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Portare il peso del dolore – 3: Paolo e la malattia

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05/06/2013

Tratto da:
Gianfranco Ravasi, Portare il peso del dolore, Edizioni San Paolo, 2013, p. 29-36

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Nella terza parte del volumetto “Portare il peso del dolore”, Gianfranco Ravasi parla della testimonianza che l’apostolo Paolo ha lasciato, nelle lettere, sul suo personale rapporto con la malattia: una testimonianza complessa, perché velata e allusiva, ed espressa – nelle sue implicazioni spirituali – con frasi che, se non correttamente inquadrate nel messaggio evangelico, rischiano di alimentare opinioni aberranti sulla sofferenza.
Ravasi chiarisce come Paolo non parli mai direttamente di malattia, ma di “debolezza” (in greco antico: asthéneia), scegliendo quindi un termine metaforico e al tempo stesso più ampio dal punto di vista semantico: nel concetto di “asthéneia”, infatti, possono rientrare i mali fisici ma anche quelli morali, il più minaccioso dei quali, nella logica biblica e cristiana, è rappresentato dall’orgoglio dello spirito, dalla presunzione di autosufficienza, dall’illusione di poter fare a meno di Dio.
In questo contesto, e solo in questo contesto, la malattia può assumere una valenza positiva e Paolo può arrivare a dire «Quando sono debole, allora sono forte», rallegrandosi del fatto che Dio non lo liberi dal “pungiglione” che lo tormenta: perché, osserva Ravasi, «l’annunzio evangelico nella sua efficacia non è frutto solo di strategie umane», e quella malattia che impedisce a Paolo di essere missionario a tempo pieno lo obbliga a restare con i piedi per terra, a non insuperbire e a coltivare la consapevolezza che l’efficacia dell’annuncio evangelico – nell’ottica di fede propria del credente – è in ultima analisi nelle mani di Dio.
Questa lettura arricchisce quanto osservammo nel luglio 2011, introducendo l’articolo di Luciano Manicardi su “Bibbia e sofferenza: quando una cattiva traduzione alimenta una spiritualità deviata”. Allora scrivevamo: «La celebre frase di Paolo contenuta nella seconda lettera agli abitanti di Corinto: «Quando sono malato, allora sono forte» (…) non significa che, in sé, la malattia sia sorgente o espressione di forza, e che vada dunque vista come un fatto positivo della vita, ma che – assunte nella fede in Cristo – la malattia, la sofferenza, e persino una preghiera di guarigione inesaudita, non hanno l’ultima parola sulla speranza dell’uomo».
In quel brano la prospettiva era individuale ed esistenziale; in questo, si allarga alla missione dell’uomo nella società. E avvertendoci che non tutto, nella vita, è sotto il nostro controllo, esprime una verità antropologica che, trascendendo ogni assunto di fede, ci riconduce alla nostra reale dimensione di esseri contraddistinti dal limite: nel lavoro come nell’impegno sociale, nella salute come nella malattia, nella ricerca di noi stessi come nelle relazioni interpersonali.
Fermiamoci qui, rispetto alle molteplici suggestioni che potrebbero affiorare attorno a una teologia cristiana della malattia, e puntiamo invece a offrire un piccolo contributo che forse comprende anche una curiosità, ma che si apre a una considerazione spirituale. Intendiamo riferirci alla testimonianza autobiografica dell’apostolo Paolo, nonostante che il lessico della malattia sia in lui del tutto assente, sostituito da quello più metaforico dell’asthéneia, cioè della debolezza. Infatti ai Galati (4,13-14), ad esempio, confessa: «Sapete che a causa di un’infermità (asthéneia) fisica annunciammo il vangelo a voi per la prima volta; e per quello che costituiva per voi una prova nel mio fisico non dimostraste disprezzo né nausea, ma accoglieste me come un inviato di Dio, come Gesù Cristo stesso».
Paolo, dunque, evoca gli esordi della sua predicazione in Galazia; nonostante la debolezza del suo fisico, fu accolto con grande affetto e solidarietà da quei cristiani con i quali poi avrà un rapporto difficile («Galati stolti», li apostrofa nella lettera). E questo avvenne perché essi manifestarono un’amicizia tale da essere pronti a «cavarsi gli occhi» per lui (4,15). La frase, che forse è uno stereotipo anche a noi noto, può però essere forse – secondo alcuni esegeti – un’allusione a una possibile sindrome oftalmica. Sta di fatto che lo stato di debolezza dell’Apostolo diventa a suo modo una forma di testimonianza: essa genera accoglienza calorosa non solo del malato, ma anche della sua parola. Si noti, infatti, l’iperbole della frase «accoglieste me come un inviato di Dio, come Gesù Cristo stesso». La malattia è, dunque, vista non come un ostacolo, bensì come un sostegno all’annunzio evangelico.
