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Il dramma di Creusa

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18/11/2015

Tratto da:
Euripide, Ione, traduzione di Giulio Guidorizzi, Oscar Mondadori, Milano 2001
In: Giulio Guidorizzi, Il mito greco. Volume primo: Gli dèi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2009

Guida alla lettura

In questo brano tratto dalla tragedia “Ione” di Euripide, la giovane Creusa rivela a un anziano concittadino lo stupro subito da Apollo, la nascita del figlio Ione e l’abbandono del piccolo, poi creduto morto, ai piedi dell’acropoli di Atene.
La trama dell’opera è limpidamente riassunta da Giulio Guidorizzi (Il mito greco, 951-952): «Il capostipite della gente ionica, Ione, secondo la tradizione più diffusa, era figlio di Xuto e di Creusa, figlia del primo re ateniese Eretteo, e aveva come fratello l’eroe eponimo di un’altra stirpe greca, Acheo. Ma del mito di Creusa e di suo figlio, destinato a dare origine a una gente gloriosa, esiste anche un’altra versione, giunta a noi in particolare attraverso la romanzesca vicenda che Euripide immaginò per la sua tragedia “Ione”. In quest’opera si racconta che Xuto era in realtà il padre putativo di Ione e che l’eroe ne aveva avuto un altro divino, Apollo. Creusa era stata adocchiata da lui mentre, poco più che bambina, passava accanto all’acropoli di Atene. Il dio la afferrò e la fece sua, brutalmente, in una caverna ai piedi della rocca; piena di vergogna, Creusa tacque con tutti e nascose la sua gravidanza. Quando giunse il momento del parto, diede alla luce un bambino, che poi abbandonò in una cesta nel luogo stesso in cui era avvenuto lo stupro. Apollo mandò il fido Ermes a raccogliere il figlio e lo fece crescere presso il suo tempio di Delfi, dove un giorno Creusa, che nel frattempo si era sposata con Xuto ed era diventata sterile, si recò insieme al marito per chiedere un responso sui figli che non arrivavano. Qui la madre, che dopo aver abbandonato il figlio viveva in segreto l’angoscia della colpa, e il ragazzo, che non aveva mai conosciuto i genitori ed era cresciuto orfano e infelice – ma in realtà vicinissimo al suo vero padre Apollo, del cui tempio era diventato guardiano – s’incontrano e dopo una serie di strabilianti equivoci poterono riabbracciarsi».
La pagina di Euripide pone in luce tutti i sentimenti tipici di una donna che abbia subito una violenza sessuale: la disperazione, il senso di colpa che la spinge a tacere, il rapporto ambiguo con il figlio nato dallo stupro, fino all’angoscia per averlo abbandonato – un fatto inumano che purtroppo, a volte, avviene ancora, soprattutto quando la solitudine e la vergogna non lasciano spazio ad alcuna speranza nell’avvenire.
Alla verità umana degli eventi si sovrappone la bellezza artistica della tragedia, che assume la vicenda individuale e la rende universale, e quindi ancora più vera e bruciante. Euripide è un maestro nel ritrarre, con singole e rapide pennellate, un complesso mondo di sentimenti ed emozioni: «Hai preso me, infelice, sopra un letto infelice», è il rimprovero della fanciulla al dio, e tutti sentiamo, nella potenza di queste scarne parole, il dolore delle donne insidiate; «Come se una tempesta di sciagure mi sommergesse la mente, a ogni tua parola riemergo e affondo», confessa il vecchio sconvolto dalla rivelazione della fanciulla, e noi cogliamo immediatamente la verità del dolore che non solo spezza il cuore, ma offusca i pensieri e la coscienza; «Solo la sventura e il silenzio»: sono questi i muti testimoni dell’abbandono del bambino, e noi percepiamo con assoluta nettezza la solitudine infinita delle donne sventurate che vivono come un incubo l’esperienza più bella, la maternità; sino alla sconsolata considerazione finale – «Così vanno le cose mortali: niente dura» – che riassume il pessimismo cosmico del poeta e il nostro sentire, quando il male ci trafigge l’anima.
Il lieto fine della tragedia (simile, per trama e risoluzione, alla Commedia Nuova di Menandro), che riconduce il figlio fra le braccia della madre e getta una luce più positiva sul ruolo di Apollo, non può cancellare dalla nostra memoria di lettori la sofferenza infinita di una giovane innocente, l’ingiustizia che ha sconvolto la sua vita, l’assenza di comprensione e solidarietà, il disperato esito della solitudine. Così un’opera tanto lontana nel tempo narra anche il nostro mondo, parla ai nostri cuori, ci invita a riflettere sulle nostre responsabilità nei confronti delle vittime e a fare spazio al rispetto per l’altro.
