaici del mondo antico: Notte profonda, terrore, orrenda morte, rapido turbine. Al tempo stesso, la reazione smarrita di Turno è resa con straordinaria precisione fisiologica: lo «sconosciuto torpore» che ne fiacca le membra altro non è che la scarica di adrenalina che sempre accompagna i momenti di terrore nella nostra esistenza, e così ci sentiamo oltremodo vicini a lui, capaci di comprenderne lo sgomento e la paura nel momento in cui capisce che la vita sta per abbandonarlo.
Ma sono le parole di Giuturna a commuoverci ancor più in profondità. La disperazione della fanciulla per l’imminente morte del fratello è incontenibile: «Cosa potrà fare per te adesso tua sorella, o Turno? Che speranza mi rimane?». Sino al grido più alto e sconvolgente contro Giove e quell’immortalità che le impedisce di accompagnare l’infelice attraverso le tenebre: «Perché m’ha concesso di vivere in eterno? Perché io non posso morire?… Sono immortale! Mai avrò nulla di bello e caro senza te».
Come sottolineano Cesare Mussini e Francesco Marzanti Chiesa nel loro commento, «il disprezzo dell’immortalità, che era ed è per molti l’aspirazione massima di un sogno comune, è il tratto più caratteristico del dramma di Giuturna: disprezzo che, traducendosi in un momento di altissima e originale poesia, ci fa capire come la vera e sola immortalità sia quella del dolore. Giuturna non avrà mai pace e il dono concessole da Giove si muterà in una maledizione eterna».
Questa figura dolce e dolente – come Antigone, Elettra, Andromaca, Danae e tante altre eroine del mito – ci parla dell’amore infinito di cui possono essere capaci una sorella, una moglie, una madre. E i poeti che hanno dato loro voce ci insegnano come, senza amore, persino una promessa di immortalità si possa mutare in infinita solitudine, in un rimpianto senza luce.
Esistono due mostri, chiamati con il nome
di Furie, generati dalla Notte profonda
in uno stesso parto con la Tartarea Megera,
cinti come Megera di serpenti e forniti
di ali grandi, robuste, che producono vento.
Son sempre pronte a apparire accanto al trono di Giove
per seminare il terrore fra gli uomini infelici
quando il re degli Dei manda l’orrenda morte,
le malattie o sgomenta le città che lo meritano
con la guerra. L’Eterno spedì una di costoro
giù dal cielo, veloce, con l’ordine di correre
da Giuturna per monito e presagio. La Furia
discende sulla terra in un rapido turbine.
Come una freccia scoccata attraverso la nebbia
da un Parto – che l’ha intinta in un fiero veleno –
come una freccia scoccata da un Parto o da un Cidone,
mortale, immedicabile, fischia invisibile e solca
l’ombra: così la figlia della Notte di corsa
si scagliò sulla terra. Viste le armate iliaca
e rutula, in un lampo la Furia si costrinse
nella forma del piccolo uccello che talvolta
a tarda ora, di notte, posato sui sepolcri
o sui tetti deserti canta lugubremente
attraverso le tenebre. In tale aspetto il mostro
svolazza sibilando davanti al volto di Turno
più e più volte, e gli sferza con le ali lo scudo.
Che sconosciuto torpore gli fiacca allora le membra!
I capello si drizzano, la voce gli smuore in gola.
Appena riconosciute di lontano le ali
e il sibilo della Furia, l’infelice Giuturna
si strappa i capelli sciolti; per pietà del fratello
con le unghie si strazia la faccia, con i pugni
il seno e grida: «Cosa potrà fare per te
adesso tua sorella, o Turno? Che speranza
mi rimane? In che modo riuscirei a allungarti
la vita: o forse a oppormi a un miracolo simile?
Abbandono la lotta, ormai. Non atterrite
me che vi temo, o uccelli infausti: riconosco
i vostri colpi d’ala, queste grida che annunziano
la morte, e non m’ingannano gli ordini prepotenti
del magnanimo Giove. Sarebbe questo il dono
per la verginità che m’ha tolto? Perché
m’ha concesso di vivere in eterno? Perché
io non posso morire? Come sarebbe dolce
mettere fine a tanti dolori e accompagnare
il mio infelice fratello attraverso le tenebre.
Sono immortale! Mai avrò nulla di bello
e caro senza te. C’è una terra profonda
abbastanza da aprirsi e inghiottirmi (me,
una Dea!) giù nel covo dei Mani?». Tra le lagrime
si tirò fin sul capo il suo mantello azzurro,
scomparve con un salto nella cupa corrente.

Biografia

Come molti altri poeti e letterati dell’età di Augusto, anche Publio Virgilio Marone proveniva dalla Gallia Cisalpina. Nato ad Andes vicino a Mantova, sul Mincio, il 15 ottobre del 70 avanti Cristo, da una famiglia di agiati proprietari terrieri, fu avviato agli studi prima nella vicina Cremona, poi a Milano, il maggior centro di cultura dell’Alta Italia. Di lì, intorno ai vent’anni, si trasferì a Roma, per perfezionarsi presso maestri famosi: frequentò la scuola del retore Epidio e approfondì la conoscenza del greco con Partenio. In quell’ambiente fece i suoi primi tentativi poetici. Erano gli anni dell’assassinio di Clodio, della rottura fra Pompeo e Cesare, della guerra civile, della dittatura cesariana.
Verso il 45 Virgilio lasciò Roma e si recò nei dintorni di Napoli, alla scuola degli epicurei Sirone e Filodemo. In quel periodo maturarono definitivamente le sue scelte di vita: dalla retorica alla poesia, dalla pratica forense (trattò una sola causa, senza soddisfazione) alla filosofia, dalla vita concitata della capitale al tranquillo isolamento di Posillipo, alla ricerca della sapienza.
Sul piano poetico, dopo incerti inizi sulla scia di Catullo e Lucrezio, Virgilio rompe con il passato e fra il 41 e il 39, con le Bucoliche, dà vita al genere – nuovo per Roma – della poesia a sfondo pastorale, nella quale il poeta trasfonde però la sua visione del mondo presente, travagliato da un declino apparentemente inesorabile, e la sua speranza per il futuro. Le Georgiche, composte fra il 37 e il 30, sono un poema didascalico sul lavoro dei campi, sulla coltivazione della vite e dell’olivo, sull’allevamento e sull’apicoltura: ma sanciscono anche la piena adesione del poeta al nuovo mondo che Ottaviano, il futuro Augusto, sta costruendo e che incarna un ideale di vita impegnata, alacre e operosa. L’Eneide infine, composta tra il 29 e il 19, narra la storia di Enea, esule da Troia e fondatore della gens Iulia, che darà vita a Roma e alla sua grandezza: poema di bellezza vertiginosa e dalla fortuna immortale, resterà l’espressione latina più matura della grande tradizione epica inaugurata dagli aedi greci.
Virgilio morì a Brindisi nel 19 a.C., al ritorno da un viaggio in Grecia. Coerente con il perfezionismo formale che ne aveva sempre ispirato l’opera, poco prima di spirare chiese agli amici Plozio Tucca e Vario Rufo di distruggere il manoscritto ancora incompleto dell’Eneide. Ma i due non obbedirono: e consegnarono il codice all’imperatore, che ne ordinò la pubblicazione, donando al genere umano un capolavoro di importanza incalcolabile per la storia dell’arte e della cultura.
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