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La sepoltura dei morti, segno di continuità della vita

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01/11/2017

Tratto da:
Enzo Bianchi, Chi non va nel vento, Avvenire, 1 novembre 2015

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

In questa riflessione Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose, traccia una breve storia del culto dei morti e della pratica della sepoltura. Una prassi che risale all’uomo di Neanderthal e giunge fino a noi, attraverso le significative esperienze di popoli come gli Egizi e gli Ebrei; senza però dimenticare la straordinaria sensibilità degli antichi Greci, testimoniata dalle parole immortali di Simonide per i caduti alle Termopili: «Dei morti alle Termopili gloriosa è la sorte, bello il morire, la tomba è un altare; invece di lamenti, memoria; il compianto è elogio; tal veste funebre né la ruggine, né il tempo che tutto doma oscurerà».
Custodire le spoglie dei defunti in un luogo riconoscibile, osserva Bianchi, è un segno necessario per la vita più che la morte: alimenta la memoria, incarna il sentimento di un legame fra chi muore e chi resta su questa terra, testimonia la fede nel divino, esprime in modo concreto e visibile la speranza in una vita oltre la vita, auspicio che diventerà centrale con l’avvento del cristianesimo.
In questo contesto trova senso e pregnanza l’«Eterno Riposo» che molti di noi hanno imparato da bambini: si chiede di riposare nella pace perché «la vita è un duro mestiere», e si chiede la luce perpetua di Dio come espressione dello “shalom”, della comunione perfetta con Cristo e con il Padre.
Pace e riposo: una condizione che tutti – credenti e laici – possono augurare a chi ci ha lasciato, nel momento stesso in cui coltiviamo la memoria dell’amore vissuto nei giorni della vita terrena. Ma che dobbiamo coltivare già in questo mondo, cercando e donando la pace a chi ci circonda, facendoci uomini e donne di luce e di speranza contro il dolore e la fatica di vivere.
E’ giunto l’autunno e per la nostra terra inizia un tempo di “riposo” che a volte può sembrare anche un tempo di morte: gli alberi lasciano cadere le loro foglie che, colorate di festa, scendono danzando fino a raggiungere la terra. Avanza il freddo, la notte si fa più lunga, nebbie e brume rendono debole, diafana la luce del sole. E’ in questa stagione, significativamente dopo gli ultimi raccolti, che celebriamo la memoria dei morti, di uomini e donne nati e vissuti sulla nostra terra e che ora hanno nuovamente raggiunto quella terra da cui sono stati tratti.
Sì, per i viventi è necessario fare memoria, ricordare, evocare quelli che non sono più accanto ma che hanno fatto parte della loro vita e hanno lasciato in loro tracce diverse nella mente e nel cuore. Sappiamo che la sepoltura e le tombe per i morti risalgono a cinquantamila anni fa, all’uomo di Neanderthal: il corpo del morto non era abbandonato in preda agli animali o alle intemperie ma veniva messo in una grotta, sotto terra, adagiato in una posizione di riposo e attorniato da pietre e oggetti che diventavano come un segno – e forse anche un’offerta – lasciato dai vivi per il morto. Anche l’homo sapiens, nostro antenato in Europa, seppelliva i suoi defunti, in modo ancor più ricco di offerte e ornamenti.
Perché questo bisogno, che differenzia in modo evidente l’essere umano dagli animali, i quali abbandonano il cadavere senza particolari attenzioni? Non potremo mai dare una risposta soddisfacente, tuttavia questo gesto del seppellimento indica una cura, il sentimento di un legame tra chi è morto e chi vive, un bisogno di ricordare il corpo della persona scomparsa e di ringraziarlo con doni. Forse in tutto questo cerimoniale antichissimo albeggiava già una speranza riguardo alla morte: che questa non fosse l’ultima parola e che si potesse attendere un “oltre la morte”, un “al di là” della morte. Così in Egitto la sepoltura, la tomba, il ricordo dei morti diventerà uno dei fondamenti della cultura di quel popolo.
Quanto all’ebraismo, fin dalla sua origine abramitica è attestata la preoccupazione di discernere un luogo per deporre chi è morto, il desiderio di possedere una tomba. Abramo, il padre dei credenti cui Dio ha promesso una “terra”, in realtà muore senza possedere terra, eccetto un campo con una caverna, quella di Macpela, comperata dagli hittiti per seppellire sua moglie Sara. E lui stesso troverà lì sepoltura (cf. Gen 23). Nella storia di salvezza è importante questa volontà di Abramo di avere un sepolcro, testimonianza che un uomo, una donna hanno vissuto su questa terra, hanno avuto legami con chi è loro sopravvissuto. Questo ancora oggi costituisce una memoria che rende consapevoli che ciascuno di noi è preceduto da altri e che vi è continuità tra le generazioni. Sepoltura e tomba per i morti sono un rito “religioso”, cioè che “rilega”, unisce l’individuo alla comunità umana: sono quindi segni necessari per la vita più che per la morte.
Il cristianesimo – generato dal grembo dell’Antico Testamento e dall’evento della risurrezione di Gesù, vittoria della vita sulla morte – ha dato un significato ancora maggiore alla sepoltura e alla tomba. Il corpo di chi muore è stato tempio dello Spirito santo, membro del corpo del Signore Gesù Cristo. Ed è destinato alla risurrezione, come afferma la professione di fede proclamata da ogni cristiano: «Credo alla risurrezione della carne e alla vita per sempre»! Per questo la chiesa ha una liturgia per la morte del cristiano e per la sua sepoltura, per questo i cristiani hanno onorato più di altre culture le spoglie mortali, per questo hanno voluto attraverso il segno di una tomba, semplice o monumentale, fare memoria di chi è morto e renderlo presente nell’intercessione di tutta la comunione dei santi del cielo e della terra. (…)
Ecco l’importanza di pregare per i morti con le semplici espressioni del requiem che un tempo tutti conoscevano a memoria, anche in latino: «L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce eterna, riposino in pace». Preghiera semplice e breve, ma che esprime tutto il necessario per fare memoria dei morti davanti al Signore della vita. Chiediamo riposo, perché la vita è un duro mestiere, accompagnato da fatiche: infatti, anche se si ama questa terra sulla quale Dio ci ha chiamati e posti, il viverla genera una stanchezza che invoca riposo. Riposare non è così facile, eppure è necessario: riposare anche dalla lotta di resistenza alle tentazioni spirituali… La vita del cristiano è un combattimento spirituale, a volte durissimo, e si giunge a un certo punto della vita in cui si è stanchi… Ecco allora la promessa: la lotta contro il male sarà vinta e «i morti si riposeranno dalle loro fatiche» (Ap 14,13). E su di loro possa risplendere la luce per sempre che è Gesù Cristo, il primogenito della creazione, il fratello di ogni essere umano, colui che, essendo Dio, si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio. Essere nella luce significa essere nella comunione con lui per sempre, addirittura essere «partecipi della vita di Dio» (2 Pt 1,4).
Quando noi, ancora in vita, pensiamo con amore ai nostri morti, cosa possiamo desiderare per loro, cosa possiamo chiedere al Signore? Che conoscano lo shalom, la pace che è vita perenne e gioia senza fine. La memoria dei morti ci chiede di estendere la festa della comunione dei santi, celebrata il giorno prima, anche a loro: comunichiamo tutti in uno, Gesù Cristo, il risorto da morte, il Vivente per sempre.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. E’ stato priore dalla fondazione del monastero sino al 25 gennaio 2017: gli è succeduto Luciano Manicardi. La comunità oggi conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
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