Guida alla lettura
Demetra però non si rassegnò alla scomparsa della figlia e si mise a cercarla ovunque, finché non scoprì qual era stato il suo destino. La sua sofferenza non è solo un sentimento personale, ma anche un dolore cosmico, universale, che stravolge la terra e fa isterilire le messi. La dea afflitta finì infatti per negare il dono del grano all’umanità, e Zeus si vide costretto a imporre al fratello di restituire la ragazza. Persefone però aveva mangiato il cibo dei morti: alcuni chicchi di melograno che Ade, astutamente, le aveva offerto. Questo cibo la vincolava per sempre al mondo sotterraneo. Così Demetra dovette accettare un compromesso: per sei mesi, d’inverno, Persefone siede accanto allo sposo sul trono infero; negli altri sei mesi ritorna a vivere con la madre, ed è questo il periodo dell’anno in cui la natura torna a germogliare e a vivere in pienezza.
La traduzione di Giulio Guidorizzi rende con grande bellezza e fedeltà lo splendore della lingua arcaica: aggettivazione abbondante e precisa, stile ornato e solenne, ripetizioni formulari tipiche della poesia epico-esametrica. Il dolore della madre è tratteggiato con grande efficacia: all’agitazione angosciata della ricerca segue, dopo la scoperta della verità, «un dolore più tremendo e feroce». Nemmeno la parole di Elios, il sole, servono a confortarla. E il nostro pensiero va a tutte le madri che perdono una figlia, svanita nel nulla o ritrovata senza vita, inghiottita dalla violenza della guerra, della povertà, della corruzione morale del mondo.
Ma l’immagine più commovente è quella della giovane Persefone: indimenticabili le parole con cui il poeta descrive la sua speranza, che resta viva sino a che la fanciulla riesce a scorgere «la terra e il cielo stellato / e il mare pescoso dall’onda perenne e i raggi del sole». Poi, solo il buio e la paura. La sua figura delicata sarà cantata con accenti immortali anche dal latino Ovidio, insuperabile, al momento del rapimento, nel coglierne l’innocenza e la purezza del cuore: «Dalla veste allentata caddero i fiori raccolti; / e tanto candore c’era nei suoi giovani anni / che anche questa perdita le causò dolore».
[Commento liberamente tratto e integrato da Giulio Guidorizzi, op. cit., pag. 125-129 e 1208]
e insieme la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo rapì:
gliel’aveva donata Zeus vasta voce, tuono profondo
di nascosto a Demetra spada d’oro, splendore di messi.
Giocava insieme alle figlie altocinte di Oceano,
coglieva fiori sopra un morbido prato:
rose, croco, viole belle, iridi e il giacinto e il narciso
che Gea creò, insidia per la fanciulla dal volto di rosa
secondo il volere di Zeus, per compiacere il dio che ospita molti,
mirabile fiore splendente, un prodigio allora a vedersi
per tutti gli dèi immortali e gli uomini mortali.
Dalla radice sbocciavano cento fiori,
al profumo soave tutto il vasto cielo in alto,
tutta la terra sorrise, e l’onda salmastra del mare.
Incantata ella distese entrambe le mani
per cogliere quel bel gioco e la terra larghe vie si spalancò
nella pianura di Nisa, ne balzò fuori su cavalle immortali
il dio che tutti i defunti riceve, il figlio molti nomi di Crono;
rapì lei riluttante sul carro d’oro
e la condusse, in singhiozzi: levava alte grida
invocando il padre Cronide, eccelso e perfetto.
Nessuno degli immortali né degli uomini mortali
udì la sua voce, neppure le sue fiorenti compagne,
ma solo la figlia cuore sereno di Perse
la udì dal suo antro, Ecate dal velo splendente,
e il sire Elios, luminoso figlio di Iperione,
udì la ragazza che invocava il padre Cronide, ma questi
sedeva lontano dagli dèi, in un tempio di molte preghiere
accettando vittime belle dagli uomini destinati a morire.
