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Is depression an inflammatory disorder?

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25/10/2012

Prof.ssa Alessandra Graziottin
Direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica
H. San Raffaele Resnati, Milano

Raison CL, Miller AH.
Is depression an inflammatory disorder?
Curr Psychiatry Rep. 2011 Dec; 13 (6): 467-75
La depressione è una malattia infiammatoria? I processi infiammatori contribuiscono sempre all’insorgere della depressione, o solo in un sottogruppo di casi? Quali indicazioni terapeutiche potremo trarre dalle risposte che avremo date alle domande precedenti?
Sono questi i tre quesiti che si pongono C.L. Raison e A.H. Miller AH, ricercatori presso il Department of Psychiatry and Behavioral Sciences della Emory University School of Medicine, Atlanta, USA, in una stimolante e documentatissima review dei maggiori lavori disponibili sull’argomento.
La depressione è una patologia devastante, affligge non solo il paziente ma anche le persone che lo circondano. Colpisce indistintamente persone di tutti gli strati sociali, incurante del background culturale, dell’età e della condizione economica. Per ragioni non ancora note, la prevalenza di questa malattia è progressivamente aumentata negli ultimi decenni. In considerazione della riduzione della qualità della vita nei pazienti depressi e per l’impatto economico e sociale della malattia, l’acquisizione di nuove conoscenze finalizzate alla diagnosi e allo sviluppo di terapie più efficaci è della massima importanza.
Le alterazioni del sistema neurotrasmettitoriale monaminergico sono da lungo tempo riconosciute come elementi essenziali nella patogenesi della depressione. Tuttavia, la teoria monoaminergica della depressione ormai appare troppo semplicistica a fronte dei numerosi studi che ipotizzano una base ben più complessa ai cambiamenti dell’umore, del sonno, dell’appetito, dell’attività locomotoria e sessuale, della temperatura corporea, delle funzioni cognitive che caratterizzano la patologia.
Un numero crescente di pubblicazioni scientifiche suggerisce che l’infiammazione rappresenti il meccanismo fisiopatologico primario nello sviluppo delle malattie croniche. Anche se gran parte dell’attenzione sul ruolo dell’infiammazione in queste patologie è focalizzata su quelle cardiovascolari, sul diabete, cancro, e patologie neurodegenerative, vi è una crescente consapevolezza che le malattie neuropsichiatriche come la depressione maggiore dovrebbero opportunamente essere aggiunte all’elenco dei disturbi in cui i processi infiammatori siano significativamente coinvolti.
La maggior parte delle evidenze che legano la depressione maggiore all’infiammazione sono ricollegabili a tre osservazioni principali:
1. i pazienti affetti da depressione maggiore (MD) e che non presentano altre malattie, hanno vie infiammatorie attivate che si manifestano con un aumento di citochine pro-infiammatorie, chemiochine e molecole di adesione;
2. tra i pazienti affetti da malattie infiammatorie che riguardano il sistema nervoso centrale o quello periferico sono associate c’è una maggiore prevalenza di MD;
3. i pazienti trattati con citochine presentano un aumentato rischio di sviluppare la depressione maggiore.
E’ interessante notare che le anormalità descritte vengono in parte normalizzate da terapie con antidepressivi, confermando così il ruolo delle molecole infiammatorie nello sviluppo e nella progressione della malattia.
Questi risultati, osservano tuttavia Raison e Miller, non sono sufficienti a ritenere la MD primariamente una malattia “infiammatoria” perché l’infiammazione di per sé non è né necessaria né sufficiente per lo sviluppo dell’MD. E’ verosimile che l’infiammazione ed i suoi mediatori giochino un ruolo più subdolo agendo sia come fattore precipitante, cioè come trigger di una cascata di eventi che porta allo sviluppo di un “fenotipo depressivo”, sia come fattore di mantenimento che ostacola il recupero fisiologico dell’organismo.
Raison e Miller esaminano le evidenze a favore e a sfavore di queste teorie, articolandole in due gruppi distinti:
1) quelle che sembrano indicare come l’infiammazione contribuisca alla depressione solo in un determinato subset di pazienti;
2) quelle che spingono a ipotizzare che l’effetto depressivo dell’infiammazione sia molto più vasto e potente, e dipenda in ultima analisi dal grado di vulnerabilità che ogni singolo individuo manifesta sulla base delle complesse interconnessioni dei sistemi fisiologici implicati nell’eziologia della depressione maggiore: in altre parole, stando a questo secondo gruppo di evidenze, dal momento che i processi infiammatori sono integrati in più ampi sistemi fisici e mentali deputati a gestire l’adattamento agli stressor ambientali, è possibile che anche bassi livelli di infiammazione possano scatenare forme significative di depressione in individui caratterizzati da determinati pattern di vulnerabilità.
Gli autori, in particolare, descrivono un “super-network” relativo agli elementi della risposta immunitaria che sono amplificati, delineando anche i meccanismi attraverso i quali l’infiammazione porterebbe allo sviluppo del fenotipo depressivo. Tra questi spiccano:
- un’insensibilità al feedback inibitorio dei glucocorticoidi;
- una ridotta attività del sistema parasimpatico;
- una ridotta produzione del “brain derived neurotrophic factor” (BDNF) e di altri fattori trofici;
- un’aumentata attività della corteccia cingolata anteriore;
- un ridotto volume dell’ippocampo.
La meta-review di Raison e Miller, argomentata con eleganza e arguzia, si distingue per la capacità di far emergere i problemi tuttora irrisolti e le contraddizioni che emergono dalle evidenze sin qui raccolte.
In ogni caso, sebbene la DM non possa essere annoverata tra le malattie primariamente infiammatorie, lo sviluppo di nuove terapie o di adiuvanti alle terapie esistenti non possono non tener conto della presenza dei processi infiammatori tra le caratteristiche fondamentali della malattia. In particolare, potrebbero essere promettenti terapie volte a normalizzare l’attività delle cellule immunitarie che pilotano i processi infiammatori e neuroinfiammatori, come i mastociti e la microglia. La normalizzazione dell’attività dei mastociti e della microglia in condizione di stress può sicuramente concorrere a ridurre la secrezione di CRH indotta dalle citochine infiammatorie e quindi a ridurre la stimolazione per la sintesi ipotalamica di CRH. Con la normalizzazione delle attività mastocitarie e microgliali potranno anche essere regolati i livelli di fattori trofici, prevenendo i danni neuronali e promovendo l’omeostasi intersistemica che è alla base della corretta percezione degli stimoli stressogeni e del dolore secondario all’infiammazione.
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