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L'epicedio di Cornelia

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08/04/2009

Tratto da:
Properzio, Elegie, IV, 11
Versione italiana liberamente ripresa da: I. Lana, A. Fellin (a cura di), Antologia della letteratura latina, Vol. II, Casa Editrice D'Anna, Messina-Firenze, 1976

Guida alla lettura

L’epicedio (canto sul sepolcro: dal greco “epì”, sopra, e “kêdos”, lutto, cordoglio) di Cornelia, figlia di Cornelio Scipione e sposa di Lucio Emilio Paolo Lepido, console nel 34 e censore nel 22 a.C., è considerata la “regina” delle elegie, per la sua bellezza formale, la profondità dei sentimenti che esprime e l’ampio affresco che tratteggia dei valori familiari dell’antica Roma.
La poesia si sviluppa come un lungo e vibrante monologo pronunciato dalla defunta e si articola in tre momenti ideali: nel primo, Cornelia si abbandona a un accorato lamento sull’ineluttabilità della morte, contro la quale a nulla valgono l’amore coniugale e la gloria della stirpe; nel secondo, supplica la misericordia degli dei degli Inferi, evocando i propri meriti di moglie e di madre; nel terzo – forse il più vicino alla nostra sensibilità – affida la cura dei figli al marito, con accenti che, per ispirazione poetica e finezza psicologica, segnano un vertice espressivo fra i più potenti della letteratura di ogni tempo.
Tutti i valori fondamentali per una donna di quella lontana civiltà vengono riaffermati nel ricordo di una vita vissuta nella purezza e nella dignità: l’amore tenero e fedele; la condotta etica degna degli avi; la fecondità come fonte di gioia nell’oggi e sola via d’immortalità; la consolazione di non aver mai dovuto piangere la morte di un figlio; la speranza, quasi sussurrata, di poter restare per Paolo l’unica sposa mai amata, ma anche l’affettuoso e realistico auspicio che i figli, un giorno, sappiano accettare l’arrivo di una «prudente matrigna».
Nello sviluppo complessivo, sempre teso e sublime, alcuni versi trapassano il cuore come saette di rara bellezza e verità: «Volentieri io salpo sulla barca, perché in tanti dei miei si prolungherà il mio destino»; «A tormentarti per me ti bastino, Paolo, le notti e i sogni in cui crederai spesso di ravvisare il mio volto»; e quello forse più lapidario e commovente, che dall’esito della cremazione ormai avvenuta trae un amaro insegnamento sulla nostra piccolezza e caducità: «Et sum, quod digitis quinque legatur, onus», «Questo sono io ora: un peso leggero, che sta in una mano».
Smetti, Paolo, di far forza con le lacrime al mio sepolcro:
a nessuna preghiera s’apre la nera porta;
una volta che i morti sono passati sotto le leggi degli Inferi,
da inesorabile acciaio è sbarrata la via.
Se anche oda le tue preghiere il dio della reggia notturna,
sii certo, sordi i lidi berranno le tue lacrime.
I voti inteneriscono solo i celesti:
quando il nocchiero ha avuto il suo obolo,
la livida porta rinserra gli erbosi sepolcri.
Così squillarono meste le trombe,
quando la torcia nemica, posta sotto il feretro,
consumava il mio capo.
Che mi giovarono l’unione con te, Paolo,
i trionfi degli avi e i pegni preziosi della mia fama?
Non meno inesorabili trovò Cornelia le Parche,
e questo sono io ora:
un peso leggero, che sta in una mano.
Tristi notti di strazio e voi acque lente,
paludi, e ogni onda che impaccia i miei piedi,
innanzi tempo, sì, ma incolpevole qui son venuta:
mite legge il Padre di quaggiù accordi alla mia ombra...
Io stessa peroro la mia causa: se mento,
l’urna funesta gravi le mie spalle.
Se fu di onore ad alcuno la fama degli aviti trionfi,
l’Africa parla dei miei avi, a cui Numanzia diede il suo nome;
e un’altra schiera di antenati dà eguale lustro ai materni Liboni,
e l’una e l’altra casa si regge su titoli di gloria.
Poi, quando cedetti alle fiaccole nuziali
e un’altra benda avvolse le mie chiome,
mi unii, Paolo, al tuo letto che sì presto dovevo lasciare:
su questa pietra si legga che fui sposa a uno solo.
Chiamo testimoni le ceneri degli avi che tu veneri,
