Guida al film
Timnit è una donna venuta dal mare. Raccontare la sua storia nei dettagli è quasi impossibile: c’è anche un problema di riservatezza e di sicurezza personale, perché i suoi parenti sono ancora in Africa, ed è indispensabile evitare complicazioni e ritorsioni. Si possono solo fornire i dati di cronaca. Qualche anno fa, al largo delle nostre coste, dopo 21 giorni terrificanti alla deriva, senza che alcuna imbarcazione si fermasse a prestare soccorso, approda a Lampedusa un barcone silenzioso. I marinai della Guardia Costiera trovano a bordo solo cinque persone sopravvissute, vive per miracolo, sfinite. Tra queste, un’unica donna: Timnit T., 27 anni, proveniente dall’Africa centrale. Le 217 miglia marine fra la Libia e le coste della nostra isola si sono trasformate in un calvario: le altre 73 persone sono tutte morte, per sfinimento o annegamento. L’opinione pubblica rimane impressionata da questa storia. La stampa dà risalto al caso.
Il regista Emanuele Crialese vede le foto di Timnit sui giornali. Chiama Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), e le chiede di poter rintracciare Timnit, ovunque sia, in qualsiasi campo profughi, luogo disperato, inferno senza speranza sia finita. Crialese, con il fiuto del regista del neorealismo italiano ma proiettato sui temi contemporanei della globalizzazione, intende chiedere alla “ragazza venuta dal mare” se vuole interpretare Sara, uno dei personaggi principali del suo prossimo film. E andrà proprio così: la ragazza sopravvissuta tra i cadaveri di un barcone di migranti alla deriva diventa attrice non professionista, in un “viaggio” che non avrebbe mai immaginato: dall’abbandono, dalla morte, alle luci di un set e al red carpet del Lido di Venezia. Oggi Timnit vive nei Paesi Bassi, si è sposata, è in attesa del primo figlio, che nascerà europeo.
Nel film si dipanano le vite di due donne, un’isolana e una straniera, che è appunto Timnit, insieme attrice e artefice del proprio destino. Due vite: l’una sconvolge l’altra. Eppure hanno uno stesso sogno per i loro figli, la loro “terraferma”, l’approdo al quale mira chiunque navighi verso un futuro diverso, che è anche, nel nostro caso, un’isola – Lampedusa – saldamente ancorata a tradizioni ferme nel tempo.
Ed è con l’immobilità di queste abitudini che la famiglia Pucillo deve confrontarsi. Ernesto ha 70 anni, vorrebbe fermare il tempo e non vorrebbe rottamare il suo peschereccio. Il nipote Filippo ne ha 20, ha perso suo padre in mare ed è sospeso tra l’esistenza del nonno e quella dello zio Nino, che ha smesso di pescare pesci per catturare turisti. Sua madre Giulietta, giovane vedova, sente che il tempo immutabile di quest’isola li ha resi tutti stranieri e che non potrà mai esserci un futuro, né per lei né per suo figlio Filippo. Per vivere bisogna trovare il coraggio di scappare. Un giorno le onde sospingono nelle loro vite altri viaggiatori, tra cui Sara e suo figlio. Ernesto li accoglie: è l’antica legge del mare. Ma la nuova legge dell’uomo non lo permette e la vita della famiglia Pucillo è destinata a essere sconvolta: tutti devono scegliere una nuova rotta.
Ma non è il solito film sull’immigrazione. È una pellicola girata dal punto di vista di chi accoglie, di chi osserva i migranti arrivare, su di noi che stiamo qui e guardiamo verso il mare, quello vero di Lampedusa, o l’oceano simbolico dell’accettazione di altre culture. Una storia sospesa tra realtà e mito, raccontata dal regista italiano con il linguaggio lieve e potente delle fiabe, con sequenze e primi piani di intensa emotività.
Per immaginare questo film Crialese, già vincitore nel 2006 di un Leone d’argento a Venezia per la migliore rivelazione con “Nuovomondo”, è tornato sulle spiagge di Lampedusa, l’isola dove nel 2002 aveva girato “Respiro”, premio della “Semaine della Critique” al Festival di Cannes. Ma tornando a Lampedusa ha trovato un luogo diverso da come lo ricordava: «Il mio scoglio sperduto in mezzo al mare è ora terra di frontiera. Relitti di barche mezze affondate, in attesa di essere cancellate dal mare, motovedette con cannoni e mitragliatrici, confusione e disperazione».
Parlando di Timnit, Crialese dice: «Sono andato a cercarla. L’ho trovata sorridente, dice di essere nata una seconda volta. Sono anni ormai che osservo le immagini di questi barconi che approdano sulle nostre coste, che ascolto i racconti dei sopravvissuti, di coloro che sono riusciti a “rimanere a galla”. La stampa parla di esodo, di tsunami umano, di clandestinità. Guardando la bellezza ferita di Timnit, mi sembrano parole vuote. Ha lo sguardo di chi ha rischiato la vita per cambiare vita, ha attraversato il mare, un’altra odissea, un altro viaggio verso l’evoluzione. Finché ci sarà vita sulla terra gli uomini partiranno per migliorare loro stessi e per cancellare le loro sofferenze».
Come raccontare una storia in un film e uscire da parole come “clandestino”, “emigrato”, “extracomunitario”? Crialese ha provato a scrivere come se dovesse rivolgersi a un bambino, «forse per raggiungere il bambino che è in me». Ha cercato un linguaggio libero da pregiudizi, da paure. È tornato da Timnit e le ha chiesto di imbarcarsi su una nave immaginaria, quella della diffidenza verso chi arriva da solo su una “terraferma”, carico soltanto delle proprie speranze. Le ha proposto di reinterpretare alcuni momenti della sua vita, con l’intesa di poterla cambiare (per esempio, nel film arriva con un figlio), di poter riscrivere la sua storia. E le ha proposto l’incontro con un’altra donna, un’isolana, con la stessa voglia di andare, di ricostruire altrove, per migliorare se stessa, per aiutare suo figlio a crescere senza paura.
Dunque, straordinario affresco che parte da due dolori, fisico ed esistenziale, per superarli entrambi. La vita di Timnit, oggi nascosta in qualche città di un’Olanda da sempre più severa di noi nell’armonizzare l’immigrazione, è lì a dimostrare che un viaggio del genere è possibile, anche quando tutto sembra perduto.