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La morte nella Bibbia: un invito a sperare e a fidarsi

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04/11/2015

Tratto da:
Paolo De Benedetti, «L’incontro con Dio nella morte», in “Testimoni nel mondo” II (1976), p. 32. Ripubblicato in Comunità Monastica di Bose, Letture per ogni giorno, Elledici 2006, p. 548-549

Guida alla lettura

Dalla disperazione del nulla alla speranza della vita: può essere riassunta in questi termini la breve e intensa riflessione di Paolo De Benedetti, teologo e biblista di origine ebraica, sul modo in cui la Bibbia affronta il mistero della morte.
La visione primordiale delle Sacre Scritture esclude che il defunto possa incontrare Dio: e questo, come ha osservato Enzo Bianchi, rende ancora più lodevole l’etica dell’ebraismo più antico, in quanto la svincola da ogni prospettiva di “premio” ultramondano. Poi, a poco a poco, i racconti di resurrezione accendono una luce sull’abisso: il morto non può più nulla, nemmeno nei confronti di Dio, ma Dio gli si avvicina e lo riporta alla vita, perché «l’estrema impotenza provoca l’estrema compassione» e «il suo cammino incontro a noi non trova ostacolo neppure nel nostro non esserci più».
La Bibbia – De Benedetti lo sottolinea con forza – non spiega il mistero della sofferenza e della morte, e anche sull’aldilà è parca di informazioni. Ma ci invita a sperare e a fidarci: «Le parole bibliche non sono un romanzo edificante, raccontato a un ascoltatore che ha un altro destino». Quegli episodi di morte e resurrezione diventano allora – in un’ottica di fede – il nostro possibile racconto, il nostro medesimo destino.
La morte, nella Bibbia, non è amata e non è abbellita, perché la Bibbia non è ascetica né antimondana: spesso ritorna la sconsolata convinzione che i morti sono lontani dalle meraviglie di Dio. «Compi forse prodigi per i morti? O sorgono le ombre per darti lode? Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà negli inferi? Nelle tenebre si conoscono forse i tuoi prodigi, la tua giustizia nel paese dell’oblio?» [Sal 87 (88), 11-13)]; «Non nascondermi il tuo volto, perché io non sia come chi scende nella fossa» [Sal 142 (143), 7]. Il morto è dunque, nel pensiero dell’antico credente ebreo, colui che non incontra più Dio.
Ma la Bibbia stessa più volte, dopo aver dato voce a questa meditazione sulla morte così radicale e primordiale insieme, dice, o meglio lascia vedere che anche i morti incontrano Dio. Questo è il vero significato delle risurrezioni narrate dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Il morto è uno che non ha più la minima possibilità di iniziativa: se quindi l’incontro con Dio dipendesse anche per poco dall’uomo, il morto ne sarebbe escluso. Ma l’incontro avviene (prescindiamo qui dal discorso sui novissimi, a cui la Bibbia concede assai poco): l’estrema impotenza provoca l’estrema compassione. Così il più povero di tutti i “poveri”, quello che, per usare un’espressione del rito pasquale ebraico, «non sa neanche far domande», non è dimenticato dall’incontro con la vita, e la ripetuta asserzione dei salmi – «Non i morti lodano il Signore, né quanti scendono nella tomba» [Sal 113B (115), 17] – viene contraddetta dalla lode di chi era morto ed è di nuovo vivo.
Se l’ebraismo e il cristianesimo fossero religioni dualistiche, potremmo dire che con la risurrezione di un morto Dio si spinge fino ai confini del suo regno e strappa una vittima dalle mani del dio negativo e rivale. Ma il dio rivale non esiste: esiste invece il mistero di questo morire, che anche nella Bibbia trova, più che una spiegazione, un invito a sperare e fidarsi. Ed esiste la promessa, raffigurata dai racconti di risurrezione, che – come dice la preghiera ebraica delle Diciotto Benedizioni – Dio farà diventare vivi i morti, ossia che il suo cammino incontro a noi non trova ostacolo neppure nel nostro non esserci più.
Alcuni Salmi, per esempio il 113B (115) e il 142 (143), possono essere letti come un’esperienza di incontro con Dio nella morte: il salmista non è un risorto, ma uno che è stato vicino a morire; però quale grido meglio di questo esprime l’anelito alla vita dei morti? Nessuno ha toccato la bara dei nostri cari esclamando: «Dico a te, alzati!»; ma le parole bibliche non sono un romanzo edificante, raccontato a un ascoltatore che ha un altro destino. Perciò, senza vedere, senza sapere, noi crediamo che l’incontro avviene, che il figlio è restituito alla madre, la madre ai figli, e sentiamo una voce che dice: «Non piangere!».

Biografia

Paolo De Benedetti (Asti, 1927) è un teologo e biblista italiano. Nato in una famiglia di origine ebraica, è stato docente di Giudaismo alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e di Antico Testamento agli Istituti di scienze religiose delle Università di Urbino e Trento.
Tra i libri pubblicati spiccano: La morte di Mosè e altri esempi (Bompiani 1978, Morcelliana 2005); Ciò che tarda avverrà (Qiqajon 1992); Quale Dio? Una domanda dalla storia (Morcelliana 1996); E il loro grido salì a Dio. Commento all’Esodo (Morcelliana 2002); Nonsense e altro (Scheiwiller 2002); Teologia degli animali (Morcelliana 2007); Il filo d’erba (Morcelliana 2009).
Nel giugno 2011 ha ricevuto nell’ambito del Festival Internazionale della Cultura ebraica di Casale Monferrato il Premio OyOyOy!, precedentemente assegnato a Emanuele Luzzati, David Grossman, Abraham Yehoshua e Amos Oz.
De Benedetti ha concentrato alcuni suoi studi teologici sulla teologia degli animali, ossia sulla possibilità che gli animali e tutti gli esseri viventi possano rientrare nel piano di salvezza divino. La sofferenza patita dagli animali, la loro “intrinseca fragilità”, fanno intuire al teologo la possibilità di un riscatto finale: «Io credo che l’animale, compagno di tante solitudini, di tante tristezze, in misura varia secondo la sua coscienza – affermo e ripeto “coscienza” – ci accompagnerà anche nell’altra vita» (Teologia degli animali, 5).
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