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Resurrezione dei morti: la parola del Vangelo e la nostra esperienza

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09/04/2014

Tratto da:
Paolo Ricca, Una domanda “tosta” ma legittima sulla risurrezione, Riforma, 25 novembre 2011

Guida alla lettura

Paolo Ricca, teologo della Chiesa Evangelica Valdese, sviluppa una serie di riflessioni sulla possibilità, per chi ha fede, di compiere cose normalmente impossibili, come – secondo un’autorevole parola di Cristo (Mt 17,20) – spostare le montagne. Un’impossibilità che raggiunge il suo vertice nella pratica anti-naturale per eccellenza, la resurrezione dei morti: un evento che tutti abbiamo sognato almeno una volta nella nostra esistenza, di fronte al corpo senza vita di una madre, di un padre, di un fratello, di una persona amata. Si può dire che risorgere, e soprattutto veder risorgere qualcuno, è il sogno di tutti noi, nel momento in cui la morte segna la fine dei nostri affetti. Ma l’esperienza ci insegna che i morti, purtroppo, non tornano indietro, neppure fra chi crede profondamente in Dio.
Sullo sfondo di questo dato di fatto, e prendendo spunto da una lettera al periodico Riforma, Ricca cerca di rispondere a due domande: come mai la fede dei cristiani è così piccola da non essere in grado di risuscitare nessuno? E cosa significa, esattamente, la parola “risuscitare”? E’ la “semplice” rianimazione di un cadavere, o indica qualcosa di ancora più grande e sconvolgente?
La prima e istruttiva considerazione di Ricca, formulata quasi di sfuggita, è che «la risurrezione dei morti è una prerogativa esclusiva di Dio». Un fortissimo richiamo al realismo, dunque, che invita i cristiani a cercare in altri ambiti quell’impossibile che, attraverso la fede, può essere reso possibile. La seconda, conseguente considerazione è che le cose impossibili che, per fede, diventano possibili, non sono solo quelle portentose come una risurrezione dai morti: «Ce ne sono tante altre, meno eccezionali ma non meno prodigiose, che succedono nella vita di tutti i giorni». Ciò che infatti è veramente decisivo nell’esistenza di un cristiano non è il miracolo in sé, ma l’amore che lo rende possibile: e «anche l’amore, tante volte, sposta le montagne». Detto questo, e giungiamo così alla terza considerazione, le parole e gli atti di Cristo ammoniscono a non abituarsi a contare su Dio «solo per le cose ordinarie della vita»: esistono anche cose straordinarie che il credente può chiedere e che a volte accadono contro ogni previsione. Vale la pena sottolineare, ancora una volta, come quelle rese possibili dall’amore appartengano proprio a questa categoria.
In sintesi, che cosa si possono aspettare una persona credente e una non credente rispetto all’impossibile che spesso governa la nostra vita? Più o meno le stesse cose: e cioè che la “fede” – che non è solo abbandono a Dio, ma anche fiducia in se stessi, nei propri valori, negli altri – può salvare le situazioni più chiuse e disperate; che la “resurrezione”, se cercata con amore, può ridare vita alle relazioni ferite e ai sogni infranti; che, pur nella durezza dell’esistenza, non ci si deve mai negare la dimensione del desiderio e della speranza, anche quando tutto sembra precipitare e perdere senso.
E la vera resurrezione dei morti, che posto conserva in tutto ciò? Va detto con chiarezza: qui la differenza fra chi crede e chi non crede si fa abissale e incolmabile. Per chi non crede, infatti, la morte è un trapasso a senso unico governato dalle leggi della biologia: solo le opere e l’amore, dato e ricevuto, possono mantenere viva la memoria dei trapassati. Per chi crede, invece, la speranza della resurrezione è rinviata alla fine dei tempi, quando «il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e separerà gli uni dagli altri» (cfr. Mt 25,31-32) e «se ne andranno, i malvagi al supplizio eterno, i giusti alla vita eterna» (cfr. Mt 25,46). Qualunque cosa significhino davvero queste parole terribili ed enigmatiche, sta qui la differenza cristiana.
“Nei Vangeli, più volte Gesù assicura che chi crede in lui risusciterà i morti: ma in duemila anni non c’è un solo morto risuscitato. Ci sono stati personaggi illuminati che hanno cambiato la Chiesa, che hanno compiuto azioni prodigiose, ma a tutt’oggi ci deve ancora essere un morto risuscitato. Eppure Gesù dice: «Se avete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: Passa di qua là, e passerà; e niente vi sarà impossibile» (Matteo 17,20; Giovanni 14,12). L’interrogativo allora è: non sarà che quando Gesù dice che chi crede in lui risusciterà i morti, intende per risurrezione qualcosa di diverso dalla rianimazione di un cadavere?”.
Giovanni V.


