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I "miracoli" della medicina: una lettura alla luce della Bibbia

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25/04/2012

Tratto da:
Paolo Ricca, I medici e la medicina: fanno davvero miracoli?, Riforma, del 27 gennaio 2012

Guida alla lettura

In questa originale riflessione Paolo Ricca, teologo della Chiesa Evangelica Valdese, affronta il tema del rapporto fra il bene e la fede, scardinando un pregiudizio radicato nella storia del Cristianesimo, secondo il quale solo chi crede in Dio può essere davvero buono e prendersi cura degli altri. Ne è conferma l’esempio di tante persone non solo oneste e giuste, ma che «sono anche veramente buone, fanno del bene al prossimo più che a se stesse, e fanno quelle che la Bibbia chiama “opere buone”, senza però riferirsi a Dio».
Questo avviene, secondo Ricca, perché «dove c’è speranza, dove c’è amore, Dio è all’opera, che lo si sappia o no». Si potrebbe aggiungere, in un’ottica squisitamente laica, che dove ci sono speranza e amore, i valori etici della solidarietà e del servizio possono essere pienamente realizzati anche prescindendo dall’idea che la vita scaturisca da una forza trascendente e identificantesi con il Bene assoluto.
Ma l’uomo, credente e non, è anche in grado ci fare veri e propri “miracoli”? Anche questa volta la risposta di Ricca è affermativa, e chiama in causa la medicina e i suoi progressi: come definire diversamente la possibilità che oggi abbiamo di vincere malattie che in passato erano non solo incurabili, ma comportavano anche una profonda solitudine e uno spietato isolamento sociale? In questo senso, conclude Ricca con notevole audacia, «i medici fanno in maniera permanente e sistematica quello che Gesù ha fatto per un tempo». Ciò comporta una conseguenza etica che fa piazza pulita della spiritualità doloristica che tanto spazio ha avuto (e ha) nel mondo cristiano: e cioè che ricorrere ai medici è sempre un diritto del malato e un atto di giustizia agli occhi di Dio, perché – come afferma il libro del Siracide – anche i medici sono stati creati dal Signore, per il bene di tutta l’umanità.
«Gesù, lo sappiamo, ha spezzato il legame tra malattia e colpa, cancellando l’idea che la malattia fosse conseguenza diretta del peccato, come pensavano, a esempio, gli amici di Giobbe (ma non Giobbe). La netta separazione tra malattia da un lato e peccato dall’altra rende possibile l’intervento del medico per la cura delle malattie... Su questo tema, vorrei porre queste domande: (1) Non è forse vero che, demandando anche ai medici la guarigione delle malattie, Dio abbia consentito all’umanità in generale (non solo a quella credente) di attuare quei principi di solidarietà e servizio ai quali sono chiamati i discepoli? (2) Siccome non tutti i medici sono cristiani o credenti, non è forse vero che l’umanità è stata in qualche modo autorizzata da Dio a compiere «opere potenti» anche indipendentemente dalla fede in lui? (3) Dal momento che le scienze mediche e la tecnologia hanno conosciuto in questi ultimi cinquant’anni un considerevole sviluppo, si può parlare di veri e propri miracoli compiuti dall’uomo, talora senza neppure essere sostenuti dalla fede?».
Lettera firmata