Lei riluttante condusse via per volere di Zeus
il dio suo fratello, che regna su molti, che ospita molti,
su cavalle immortali, il figlio molti nomi di Crono.
Finché scorse la terra e il cielo stellato
e il mare pescoso dall’onda perenne e i raggi del sole,
la dea, per quanto angosciata, ancora sperava di rivedere
la madre veneranda e la stirpe degli dèi eterni,
ancora la speranza confortava la sua grande mente
…
e risposero le cime dei monti e gli abissi del mare
alla voce immortale, l’udì la madre veneranda.
Acuto dolore le trafisse il cuore, con le mani
lacerava il diadema sulle chiome immortali,
si gettò sopra le spalle il velo scuro,
mosse rapida come un uccello sulla terra e sul mare
a cercarla, ma non voleva dirle il vero
nessuno degli dèi né degli uomini mortali
né alcuno degli uccelli a lei giunse come messaggero verace.
Nove giorni allora sopra la terra la veneranda Deò
s’aggirava reggendo in mano fiaccole ardenti,
mai toccò ambrosia o nettare dolce da bere,
angosciata, né immerse le sue membra in lavacri.
Ma quando luminosa arrivò la decima aurora,
le venne incontro Ecate reggendo tra le mani una fiaccola
e portando notizie parlò e disse parola:
«Veneranda Demetra portatrice di messi, splendidi doni,
chi tra gli dèi celesti e gli uomini mortali
rapì Persefone e ti gettò l’angoscia nel cuore?
Ho udito il suo grido ma non ho visto con gli occhi
chi fosse: in breve t’ho raccontato la verità».
Così disse Ecate, non le rispose parole
la figlia chioma bella di Rea ma veloce con lei
s’avviò, tenendo nelle mani fiaccole ardenti.
Giunsero a Elios, che vigila sugli dèi e sugli uomini,
stettero accanto ai cavalli, lo interrogò la dea luminosa:
«Elios, abbi rispetto di me dea, se mai con parole
o con opere fui gradita al tuo cuore e al tuo animo.
La figlia che generai, un dolce germoglio, un volto di luce:
di lei udii il lamento incessante per l’arido cielo
come se subisse violenza, ma non vidi con gli occhi.
Tu, che su tutta la terra, su tutto il mare
dal cielo divino scruti con i tuoi raggi,
dimmi sinceramente se hai visto chi rapì la cara figliola
di forza mentr’ero lontana, contro la sua volontà,
ed è fuggito, uno degli dèi o degli uomini mortali».
Così disse e a lei l’Iperionide rispose parola:
«Figlia di Rea chioma bella, regina Demetra,
saprai: molto rispetto ho per te, ti compiango
così angosciata per tua figlia snelle caviglie. Nessun altro
è colpevole tra gli immortali se non Zeus adunatore di nubi:
l’ha concessa ad Ade perché fosse detta sua sposa fiorente,
a suo fratello, e questi verso l’abisso di tenebre
la trascinò sui cavalli, che gridava a gran voce.
Ma tu, dea, interrompi il grande lamento: non bisogna
coltivare senza ragione un’ira insaziabile, non è disonore
avere per genero tra gli immortali Aidoneo signore di molti,
tuo fratello, d’identica stirpe: ebbe il suo regno
quando all’inizio vi fu la divisione in tre parti
ed egli sta tra coloro di cui fu sorteggiato sovrano».
Disse così, incitò i cavalli e subito questi al richiamo
tirarono il carro veloce, simili ad uccelli dalle ali distese.
A lei penetrò nel cuore un dolore più tremendo e feroce.
Gli Inni omerici
L’Inno a Demetra rappresenta, insieme alla Teogonia di Esiodo, la fonte più antica sulla vicenda del rapimento di Persefone da parte di Ade. E’ anche il resoconto più autorevole e completo di questo famoso mito, un grandioso affresco che unisce per sempre due divinità in origine distinte: va ricordato infatti che nell’Iliade e nell’Odissea Persefone non è mai rappresentata come figlia di Demetra.