Quando il direttore di Riforma mi ha trasmesso questa lettera pubblicata, l’ha accompagnata con queste parole: «Caro Paolo, eccoti una domanda “tosta”». Tosto vuol dire duro, resistente, difficile da piegare, e può anche significare sfacciato (ad esempio, nell’espressione “faccia tosta”). Una domanda tosta è quella alla quale, almeno a prima vista, non è facile rispondere. Ora, la domanda posta dal nostro lettore è sì “tosta”, ma non impertinente: al contrario è assolutamente legittima e merita ogni considerazione. Ma qual è la domanda? Essa nasce da una premessa, che è questa: «Nei Vangeli, Gesù più volta assicura che chi crede in lui risusciterà i morti: in duemila anni non c’è un morto risuscitato». Per quale motivo? «A motivo della vostra poca fede», dice Gesù. Se infatti avessimo un minimo di fede, niente ci sarebbe impossibile. Ma evidentemente questo minimo di fede non lo abbiamo. Ed ecco allora la domanda: «Non sarà che per “risurrezione” Gesù intende qualcosa di diverso dalla rianimazione di un cadavere?». In realtà, come si vede, le domande sono due. La prima è: come mai la fede dei discepoli di Gesù è così microscopica che non è in grado di risuscitare nessuno? La seconda è: che cosa significa, propriamente, “risuscitare”?
Prima però di cercare di rispondere alle domande, ritengo opportuno fare un paio di precisazioni sui testi citati dal nostro lettore – non per essere pignoli o pedanti, ma perché su una questione così cruciale come la risurrezione è tanto più necessario attenersi strettamente a ciò che Gesù ha detto. Le precisazioni sono tre:
1) nel passo di Matteo 17,20 Gesù non dice che «chi crede in lui risusciterà i morti», ma che chi crede (“in lui” nel testo non c’è, e non è neppure presupposto) è in grado di spostare le montagne: cioè, che niente è impossibile a chi crede;
2) in Giovanni 11,25 Gesù dice: «Chi crede in me (qui si tratta propria della fede in Gesù), anche se muoia, vivrà...»: dice cioè che chi crede in Gesù risusciterà lui, non che risusciterà i morti;
3) tra le cose impossibili che chi ha un po’ di fede può compiere, secondo Gesù, si può – volendo – includere anche la risurrezione dei morti, però non è questo l’esempio che Gesù dà per illustrare il potere di Dio messo in movimento dalla fede: l’esempio è spostare le montagne, non risuscitare i morti. Perché? Evidentemente perché per un ebreo come Gesù la risurrezione dei morti è una prerogativa esclusiva di Dio. E’ significativo il fatto che quando l’evangelista Marco descrive «i segni che accompagneranno coloro che avranno creduto», ne menziona diversi – tutti segni prodigiosi – ma non menziona il potere di risuscitare i morti.
Fatte queste precisazioni, veniamo alle domande.
I. La prima domanda, drammatica, riguarda il fatto che la fede dei discepoli di Gesù, cioè dei cristiani di oggi, non sposta le montagne. “Spostare le montagne” era allora un detto comune per indicare una cosa impossibile. Come s’è visto, il nostro lettore include, tra la cose impossibili che la fede dovrebbe rendere possibili, anche la risurrezione dai morti, e osserva, giustamente, che nessun cristiano ha mai (che si sappia) risuscitato un morto. E’ normale, questo? No, non è normale, almeno non lo è per Gesù il quale, invece, la considera un’anomalia. La sua parola sulla fede grande o piccola come un granello di senape (la fede non è questione di quantità, ma di qualità) vuol dire che la fede normale compie miracoli nel senso che dove c’è fede succede l’impossibile, cioè l’impossibile diventa possibile. Questo pensa e dice Gesù. E allora, che cosa vuol dire il fatto che i suoi discepoli non riescono, con la loro fede, a “spostare le montagne”? Vuol dire tre cose.
[a] La prima è che la fede è indubbiamente rara non solo nel mondo, ma anche nelle chiese. Parlo della fede come l’hanno vissuta Gesù e coloro di cui parla il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei, dove leggiamo, tra le altre cose, che Abramo, «ritenendo che Dio è potente da far risuscitare dai morti», riebbe Isacco «per una specie di risurrezione» (11,19). E leggiamo anche che certe donne, a motivo della loro fede, «ricuperarono per risurrezione i loro morti» (11,34). Ma la nostra fede, in generale, non è a questo livello; essa rassomiglia piuttosto a quella del padre del fanciullo epilettico, il quale a Gesù che gli dice: «Ogni cosa è possibile a chi crede», risponde: «Io credo; vieni in aiuto alla mia incredulità» (Marco 9,24). Siamo, per così dire, credenti increduli, non molto di più di questo. Gesù stesso, come si sa, ha più volte rimproverato i suoi discepoli di essere non già “gente di fede”, ma “gente di poca fede”, e alla fine del suo ministero terreno gli è persino venuto questo dubbio: «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?» (Luca 18,8). La fede dunque è rara, perciò sono rari i miracoli (l’impossibile che diventa possibile), e perciò sono rare, anzi inesistenti, le risurrezioni. Che la fede sia rara è stato illustrato con una potenza espressiva eccezionale, nel film Ordet (la Parola), del celebre regista danese Carl Th. Dreyer, il