Le tre domande del nostro lettore sono, a ben guardare, due, perché la prima e la seconda sono due aspetti della stessa domanda: si può fare il bene senza riferirsi a Dio? La terza domanda invece affronta un problema diverso, quello del miracolo: che cosa può essere chiamato con questo nome? L’uomo è in grado ci fare «veri e propri miracoli»? Affrontiamo anzitutto il problema posto dalle prime due domande.
1. Questo problema lo formulerei così: è necessario essere credenti per fare del bene, per essere solidali con il prossimo e servirlo (in uno dei mille modi in cui questo può avvenire), per compiere «opere potenti», cioè cose straordinarie, a vantaggio degli altri? La mia risposta a questi interrogativi è «no», non è necessario essere cristiani o credenti per fare del bene, praticare la giustizia, essere buoni e agire bene, essere onesti, corretti e virtuosi, essere generosi e altruisti. Ciascuno di noi, credo, ha incontrato e conosciuto nella sua vita, persone non solo oneste, giuste, che non si sono approfittate del prossimo, non gli hanno fatto del male (nei mille modi in cui questo può avvenire), ma che erano anche veramente buone, hanno fatto del bene al prossimo più che a se stesse, hanno fatto e fanno quelle che la Bibbia chiama «opere buone» (Efesini 2, 10), senza però riferirsi a Dio, quindi non «nel Suo nome».
Non solo, ma tutti constatiamo, forse oggi più che in tempi passati, il pullulare di iniziative umanitarie di aiuto al prossimo in forme organizzate o anche a livello personale che va sotto il nome di «volontariato». Che molto spesso prescinde da qualsiasi riferimento a Dio: è cioè ideato e vissuto laicamente, ed è uno dei fenomeni più belli e promettenti della società contemporanea. C’è naturalmente anche, si può dire da sempre, un vasto volontariato cristiano, ma, appunto, non c’è solo quello, c’è anche un vasto volontariato laico, altrettanto dedito al prossimo quanto quello cristiano.
Inversamente, ciascuno di noi, se è membro di una comunità cristiana e la frequenta, quindi la conosce da vicino e non solo da lontano, sa per esperienza che in essa si possono trovare, accanto a cose molto belle, ammirevoli ed encomiabili, anche cose deplorevoli, molto poco cristiane (pettegolezzo, rivalità, meschinità, piccole invidie, vanità, conservatorismo, conformismo, tradizionalismo, settarismo, e altre cose ancora che rinuncio a enumerare, ma che purtroppo esistono). La comunità cristiana non è angelica, è umana, molto umana, ma spesso della vecchia umanità, e non della nuova che Gesù ha vissuto. Non per nulla essa confessa il suo peccato ogni domenica, anzi ogni giorno. I cristiani non sono molto migliori (talvolta non lo sono affatto) di coloro che cristiani non sono, sia perché non basta dirsi cristiani per esserlo, sia perché essere cristiani è un’impresa molto ardua e difficile da realizzare, che riesce a pochi, forse a nessuno.
Resta però la domanda: se è vero che Dio è perfetta bontà e benignità e dev’essere considerato il Bene assoluto dal quale provengono tutte le cose buone, i buoni pensieri e le buone azioni, come mai molte persone fanno il bene in tanti modi diversi senza fare riferimento a Dio? Non c’è forse bisogno di Dio per fare il bene? A questa domanda molto seria rispondo in due modi.
[a] Il primo è bene illustrato da un episodio evangelico, piccolo in sé, ma molto significativo: i discepoli, vedendo un esorcista che cacciava i demoni nel nome di Gesù, gli vietarono di farlo perché – dissero a Gesù – «non ti segue con noi». Ma Gesù rispose: «Non glielo vietate, perché chi non è contro di voi, è per voi» (Luca 9, 49-50). Cioè secondo Gesù non c’è bisogno di appartenere alla sua comunità per fare del bene, come lo faceva quell’esorcista, che liberava i malati dal male che li tormentava. È vero che quell’esorcista si serviva per la sua opera del «nome di Gesù». Dovrei qui spiegare che cosa potesse significare questa espressione per una persona che non seguiva Gesù e quindi, presumibilmente, non credeva in lui. Mi manca lo spazio per farlo. È però molto chiaro il significato dell’episodio, che è questo: l’opera di Dio nel mondo è molto più grande dell’azione dei cristiani e della chiesa, e che per compierla Egli si serve anche di persone che non si considerano cristiane e comunque non appartengono alla chiesa. E questo mi porta alla seconda risposta.
[b] Molti – abbiamo detto e constatiamo ogni giorno – fanno del bene senza credere in Dio e quindi senza riferirsi a lui. Ma agire «senza fede in Dio» o «senza fare riferimento a Dio» non vuol dire «senza Dio». Dio infatti opera in molti modi, non in uno solo. Opera principalmente in modo esplicito e manifesto, attraverso la sua Parola che, se accolta, suscita la fede e le opere della fede. Ma opera anche segretamente, attraverso il suo Spirito, che agisce nel cuore delle persone inclinandole al bene, all’amore e al servizio del prossimo, senza necessariamente rivelarsi a esse e condurle alla fede. Dio. Dio è anche presente in incognito. Se una persona ama e serve il prossimo, è gradita a Dio, anche se non lo conosce e quindi non si considera credente: lo dice chiaramente l’apostolo Pietro in Atti 10, 35.