Roma, sotto la cui gloria, o Africa, percossa tu giaci;
e Perseo, che a gloria stimolava il suo cuore degno dell’avo Achille...
ch’io non attentai al rigore della legge censoria,
né il vostro focolare arrossì di alcuna mia colpa.
A così gloriosi trofei non recò infamia Cornelia:
anzi, della grande famiglia fu anch’essa un membro esemplare.
La mia vita non mutò mai, è tutta immune da macchia:
irreprensibile io vissi dall’una all’altra fiaccola.
La natura mi dettò leggi attinte al mio stesso sangue:
per timore di giudici non avrei potuto essere migliore.
Qualunque tribunale faccia di me rigoroso giudizio,
nessuna donna dovrà vergognarsi di sedere al mio fianco...
Sono lodi per me le lacrime della madre
e il cordoglio dei cittadini...
Meritai la veste che è insigne emblema di fecondità,
né fui rapita dalla morte a una casa priva di figli.
Tu, Lepido, e tu, Paolo, figli miei, mio conforto dopo la morte,
nel vostro abbraccio io chiusi gli occhi...
E tu, figlia, che nascesti ornamento della magistratura paterna,
fa’ di tenere un solo marito, imitando il mio esempio.
Con la discendenza date sostegno alla stirpe:
volentieri io salpo sulla barca,
perché in tanti dei miei si prolungherà il mio destino...
Ora a te io raccomando il dono comune dei figli:
quest’ansia vive inconsunta nelle mie ceneri.
Fa’ loro anche da madre, tu che sei padre:
la mia frotta di figli ora dovrai portarla tutta al collo tu solo.
Quando li bacerai piangenti, aggiungi i baci della madre:
il peso di tutta la casa d’ora in poi graverà su te solo.
E se avrai voglia di piangere, fallo quando sono lontani!
Quando verranno, con asciutte guance illudi i loro baci!
A tormentarti per me ti bastino, Paolo,
le notti e i sogni in cui crederai spesso di ravvisare il mio volto;
e quando nel segreto parlerai alla mia immagine,
parlami come s’io potessi risponderti.
Se però la casa vedrà un nuovo letto
e una prudente matrigna si assiderà nel mio talamo,
approvate, figli, e accettate le nozze del padre:
essa s’arrenderà vinta dalla vostra dolcezza.
Non lodate troppo la madre:
confrontata alla prima, essa vedrà un’offesa
nelle vostre imprudenti parole.
Ma se, nel ricordo di me, egli resterà fedele alla mia ombra
e penserà che di tanto sian degne le mie ceneri,
fin d’ora imparate ad accorgervi della vecchiaia che per lui giunge:
per l’uomo che è solo nessuna via resti aperta agli affanni...
Va tutto bene: mai, come madre, io ebbi a prendere il lutto:
alle mie esequie è venuta tutta la schiera dei miei figli.
È perorata la mia causa.
Alzatevi voi che mi piangete, testimoni,
mentre grata la terra mi rende il compenso per la mia vita.
Alla mia virtù s’aperse anche il cielo:
ch’io sia degna, per i miei meriti,
che la mia ombra navighi sulle acque dei pii.

Biografia

Il poeta latino Sesto Properzio nasce ad Assisi intorno al 50 a.C. Giunto a Roma, si innamora di Ostia, una donna coltissima e dalla vita assai libera, che canterà con il nome di Cinzia. Muore prematuramente a trentacinque anni, intorno al 15 a.C., lasciandoci quattro libri di elegie: una forma di componimento poetico ereditata dalla Grecia e originariamente dedicata a temi politico-militari, e che i Romani piegarono al canto dell’amore erotico e della vita quotidiana e, spesso, soprattutto con Tibullo (60-18 a.C.), al vagheggiamento di un mondo semplice e agreste ormai irrimediabilmente perduto.
In Properzio la capacità di esprimere con efficacia il calore della passione amorosa si unisce sempre alla necessità – psicologica e culturale, prima ancora che poetica – di richiamarsi all’esempio e al parallelo mitologico, come del resto ampiamente attestato dalla poesia alessandrina.
Negli ultimi anni della sua breve vita, la predilezione per i temi passionali (non di rado sviluppati con accenti cupi e persino violenti) lascerà lentamente il posto al canto commosso dell’amore coniugale, di cui l’epicedio di Cornelia, ultima poesia scritta prima di morire, è l’esempio più celebre e compiuto.
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