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I Padri della Chiesa e la malattia – Parte 1

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02/07/2014

Luciano Manicardi, monaco di Bose

Guida alla lettura

In questo articolo, che pubblicheremo in due puntate, Luciano Manicardi illustra il modo in cui i Padri della Chiesa (con questo nome sono noti i teologi cristiani dell’antichità) affrontano il delicato problema della malattia, delle sue cause e del modo più corretto per affrontarla. Con una premessa: lo iato culturale che ci separa dal pensiero di quell’epoca è immenso e pressoché incolmabile, non solo per il diverso rapporto che l’uomo moderno ha con la fede e la dimensione spirituale dell’esistenza, ma anche per gli enormi progressi della scienza medica, che hanno completamente rivoluzionato il nostro modo di affrontare la sofferenza.
Quattro i punti rilevanti di questa prima parte della riflessione:
- in molti casi i Padri, come già l’uomo biblico, collegano l’insorgere della malattia al peccato dell’uomo: questo consente loro di inquadrare l’inspiegabile in categorie familiari e dunque comprensibili, dando all’uomo la possibilità non solo di sopportare il male, ma anche di superarlo nella misura in cui esso viene affidato all’onnipotenza di Dio, capace di perdonare i peccati e di sanare gli infermi. Questo è un dato religioso e antropologico che ormai ci è familiare, dal momento che lo abbiamo illustrato molte volte nelle pagine di questa rubrica;
- che rappresenti o meno una conseguenza del comportamento etico dell’uomo, la malattia rappresenta comunque «un appello per farne qualcosa, o meglio per fare qualcosa di sé attraverso la prova della malattia». A differenza del precedente, questo è un concetto che conserva una validità significativa anche per le donne e gli uomini di oggi: l’infermità può abbrutirci e spezzare le nostre relazioni con gli altri e con noi stessi, o può rappresentare l’occasione propizia per una più profonda comprensione della vita e dei limiti intrinseci della condizione umana, e dunque per una maturazione del nostro pensiero e della nostra capacità di rapportarci a noi stessi e agli altri;
- per questo motivo, e con grande acutezza, Gregorio di Nazianzo poté affermare che «noi non ammiriamo qualsiasi specie di salute e non detestiamo qualsiasi malattia»: esistono forme di salute che possono alienare la ragione dell’uomo, così come possono sussistere malattie che lo educano e lo rendono migliore, anche se questo, conviene ripeterlo, non avviene mai per un’azione diretta del dolore in sé (il dolore non redime mai), ma per il modo in cui noi affrontiamo il dolore, continuando ad amare e ad accettare di essere amati da coloro che ci stanno vicino;
- da tutto ciò discende che il malato può essere anche medico di se stesso, non tanto in senso fisiologico (ma quante volte la motivazione interiore consente di guarire o almeno di fronteggiare con efficacia la progressione della malattia?), quanto nel senso di trovare una «via di sapienza» attraverso le vicende della vita.
Nella seconda parte dell’articolo Manicardi illustrerà, fra l’altro, il pensiero dei Padri sull’importanza di lottare contro la malattia, con tutti i mezzi spirituali e medici a disposizione; le prime esperienze cristiane di accoglienza organizzata e cura degli ammalati; e lo sforzo di identificare cammini spirituali e di fede per ottenere dalla malattia frutti di bene.
Fare ricerche sul modo in cui i Padri della Chiesa hanno concepito il rapporto con la malattia non è facile non solo perché i testi patristici che ne parlano sono dispersi in una gran quantità di opere, ma soprattutto perché il mondo patristico, già infinitamente lontano dal nostro, lo è ancor di più su una simile tematica. La distanza culturale è abissale: la concezione antropologica e la visione del mondo proprie dei Padri appaiono remote all’uomo contemporaneo. L’enorme progresso medico-scientifico e lo sviluppo odierno delle tecno-scienze applicate all’ambito biomedico e dunque alla conoscenza del corpo umano, alla diagnosi delle malattie e alla loro cura rende quasi improponibile un rapporto tra ieri e oggi.
Non è tanto dunque sul piano dell’eziologia delle malattie che si colloca l’interesse che può avere per noi oggi il pensiero dei Padri circa la malattia. La connessione, già di origine biblica, della malattia con il peccato umano consente agli Antichi di inserirla in una visione del mondo (per loro impensabile senza un Dio creatore) e in un contesto che riesca ad accordare senso a ciò che altrimenti sfuggirebbe a ogni comprensione e a ogni presa. Inserendo l’insorgere di una malattia in un quadro religioso e legandolo alla caduta umana con il peccato di origine, i Padri riescono a inquadrare la malattia in categorie a loro familiari e rendono possibile farle fronte, sopportarla e anche combatterla, perché il Dio creatore è più forte delle potenze del male e capace di rimettere i peccati. Scrive Ireneo di Lione: «Tutti i malati ai quali erano capitate delle malattie per la loro trasgressione, Gesù li curava con una parola. Per questo diceva: “Ecco, sei guarito; non peccare più, perché non ti capiti qualcosa di peggio” (Gv 5,14), manifestando che le malattie avevano colpito gli uomini a causa del peccato di disobbedienza» [1].