[Creusa] Anima mia, come faccio a tacere? Come farò a svelare quell’amplesso segreto, smarrendo ogni ritegno? E che cosa me lo impedisce più? Con chi ho da gareggiare in virtù, ormai? Lo sposo mi ha ingannato, non ho più famiglia, né figli, e anche la speranza se ne è andata. La mia speranza, cercavo di tenerla chiusa in me, ma non sono riuscita, tacendo le nozze e quel parto disperato. Lo giuro sulla stellata dimora di Zeus, sulla mia dea che abita una collina rocciosa e presso le rive del lago Tritonio gonfio di acque: non tacerò più quell’incontro, voglio sgravarmi il peso dall’anima. I miei occhi grondano pianto, la mia anima patisce, oltraggiata da tutti, dèi e uomini: ora rivelerò come mi hanno ingannata, ingrati e traditori. Dico a te, che canti al suono della cetra d’oro dalle sette corde, costruita con corna di animali uccisi, eppure riecheggia di canti melodiosi, figlio di Latona: ti accuso alla luce del sole! Ti sei presentato con la bionda chioma scintillante come oro. Io avevo in grembo un mazzo di fiori colorati appena colti, e davano barbagli d’oro per le ghirlande; tu mi hai afferrata per le bianche mani e gridavo; «Madre mia!». Tu, dio, mio sposo, mi hai trascinata nella grotta e senza vergogna hai celebrato le tue nozze. E io, la sventurata, ti genero un figliolo, e per timore di mia madre lo abbandono nello stesso luogo che fu il nostro giaciglio, là dove tu hai preso me, infelice, sopra un letto infelice. Ahi, ora quel figlio mio, che è anche tuo, è morto, divorato dai rapaci. Tu però, sciagurato, suoni e canti alla tua cetra. Sì, parlo a te, figlio di Latona, che indichi i destini sopra un seggio d’oro, posto nell’ombelico del mondo, alle tue orecchie grido: ah, seduttore, infame, che al mio sposo, che per te era nulla, hai donato un figlio per la sua casa, mentre il figlio tuo e mio, sconsiderato!, è morto sbranato da un rapace, strappato alle fasce materne. Ti odia Delo, e l’alloro presso la palma dalle morbide chiome dove, in sacre doglie, Latona ti ha messo al mondo sopra un prato divino.
[Coro] Ah, si apre un immenso scrigno di dolori, su cu non c’è nessuno che non piangerebbe.
[Vecchio] Figlia, sono pieno di pietà quando ti guardo in volto; mi sento fuori di me. Come se una tempesta di sciagure mi sommergesse la mente, a ogni tua parola riemergo e affondo. Che cosa dici? Di che accusi il Lossia? Hai generato un figlio, dici? E dove lo hai lasciato, in che tomba per le fiere? Ripeti ciò che hai detto.
[Creusa] Mi vergogno, vecchio, ma parlerò.
[Vecchio] Io so partecipare nobilmente ai dolori di chi mi è caro.
[Creusa] Ascolta, allora. Conosci l’antro a settentrione dell’acropoli, il luogo che chiamano Rocce Grandi?
[Vecchio] Certo, c’è un santuario di Pan, e vicino il suo altare.
[Creusa] Lì ho combattuto una battaglia tremenda?
[Vecchio] Quale? Ho già gli occhi pieni di lacrime.
[Creusa] Contro la mia volontà ho celebrato con Febo uno sventurato matrimonio.
[Vecchio] Dunque, figlia mia, è come avevo sospettato.
[Creusa] Non so, ma se indovini lo ammetterò.
[Vecchio] Fu quando gemevi di nascosto per una segreta malattia?
[Creusa] Era il male che ora ho rivelato.
[Vecchio] E come hai fatto a nascondere le nozze con Apollo?
[Creusa] Ho avuto un figlio… ascolta il resto, vecchio.
[Vecchio] Dove? E chi ti ha assistito? Hai fatto da sola?
[Creusa] Sola, nella grotta che vide le mie nozze.
[Vecchio] E il figlio, dov’è? Se vivesse, tu non saresti senza discendenza.
[Creusa] E’ morto, vecchio, in pasto agli animali.
[Vecchio] Morto? E Apollo, quel malvagio, non lo ha protetto?
[Creusa] No, non lo ha protetto, e ora cresce nella terra dei morti.
[Vecchio] E chi lo ha abbandonato? Certo, non tu.
[Creusa] Io sì, di notte, dopo averlo fasciato nel mio peplo.
[Vecchio] Nessuno ti ha vista?
[Creusa] Solo la sventura e il silenzio.
[Vecchio] E come hai potuto lasciare il tuo bambino in una grotta?
[Creusa] Balbettavo parole di dolore.
[Vecchio] Hai fatto una cosa tremenda, ma il dio è più colpevole di te.
[Creusa] Se tu avessi visto il mio piccino, mentre mi tendeva le mani!
[Vecchio] Cercava il latte, voleva essere preso in braccio?
[Creusa] Cercava me, e io l’ho abbandonato: è stata un’ingiustizia.
[Vecchio] Ma perché hai deciso di abbandonare il bambino?
[Creusa] Pensavo che il dio avrebbe salvato suo figlio.
[Vecchio] Ahi, come la fortuna della tua famiglia è in balìa della tempesta!
[Creusa] Perché ti copri il capo, vecchio, e piangi?
[Vecchio] Vedo che sei sventurata, e assieme a te tuo padre.
[Creusa] Così vanno le cose mortali: niente dura.

