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Orfeo ed Euridice, l'amore oltre la morte

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21/10/2015

Tratto da:
Publio Virgilio Marone, Georgiche, traduzione di Luca Canali, BUR, Milano 1983.
In: Giulio Guidorizzi, Il mito greco. Volume primo: Gli dèi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2009

Guida alla lettura

In questo meraviglioso brano poetico, tratto dalle Georgiche e magistralmente tradotto da Luca Canali, Virgilio narra la triste vicenda di Orfeo ed Euridice.
Orfeo è una mitica figura di cantore e sciamano: suonava meravigliosamente la cetra, al punto da incantare gli animali feroci e smuovere le pietre. La sua sposa Euridice era morta, trafitta da un serpente, mentre cercava di sfuggire all’assalto amoroso del pastore Aristeo. Orfeo scese nell’oltretomba e suonò in modo così commovente da ammaliare le ombre e i mostri dell’Ade. Persino il re dei defunti e l’implacabile Persefone s’impietosirono e acconsentirono a rimandare Euridice fra i vivi, a condizione che lo sposo non si voltasse a guardarla prima che fossero giunti a casa. Ma Orfeo, proprio sulla soglia della luce, fu preso da un’improvvisa inquietudine: si voltò e perse l’amata per sempre. Il suo dolore fu inconsolabile: tornato fra i vivi rifiutò l’amore di ogni altra compagna, sinché le donne di Tracia, folli seguaci di Dioniso, offese per i suoi rifiuti, lo fecero a pezzi e ne dispersero i resti. La testa continuò a cantare anche dopo lo smembramento: portata al mare dal fiume Ebro, giunse all’isola di Lesbo dove fu accolta e sepolta, ma seguitò a rendere oracoli. Alla figura del mitico cantore è legato il movimento religioso detto “orfico”, che attraverso riti segreti prometteva la salvezza dell’anima dopo la morte.
La vicenda dei due infelici sposi era nota sin dall’epoca arcaica, ma è entrata nella coscienza letteraria europea attraverso i poeti latini Virgilio e Ovidio, che – ponendo in secondo piano il senso misterico e iniziatico dell’evento (il viaggio dell’anima nel regno dell’oltretomba) – l’hanno cantata come una struggente storia d’amore e di morte.
I versi di Virgilio sono attraversati da una profonda commozione e da un vivo senso della grandezza dell’amore umano: indimenticabili le immagini della nostalgia che afferra il giovane dopo la morte della donna («cantava a se stesso di te, dolce sposa, di te / sul lido deserto, di te all’alba, di te al tramonto») e della disperazione dopo l’infruttuosa discesa agli inferi («per sette mesi continui egli pianse / ... come all’ombra di un pioppo un afflitto usignolo / lamenta i piccoli perduti, che un crudele aratore / spiandoli sottrasse implumi dal nido: piange / nella notte e immobile su un ramo rinnova il canto, / e per ampio spazio riempie i luoghi di mesti lamenti»); impressionante l’immagine della testa che, staccata dal corpo, continua a cantare la sventurata sposa; cupa e drammatica la visione dei morti che si affollano intorno al cantore («venivano tenui ombre e parvenze private della luce, / quante sono le migliaia di uccelli che si celano tra le foglie, / quando Vespro o la pioggia invernale li caccia dalle montagne, / madri e uomini, e corpi privi di vita / di magnanimi eroi, fanciulli e giovinette ignare di connubio, / giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei genitori»); toccanti le parole con cui Euridice porge l’estremo saluto allo sposo («Ora addio. Vado circondata da un’immensa notte, / tendendo a te, ahi non più tua, le deboli mani»).
Il mito di Orfeo ed Euridice ha ispirato la letteratura tutti i tempi: dal Poliziano a Rilke, da Apollinaire a Pavese; e, nella pittura, Tintoretto, Rubens, De Chirico. In musica, una delle opere più belle è l’Orfeo di Claudio Monteverdi, sullo splendido libretto di Alessandro Striggio. Ma in particolare vogliamo ricordare la parole immortali del poeta latino Ovidio che, nelle “Metamorfosi”, dopo la morte del giovane, ci offre finalmente un’immagine di serenità, nella dolcezza e nella sicurezza dell’amore ritrovato per sempre: «L’ombra discende sotto terra, e riconosce ciascuno / dei luoghi che vide un tempo e, cercando Euridice / la trova nei campi delle anime pie e l’abbraccia voluttuosamente. / Passeggiano insieme unendo i loro passi. / Ora la segue, ora le sta davanti, / e ormai sicuro si volta a guardare la sua Euridice».