Che poi, tra le svariate opinioni dei Padri, la malattia sia ritenuta sganciata dai modi di vita dell’uomo o sia vista come dipendente dai suoi comportamenti disordinati ed eticamente reprensibili («Vi sono malattie che nascono dalla negligenza e dal disordine» [2]), in ogni caso essa appare un campo di lavoro per l’uomo, un appello all’uomo per farne qualcosa, o meglio per fare qualcosa di sé attraverso la prova della malattia. L’impotenza a diagnosticare e a curare efficacemente tante malattie ha portato i Padri a sviluppare una visione della malattia in cui ha una funzione particolarmente significativa il lavoro che la persona, il malato, può fare su di sé a causa della malattia. Questa diviene così, per i Padri, strumento per il miglioramento etico e religioso dell’uomo. La visione religiosa dell’esistenza comporta infatti una concezione per cui salute e malattia non hanno senso in sé e per sé, ma in quanto portano l’uomo a compiere la volontà di Dio e a progredire nella virtù: siamo distanti da una visione meramente biologica dell’uomo e da quella “religione della salute” oggi imperante. Per i Padri, salute e malattia non vanno considerate in sé, ma relativamente al bene spirituale che permettono (o non permettono) all’uomo di raggiungere. Per cui, scrive Gregorio di Nazianzo: «Noi non ammiriamo qualsiasi specie di salute e non detestiamo qualsiasi malattia» [3]. La salute, definita da Basilio «l’equilibrio delle forze naturali» [4], è un bene relativo. Anzi «sia salute che malattia, in quanto non rendono buoni di per sé coloro presso cui esse si trovano» [5], sono realtà ambivalenti: la prima non è sempre e comunque positiva e la seconda non è sempre e comunque negativa. Di fronte all’insorgere di una malattia il soggetto malato viene posto in una situazione di vigilanza e di attenzione globale a sé e alla propria vita spirituale e morale che è inestricabilmente connessa con il proprio benessere o malessere psicofisico.
Che fare, dunque, quando una malattia si abbatte su una persona e la mette alla prova? Massimo il Confessore suggerisce di «ricercare la causa per cui essa si è prodotta e di trovarne così il rimedio» [6]. Paradossalmente, il malato è chiamato a essere anche medico, non tanto in senso fisiologico, ma sul piano della salute dell’anima, sul piano spirituale, del senso. Gregorio di Nazianzo formula una singolare espressione per indicare il compito che la malattia sollecita nell’uomo: «Fare la filosofia della sofferenza». Egli scrive in una lettera a un malato di nome Filagrio: «Non voglio che tu, Filagrio, che sei ottimamente istruito circa le cose divine, provi gli stessi sentimenti di un ignorante, che tu ceda con il tuo corpo, che tu gema per la tua sofferenza come se si trattasse di una cosa irrimediabile. Invece devi fare la filosofia della tua sofferenza… devi vedere nella malattia una pedagogia verso il tuo bene» [7]. Questo testo che parla della malattia come “pedagogia” è interessante perché il termine greco “paidagoghía”, qui usato, indica anche la cura del malato: la malattia fisica può curare una persona dalle sue malattie dell’anima, dalla sua patologia spirituale. “Fare la filosofia della sofferenza” significa allora meditare sulla malattia per trarne un giovamento spirituale. L’idea sottostante è che la malattia parla, ha un messaggio, e può insegnare qualcosa all’uomo, può istruirlo e dunque indicargli una via di sapienza. Ponendolo drammaticamente di fronte alla caducità, fragilità, limitatezza e mortalità proprie di ogni umano, la malattia può liberarlo dalle tentazioni dell’orgoglio e dall’illusione di onnipotenza e incamminarlo sulla via dell’umiltà. Grazie alla malattia l’uomo può rientrare in se stesso, ritrovando una visione realistica della realtà e una comprensione della vita come non-immediatamente disponibile.

Note dell'Autore

1) Ireneo di Lione, Contro le eresie V, 15, 2
2) Barsanufio e Giovanni di Gaza, Lettere 521
3) Gregorio di Nazianzo, Discorsi XIV, 34
4) Basilio, Omelie sull’Esamerone IX, 4, 2
5) Basilio, Lettere CCXXXVI, 7
6) Massimo il Confessore, Capitoli sulla carità II, 42
7) Gregorio di Nazianzo, Lettere XXXI, 3

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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