Biografia

Euripide nacque a Salamina, nel 485-484 avanti Cristo, da famiglia agiata. Ricevette una formazione rigorosa e iniziò la sua attività poetica intorno al 455, dopo essersi dedicato per alcuni anni all’atletica e alla pittura. Spirito solitario e inquieto, non partecipò alla vita pubblica, pur alludendo spesso nei suoi drammi a fatti della vita contemporanea; ed ebbe strette relazioni culturali con le più importanti personalità del suo tempo, fra cui Socrate, il filosofo Anassagora e i sofisti Protagora, Prodico e Antifonte. Intorno al 408, ormai anziano, si recò a Pella, presso la corte di Archelao, re di Macedonia: e là spirò due anni dopo, nella primavera del 406. Quando Sofocle seppe della sua morte, stava per far rappresentare una tetralogia: si presentò al proagone vestito a lutto, e i coreuti e gli attori senza la rituale corona.
La tradizione fornisce dati molto oscillanti sulla sua produzione poetica. Il numero più probabile è di ottantotto opere, di cui diciotto, certamente autentiche, pervenute integre sino a noi: diciassette tragedie e un dramma satiresco (Ciclope).
Rispetto agli altri grandi tragici del V secolo a.C., Euripide tende a rendere più complessa e realistica l’azione, ad approfondire la psicologia dei personaggi e a elaborare con notevole libertà il materiale mitico, aprendo a situazioni che verranno sviluppate anche dalla Commedia Nuova del IV secolo. Le parti liriche si estendono notevolmente e si caratterizzano per un virtuosismo sempre più ardito.
Poeta capace di scrivere composizioni di singolare tensione e potenza, Euripide ci ha lasciato ritratti femminili indimenticabili e profondamente differenti fra loro: la dolente Ecuba, che assiste alla caduta di Ilio e al tramonto della civiltà troiana; la mite Alcesti, che non esita a sacrificare la propria vita per salvare quella del marito Admeto; l’atroce Medea, che per vendicarsi del tradimento di Giàsone trucida la rivale, il padre di lei e i propri figli; la sfuggente Fedra che, innamorata del figliastro Ippolito, si toglie la vita pur di non venir meno al dovere di fedeltà verso Teseo.
Bernard M.W. Knox, filologo americano fra i più autorevoli del Novecento, afferma: «Nel raffigurare la sofferenza umana, Euripide sfiora i confini del tollerabile, per una platea di teatro; e alcuni suoi quadri varcano questo limite. I particolari macabri dello strazio di Penteo nelle Baccanti, della morte della principessa in Medea, di Egisto nell’Elettra, appaiono tipici casi di aggressione euripidea all’equilibrio psichico dello spettatore. La nenia funebre di Ecuba sul corpicino martoriato di Astianatte è la creazione di un poeta determinato a non risparmiarci nessuna emozione… Nel dramma di Euripide il caso dell’uomo è più disperato che nella visione degli altri tragici. Le sue creazioni non fanno brillare spiraglio di divini intenti nel dolore degli esseri umani. I suoi personaggi non sono eroi che nella sfida al tempo e al mutamento si protendono alla maestà degli dei: piuttosto soggiacciono alla passione e alle circostanze, vittime di un mondo che non sanno decifrare. In questo universo è lecito contare sull’aiuto di un’unica virtù: la muta pazienza» (AA.VV., La letteratura greca della Cambridge University, Volume primo, edizione italiana a cura di Ezio Savino, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1989, pp. 614-615).
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