Questo non significa che la fede non conti o che qui si voglia arruolare come cristiano (sotto l’etichetta di «cristiano anonimo») chi non vuole esserlo. Significa invece che, come ho detto, Dio agisce in molti modi nel mondo e che per lui la fede conta naturalmente molto, ma contano altrettanto la speranza e l’amore. Dove c’è speranza, dove c’è amore, Dio è all’opera, che lo si sappia o no. Il cristiano lo sa, ma non lo sbandiera, piuttosto ne rende lode a Dio, che è sempre più grande di come lo immaginiamo. Non direi, dunque, che Dio abbia «in qualche modo autorizzato l’umanità a compiere “opere potenti” indipendentemente dalla fede in lui», come dice il nostro lettore. In nessun caso Dio autorizza l’umanità a non credere in lui, neppure quando essa compie «opere potenti». L’opera di Dio è un’altra: non di autorizzare l’incredulità (che dilaga comunque!), ma di suscitare l’amore e la speranza anche in persone che non credono in lui. Se pratichi la giustizia, se ami il prossimo e lo servi in uno dei tanti modi in cui questo può avvenire, se semini speranza intorno a te e la trasmetti agli altri, specialmente a chi è sfiduciato e rassegnato, anche se non credi in Dio, non sei lontano da lui o meglio lui non è lontano da te.
2. Il nostro lettore però, nelle sue tre domande, si riferisce in modo specifico ai medici che – egli dice – non sono tutti «necessariamente cristiani», eppure compiono un’opera che non è fuori luogo definire «evangelica», perché è la stessa compiuta da Gesù il quale, come si sa, oltre a insegnare e predicare, «andava attorno per tutta la Galilea (...) sanando ogni malattia ed ogni infermità fra il popolo» (Matteo 4, 23). I medici fanno in maniera permanente e sistematica quello che Gesù ha fatto per un tempo, come segno del regno di Dio vicino. Ma la medicina esiste come scienza fin dai tempi di Ippocrate, vissuto all’incirca dal 460 al 377 a.C. (e in altre culture esiste anche da prima). Ogni medico è, in qualche modo, discepolo e successore di Ippocrate. Oggi poi, grazie alle possibilità straordinarie offerte da una tecnologia sempre più raffinata (si pensi a ciò che oggi è possibile fare nel campo dei trapianti di organi), e grazie ai grandi progressi fatti dalla ricerca scientifica su malattie fino a ieri considerate «inguaribili» (come il cancro) o su crisi dell’organismo umano un tempo quasi sempre fatali (come l’infarto), i medici riescono a compiere «veri e propri miracoli».
Il nostro lettore si chiede: è giusto esprimersi così? Sì, è giusto: si tratta di veri e propri miracoli, compiuti dall’uomo «talora senza neppure essere sostenuti dalla fede». Non solo la fede sposta le montagne, le sposta anche l’amore, anche la speranza. E che cos’è il Servizio (si noti la parola evangelica per eccellenza: «servizio»!) Sanitario Nazionale all’interno del quale avvengono di solito questi «veri e propri miracoli», se non amore del prossimo trasformato in istituzione sociale? E qual è la novità assoluta rispetto al passato? È che ora la società si occupa della tua malattia e se ne fa carico: la tua malattia non è più un problema solo tuo, com’era nell’antichità. Il progresso morale e civile, in questo campo, è stato immenso: anche questo un vero miracolo. Ma in tutto ciò, Dio, che cosa c’entra?
Risponde – mi sembra bene – un libro apocrifo dell’Antico Testamento, chiamato «Siracide», che dice quanto segue: «Onora il medico per le sue prestazioni, perché il Signore ha creato anche lui (...) Il Signore ha creato medicamenti dalla terra, l’uomo assennato non li disprezza (...) Dio ha dato agli uomini la scienza, perché fosse glorificato nelle sue meraviglie (...) Offri l’incenso e il memoriale (...) poi ricorri pure al medico perché il Signore ha creato anche lui» (38, 1-12).

Biografia

Paolo Ricca nasce a Torre Pellice (in provincia di Torino) nel 1936. Dopo aver conseguito la maturità classica a Firenze, studia Teologia a Roma, negli Stati Uniti e a Basilea (Svizzera), ove consegue il dottorato con una tesi sull’escatologia del Vangelo secondo Giovanni.
Consacrato pastore della Chiesa valdese nel 1962, esercita il ministero a Forano e a Torino, e segue il Concilio Vaticano II per conto dell’Alleanza Riformata Mondiale. Dal 1976 al 2002 insegna Storia della Chiesa e, per alcuni anni, Teologia Pratica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma.
Membro per quindici anni della Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Ginevra), opera in diversi organismi ecumenici ed è per due mandati presidente della Società Biblica in Italia.
Attualmente è professore ospite presso il Pontifico Ateneo Sant’Anselmo di Roma e dirige la collana “Lutero. Opere scelte” dell’editrice Claudiana di Torino.
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