[Commento e note liberamente tratti e integrati da Giulio Guidorizzi, op. cit., pag. 76 e 1194-1196]
«È vero, ti travagliano le ire di un nume [1]; paghi
una grande colpa. Ti suscita questa punizione,
se i fati non si oppongono, Orfeo, ingiustamente sfortunato,
e duramente infierisce a causa della sua sposa rapita.
Quella, mentre ti fuggiva trafelata lungo il fiume,
non vide, fanciulla moritura, seguendo il greto,
nell’erba alta davanti ai suoi piedi un orribile serpente
.
La schiera delle Driadi, sue coetanee [2], riempirono di grida
le cime dei monti; piansero le rocche del Rodope
e l’alto Pangeo e la marzia terra di Reso
e i Geti e l’Ebro e l’attica Oritia. Egli, Orfeo,
cercando di consolare con la cava testuggine il suo amore disperato,
cantava a se stesso di te, dolce sposa, di te
sul lido deserto, di te all’alba, di te al tramonto
.
Entrò persino nelle gole tenarie [3], profonda porta
di Dite [4], e nel bosco caliginoso di tetra paura,
e discese ai Mani [5], e al tremendo re ed ai cuori
incapaci di essere addolciti da preghiere umane.
Colpite dal canto, dalle profonde sedi dell’Erebo,
venivano tenui ombre e parvenze private della luce,
quante sono le migliaia di uccelli che si celano tra le foglie
,
quando Vespro o la pioggia invernale li caccia dalle montagne,
madri e uomini, e corpi privi di vita
di magnanimi eroi, fanciulli e giovinette ignare di connubio,
giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei genitori:
li imprigiona intorno la nera melma e l’orrido canneto
di Cocito, e l’infausta palude dall’onda morta,
e li serra la Stige aggirandoli nove volte.
S’incantarono persino le dimore e i tartarei recessi della Morte,
e le Eumenidi con i capelli intrecciati di livide serpi,
e Cerbero tenne le tre bocche spalancate, e la ruota
su cui gira Issione si fermò con il vento.
E già ritraendo i passi era sfuggito a tutti i pericoli,
e la resa Euridice giungeva alle aure superne
, seguendolo
alle spalle (Proserpina aveva posto una tale condizione),
quando un’improvvisa follia colse l’incauto amante,
perdonabile invero, se i Mani sapessero perdonare: si fermò,
e proprio sulla soglia della luce, ahi immemore, vinto
nell’animo, si volse a guardare la sua diletta Euridice
.
Tutta la fatica dispersa, e infranti i patti del crudele tiranno,
tre volte si udì un fragore dagli stagni dell’Averno [6].
Ed ella: «Chi ha perduto me, sventurata, e te, Orfeo?
Quale grande follia? Ecco i crudeli fati
mi richiamano indietro e il sonno mi chiude gli occhi vacillanti.
Ora addio. Vado circondata da un’immensa notte,
tendendo a te, ahi non più tua, le deboli mani
».
Disse e subito sparve, via dagli occhi,
come tenue fumo misto ai venti,
né più lo vide che invano cercava di afferrare l’ombra
e molto voleva dire
; né il nocchiero dell’Orco [7] permise
che egli attraversasse di nuovo l’ostacolo della palude.
Che fare? E dove andare, perduta due volte la sposa?
Con quale pianto commuovere i Mani, quali numi invocare?
Ella certo navigava ormai fredda sulla barca stigia.
Raccontano che per sette mesi continui egli pianse,
solo con se stesso sotto un’aerea rupe presso l’onda
dello Strimone deserto, e narrava la sua storia nei gelidi antri,
addolcendo le tigri e facendo muovere le querce con il canto:
come all’ombra di un pioppo un afflitto usignolo
lamenta i piccoli perduti, che un crudele aratore
spiandoli sottrasse implumi dal nido
: piange
nella notte e immobile su un ramo rinnova il canto,
e per ampio spazio riempie i luoghi di mesti lamenti.
Nessun amore o nessun connubio piegò l’animo di Orfeo.
Percorreva solitario i ghiacci iperborei e il nevoso Tanai,
e le lande non mai prive delle brine rifee [8],
gemendo la rapita Euridice e l’inutile dono di Dite.
Spregiate dalla sua fedeltà le donne dei Ciconi [9],
fra i riti divini e notturne orge di Bacco,
fatto a brani il giovane lo sparsero per i vasti campi.
E ancora mentre l’eagrio Ebro [10] volgeva tra i gorghi
il capo staccato dal collo marmoreo, la voce da sola
con la gelida lingua, “Euridice, ahi sventurata
Euridice”, invocava mentre la vita fuggiva:
Euridice echeggiavano le rive da tutta la corrente del fiume».

