Guida alla lettura
Il primo ineludibile dato è che – come riconobbe San Girolamo, padre della Chiesa vissuto fra il IV e il V secolo dopo Cristo – spiegare Giobbe «è come tentare di tenere nelle mani un’anguilla»: troppo ricco il suo messaggio, troppo numerose le sue sfaccettature. Di qui le innumerevoli interpretazioni, non di rado devianti e tese ad alimentare una mentalità doloristica che è quanto di più lontano si possa immaginare dallo spirito del racconto.
Ravasi osserva che il libro di Giobbe è un canto della miseria dell’esistenza, ma anche un approdo a Dio, un approdo «realizzato su quel terreno dove solitamente si registrano le sconfitte e le apostasie: il terreno del male»: è proprio quando l’uomo fa esperienza della sofferenza fisica e morale che più difficile gli riesce aprirsi alla fiducia e alla speranza in Dio. Ma la finissima osservazione di Ravasi procede oltre l’ambito della fede, e tocca anche la realtà dei non credenti: la forza nullificante del male è infatti universale, attraversa con violenza la vita di tutti e a tutti toglie il gusto per ciò che, in altri momenti, comunicherebbe serenità e pace. Lo possiamo testimoniare tutti: chi di noi, di fronte al dolore e – ciò che è ancora più atroce – di fronte all’impaurita anticipazione mentale del dolore, non ha sperimentato inquietudine, disagio, persino disgusto ed evitamento per le cose che di solito ama fare e che gli trasmettono un senso di compiutezza e di gioia? Può essere la lettura di un libro amato, una passeggiata in campagna, la frequentazione degli amici: in quei momenti di tensione estrema nulla ci attira, e cadiamo nel baratro di un non-fare che esprime il desiderio inconscio di non-esistere. Ben scrive, dunque, il poeta e politico francese Alphonse de Lamartine, vissuto nell’Ottocento, quando osserva che l’accento del libro di Giobbe «viene dal più profondo dei secoli ed è il primo e l’ultimo vagito dell’anima, di ogni anima».
Kierkegaard, Goethe, Melville, Dostoevskij, e poi Jung, Kafka, Camus, sino ai nostri Bacchelli e Pomilio: la rapida ma accurata carrellata di Ravasi rende davvero ragione del valore universale del racconto di Giobbe, e della sua influenza sulla spiritualità e sulla cultura di tutti i tempi.
Sono famose le parole di Gerolamo: «Spiegare Giobbe è come tentare di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la si preme, più velocemente sfugge di mano». E' difficile parlare del libro di Giobbe, della sua poesia, del suo messaggio, dello splendore dei suoi simboli, delle mille sfaccettature della sua composizione, della sua insonne presenza nella coscienza dell’umanità, delle molteplici e spesso devianti interpretazioni a cui è stato sottoposto. Troppo spesso ridotto a un canto della miseria umana e della “pazienza” con cui dev’essere accolta, il libro di Giobbe in realtà è un canto della miseria dell’esistere ma anche dello stupore della fede; è un grido continuo di impazienza ma è anche la celebrazione di un approdo a Dio, realizzato su quel terreno dove solitamente si registrano le sconfitte e le apostasie: il terreno del male.
Come premessa a questo “impossibile” profilo sintetico del libro vorremmo solo citare la testimonianza di un grande lettore di Giobbe, il filosofo danese ottocentesco Søren Kierkegaard, che nel “Vangelo delle sofferenze” e soprattutto nella “Ripresa” si è ininterrottamente alimentato spiritualmente a questo capolavoro biblico. Nella Ripresa leggiamo queste parole: «Se io non avessi Giobbe!... Non posso spiegarvi minutamente e sottilmente quale significato e quanti significati abbia per me. Io non lo leggo con gli occhi come si legge un altro libro, me lo metto per così dire sul cuore e in uno stato di chiaroveggenza interpreto i singoli passi nella maniera più diversa. Come il bambino che mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la lezione quando al mattino si sveglia, così la notte mi porto a letto il libro di Giobbe. Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima. Ora svegliandomi dal mio letargo la sua parola mi desta a una novella inquietudine, ora placa la sterile furia che è in me, ora mette fine a quel che di atroce vi è nei muti spasimi della passione» (trad. it. di A. Zucconi, Milano 1963, p. 117).
Giobbe è effettivamente una stella polare – come diceva il poeta francese Charles Péguy – nella storia del pensiero e della letteratura umana. Lo è anche in forme semplificate, come appare già nel Nuovo Testamento nella Lettera di Giacomo, che conia lo stereotipo (d’altra parte già noto al giudaismo) del “Giobbe paziente”: «Proclamiamo beati quelli che hanno perseverato: avete udito parlare della perseveranza di Giobbe e conoscete l’esito finale, opera del Signore, perché il Signore è ricco di bontà e misericordioso» (5,11). Questa tipologia dominerà la tradizione patristica: basti pensare ai 35 libri dei “Moralia in Job” di Gregorio Magno, composti tra il 579 e il 585, che tanta parte ebbero nella tradizione medievale. Giobbe sul letamaio, paziente e orante, è il modulo dominante di quasi tutta l’arte cristiana.
Ancora esterna rispetto al cuore tematico del libro è la ripresa dei prologhi in cielo e in terra da parte del celebre capolavoro “Faust” di Goethe. Diversa, invece, come si è visto, la meditazione di Kierkegaard che sempre più si avvicina al vero cuore della ricerca di Giobbe. Il mostro leviatanico del Male passa da Giobbe nell’allegoria del famoso romanzo “Moby Dick” di Melville (1851), mentre la discussione tra Ivan l’incredulo e il fratello monaco Alioša sul mistero del male nei “Fratelli Karamazov” di Dostoevskij (1879-1880) ripercorre certi itinerari della ricerca di Giobbe. La risposta che uno dei padri della psicoanalisi, Carl Gustav Jung indirizza a Giobbe (La risposta a Giobbe, 1952) tenta di capovolgere paradossalmente il senso del libro biblico: è Dio, l’«immorale», che dev’essere educato dal «morale» uomo Giobbe. La vicenda biblica è la filigrana della «storia di un uomo semplice», il Giobbe dello scrittore mitteleuropeo ebreo Joseph Roth (1930), e a Giobbe spesso attingono i personaggi di un altro scrittore ebreo di lingua jiddish, il Nobel 1978 Isaac Bashevis Singer. Senza Giobbe è incomprensibile la riflessione nella “Peste” (1947) del famoso scrittore francese Albert Camus, è impossibile leggere “Ateismo nel Cristianesimo” del filosofo tedesco marxista Ernst Bloch, è difficile comprendere tutti i meandri del romanzo “Il processo” di Kafka, non si può accostare il romanzo “Il coccio di terracotta” di Riccardo Bacchelli (1966), è impossibile percorrere l’opera “Natale” del 1833 dello scrittore Mario Pomilio (1983).
Tanto per fare un cenno solo a quest’ultimo testo, secondo la libera creazione di Pomilio, nella mente di Alessandro Manzoni prende corpo l’idea di un Giobbe, uno scritto che dovrebbe avere anche due tappe redazionali, la prima di dimostrazione e difesa dell’opera di Dio, la seconda affondata nel “silenzio” e nella “impronunziabilità” di Dio. Scriveva il poeta francese Alphonse de Lamartine: «Ho letto oggi tutto il libro di Giobbe. Non è la voce di un uomo, è la voce di un tempo. L’accento viene dal più profondo dei secoli ed è il primo e l’ultimo vagito dell’anima, di ogni anima».