cui tema è appunto la fede che risuscita i morti (ottenne il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia nel 1955). Si tratta originariamente di un’opera teatrale scritta dal pastore luterano e drammaturgo danese Kaj Munk (1898-1944), fucilato dai nazisti perché, con la sua predicazione, era diventato un esponente di spicco della Resistenza. Munk mette in scena una, anzi due famiglie luterane molto credenti. Il capofamiglia di una, il vecchio Borgen, è un vero modello di fede profondamente vissuta. Muore all’improvviso la giovane nuora e intorno alla sua bara si svolge il dramma di una fede che, pur essendo salda e profonda, non osa sfidare la morte e, alla fine, l’accetta. Sopraggiunge però Johannes, figlio di Borgen, che rimprovera i presenti (compreso il pastore) per la loro incredulità, li allontana dalla stanza, prende con sé per mano la bambina, si avvicina con lei alla bara e le chiede: «Credi tu che tua mamma possa rivivere?». «Sì, certo» risponde la bambina, e allora Johannes chiede a Dio: «Dammi la Parola!» – la Parola che crea la vita e la risuscita, e Dio gliela dà, ed egli la pronuncia, e la donna morta lentamente riprende vita. La fede della bambina e la Parola di Dio compiono l’impossibile. La fede è rara, ma quando c’è, l’impossibile diventa possibile.
[b] La seconda cosa che la parola di Gesù sulla fede che “sposta le montagne” vuol dire è un avvertimento: è molto facile scivolare, forse senza neppure accorgersene, dal piano della fede a quello della poca fede quando ci abituiamo a contare su Dio solo per le cose ordinarie della vita, e non per quelle straordinarie. Perdiamo allora coscienza della potenza di Dio e non osiamo chiedergli l’impossibile. Proiettiamo su Dio la nostra impotenza, dimenticando la parola di Gesù secondo cui «ogni cosa è possibile a Dio» (Matteo 19,26). Ovviamente, non è la fede che “sposta le montagne”, è Dio, ma appunto, aldilà della metafora, quel che Gesù vuol dire è che dobbiamo contare di più su Dio.
[c] C’è però un terzo significato della parola di Gesù, che è questo: le cose impossibili che, per la fede, diventano possibili, non sono solo quelle portentose come una risurrezione dai morti, ce ne sono tante altre, meno eccezionali ma non meno prodigiose, che succedono nella vita di tutti i giorni. I frutti della fede sono tanti, e non bisogna pensare che chi non risuscita i morti, non crede. L’apostolo Paolo, ad esempio, dice che la fede è «operante per mezzo dell’amore» (Galati 5,6), e anche Gesù ha riassunto tutta la vita della fede nel doppio comandamento dell’amore, per Dio e per il prossimo. Il che significa che il vero termometro della fede è l’amore. Se c’è amore nella tua vita, vuol dire che c’è fede. Se non c’è amore, è difficile che ci sia fede. Anche l’amore, tante volte, sposta le montagne.
II. La risposta alla seconda domanda è, tutto sommato, più facile. In parte la dà già, implicitamente, il nostro lettore ponendo il suo interrogativo finale. Solo in parte, però, perché sembra che egli tenda a escludere che “risurrezione” possa significare, per Gesù, anche la “rianimazione di un cadavere”. Che invece significhi anche questo, è dimostrato in maniera lampante dalla risurrezione di Lazzaro che, nel racconto dell’evangelista Giovanni (cap. 11), non ha nulla di simbolico, ma è terribilmente concreta. Non vuole illustrare un’idea, ma ridare la vita a una persona. Non si tratta di “rianimare un cadavere”, ma di strappare alla morte un amico, per il quale Gesù “pianse” (v. 35), tanto che i Giudei dicevano: «Guarda come l’amava!». Che cosa significa allora “risuscitare”? Significa anzitutto “rinascere” in tutti i sensi, passando dal “vecchio” della nostra natura al “nuovo” di Cristo. La fede è l’inizio della risurrezione. Ma poi “risuscitare” significa anche entrare nella vittoria di Cristo sulla morte – la grande vittoria di Pasqua – in virtù della quale il nostro corpo mortale è “rivestito” con il vestito dell’immortalità, affinché «ciò che è mortale sia assorbito dalla vita» (II Corinzi 5,4). Perché in Dio «vivono tutti» (Luca 20,38).

Biografia

Paolo Ricca nasce a Torre Pellice (in provincia di Torino) nel 1936. Dopo aver conseguito la maturità classica a Firenze, studia Teologia a Roma, negli Stati Uniti e a Basilea (Svizzera), ove consegue il dottorato con una tesi sull’escatologia del Vangelo secondo Giovanni.
Consacrato pastore della Chiesa valdese nel 1962, esercita il ministero a Forano e a Torino, e segue il Concilio Vaticano II per conto dell’Alleanza Riformata Mondiale. Dal 1976 al 2002 insegna Storia della Chiesa e, per alcuni anni, Teologia Pratica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma.
Membro per quindici anni della Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Ginevra), opera in diversi organismi ecumenici ed è per due mandati presidente della Società Biblica in Italia.
Attualmente è professore ospite presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma e dirige la collana “Lutero. Opere scelte” dell’editrice Claudiana di Torino.
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