Note al testo

1) A parlare è il dio marino Proteo, a cui Aristeo si è rivolto per capire le ragioni dell’epidemia che ha ucciso le sue api: si tratta del castigo inflittogli dagli dèi per la tentata violenza su Euridice e la morte della fanciulla.
2) Le Driadi sono ninfe dei boschi.
3) Sul capo Tenaro, in Laconia, sorgeva un tempio dedicato a Poseidone, dentro una grotta da cui si poteva accedere all’oltretomba: era una delle tante “porte dei morti” della geografia mitica dei Greci.
4) Dite è il dio degli inferi, noto anche come Ade in greco, e Plutone in latino.
5) I Mani sono i fantasmi dei defunti.
6) L’Averno è un lago della Campania, allora ritenuto uno degli ingressi dell’oltretomba: per estensione, designava tutto il regno dei morti.
7) Il nocchiero dell’Orco è Caronte, figlio dell’Erebo (“oscurità”) e della Notte, a cui spettava il compito di traghettare i morti negli inferi.
8) I luoghi più freddi del mondo non fermano il vagare disperato di Orfeo. I ghiacci iperborei rappresentano per antonomasia il lontano Settentrione; il Tanai è l’attuale Don; i monti Rifei intersecavano le regioni della Scizia e della Sarmazia, le attuali Romania e Ucraina.
9) I Ciconi sono un popolo della Tracia le cui donne – seguaci invasate di Bacco (Dioniso) – fanno a pezzi Orfeo, colpevole ai loro occhi di rifiutare ostinatamente l’amore femminile. Lo “sparagmós”, ossia lo smembramento della vittima sacra, era un tratto peculiare proprio dei riti orgiastici di Dioniso.
10) L’Ebro è detto “eagrio” per il suo legame con il dio-fiume Eagro che, seconda una versione del mito, era il padre di Orfeo.

Biografia

Come molti altri poeti e letterati dell’età di Augusto, anche Publio Virgilio Marone proveniva dalla Gallia Cisalpina. Nato ad Andes vicino a Mantova, sul Mincio, il 15 ottobre del 70 avanti Cristo, da una famiglia di agiati proprietari terrieri, fu avviato agli studi prima nella vicina Cremona, poi a Milano, il maggior centro di cultura dell’Alta Italia. Di lì, intorno ai vent’anni, si trasferì a Roma, per perfezionarsi presso maestri famosi: frequentò la scuola del retore Epidio e approfondì la conoscenza del greco con Partenio. In quell’ambiente fece i suoi primi tentativi poetici. Erano gli anni dell’assassinio di Clodio, della rottura fra Pompeo e Cesare, della guerra civile, della dittatura cesariana.
Verso il 45 Virgilio lasciò Roma e si recò nei dintorni di Napoli, alla scuola degli epicurei Sirone e Filodemo. In quel periodo maturarono definitivamente le sue scelte di vita: dalla retorica alla poesia, dalla pratica forense (trattò una sola causa, senza soddisfazione) alla filosofia, dalla vita concitata della capitale al tranquillo isolamento di Posillipo, alla ricerca della sapienza.
Sul piano poetico, dopo incerti inizi sulla scia di Catullo e Lucrezio, Virgilio rompe con il passato e fra il 41 e il 39, con le Bucoliche, dà vita al genere – nuovo per Roma – della poesia a sfondo pastorale, nella quale il poeta trasfonde però la sua visione del mondo presente, travagliato da un declino apparentemente inesorabile, e la sua speranza per il futuro. Le Georgiche, composte fra il 37 e il 30, sono un poema didascalico sul lavoro dei campi, sulla coltivazione della vite e dell’olivo, sull’allevamento e sull’apicoltura: ma sanciscono anche la piena adesione del poeta al nuovo mondo che Ottaviano, il futuro Augusto, sta costruendo e che incarna un ideale di vita impegnata, alacre e operosa. L’Eneide infine, composta tra il 29 e il 19, narra la storia di Enea, esule da Troia e fondatore della gens Iulia, che darà vita a Roma e alla sua grandezza: poema di bellezza vertiginosa e dalla fortuna immortale, resterà l’espressione latina più matura della grande tradizione epica inaugurata dagli aedi greci.
Virgilio morì a Brindisi nel 19 a.C., al ritorno da un viaggio in Grecia. Coerente con il perfezionismo formale che ne aveva sempre ispirato l’opera, poco prima di spirare chiese agli amici Plozio Tucca e Vario Rufo di distruggere il manoscritto ancora incompleto dell’Eneide. Ma i due non obbedirono: e consegnarono il codice all’imperatore, che ne ordinò la pubblicazione, donando al genere umano un capolavoro di importanza incalcolabile per la storia dell’arte e della cultura.
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