Il pensiero può correre – per un’eventuale attualizzazione – alla figura di Giovanni Paolo II, tormentato nel corpo, stravolto nel viso, reso muto nel linguaggio, ma capace di essere un’icona vivente della Parola crocifissa. Analoga testimonianza mi è caro rievocare attraverso la memoria di padre David Maria Turoldo: dopo che “il mostro” del cancro gli si era insediato nelle viscere assottigliandogli il corpo, la voce e il tempo di vita, egli aveva iniziato un ancor più vigoroso annunzio del messaggio evangelico. La malattia, dunque, può essere generatrice di fede e di amore. Essa rende l’attestazione del vangelo molto più incisiva e autentica, compiendo quanto lo stesso Paolo affermava nella prima lettera ai Corinzi (1,27): «Dio ha scelto ciò che è debolezza (asthené) del mondo per confondere i forti».
C’è, però, un altro passo particolarmente suggestivo nell’autobiografia dell’Apostolo, che dipinge se stesso come dotato di «una presenza fisica debole (asthenés)» e «una parola dimessa» (2 Corinti 10,10). Infatti nella stessa seconda lettera ai Corinzi egli confida che gli è stato conficcato «un pungiglione nella carne, un emissario di Satana che mi schiaffeggi, perché non insuperbisca. Tre volte ho pregato il Signore che lo allontanasse da me. Mi rispose: Ti basta la mia grazia; la mia potenza si esprime nella debolezza (asthéneia)» (12,7-9). In queste parole c’è indubbiamente tutta l’umanità dell’Apostolo che, come ogni sofferente, implora ripetutamente di essere liberato da quel male.
Cosa sia questo “pungiglione” non è esplicitato da Paolo che, così, ha lasciato via libera alle ipotesi degli interpreti. Quasi tutti i Padri antichi della Chiesa si sono orientati su una malattia fisica, fino alla svolta di san Gregorio Magno che nel suo Commento morale a Giobbe propose una lettura spirituale, cioè la presenza di un male dell’anima. L’esegesi moderna in prevalenza è ritornata sulla dimensione fisiologica, variamente ipotizzata, basandosi appunto sul dato autobiografico sopra citato della lettera ai Galati. Tuttavia, proprio anche per la connessione là delineata tra infermità ed evangelizzazione, non si deve abbandonare l’idea della presenza di una sfumatura anche spirituale, come ha suggerito Lucien Cerfaux, importante studioso francese di Paolo. La debolezza della carne sofferente è apparentemente un ostacolo all’annunzio del vangelo, è un’umiliazione perché impedisce di essere missionario a tempo pieno e con tutte le forze, è una sorta di ostacolo satanico.
Eppure ecco irrompere l’opera di Dio, che considera il terreno dell’asthéneia umana un luogo privilegiato per far brillare la potenza della grazia divina, come sopra già si diceva. L’annunzio evangelico nella sua efficacia non è frutto solo (e innanzitutto) di strategie umane, di abilità discorsiva, di propaganda umana. Lo ricordava lo stesso Paolo ai Corinzi allorché scriveva: «Quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza […]. Fui in mezzo a voi nella debolezza (asthéneia) e con molto timore e tremore; e la mia parola e il mio messaggio non ebbero discorsi persuasivi di sapienza, ma conferma di Spirito e di potenza» (1 Corinti 2,1.3-4). Quel Dio, che sceglie gli umili, i deboli e gli ultimi, riesce più agevolmente a rivelare la sua parola di salvezza attraverso la fragilità degli infermi. È il tipico paradosso evangelico degli ultimi che sono primi nel regno di Dio.
In questa luce si comprende la considerazione immediatamente successiva al passo sul “pungiglione nella carne”. Continua infatti l’Apostolo: «Mi compiaccio delle infermità, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni, delle angustie, a motivo di Cristo; perché quando sono debole (asthenô), allora sono forte» (2 Corinti 12,10). Contro una visione utilitaristica ed efficientista, com’è quella in cui siamo immersi, le parole di Paolo risuonano con tutta la forza provocatrice che esse avevano anche nel mondo greco, ove era la forma psicofisica perfetta a essere segno di pienezza, di autenticità, di divinità. Il cristianesimo, che ha nella “stoltezza” e nello “scandalo” della croce – per usare una celebre locuzione paolina – il suo centro vitale, riabilita ed esalta il sofferente, ribaltando ogni interpretazione di commiserazione.

Biografia

Gianfranco Ravasi, nato nel 1942 a Merate (Lecco) e ordinato sacerdote nel 1966, è stato per molti anni Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Nel settembre 2007, dopo essere stato nominato da Benedetto XVI Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra, è stato consacrato Arcivescovo Titolare di Villamagna di Proconsolare. A lungo docente di esegesi dell’Antico Testamento nella Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale e di Ebraico nel Seminario arcivescovile milanese, è membro di numerose accademie e istituzioni culturali italiane e straniere, oltre che autore di diversi volumi. Collabora con i quotidiani L’Osservatore Romano, Il Sole 24 Ore, Avvenire, con il settimanale Famiglia Cristiana e con il mensile Jesus. Il 20 novembre 2010 è stato creato Cardinale da Benedetto XVI.
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