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Il dolore giunge silenzioso

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14/12/2016

Tratto da:
Attila József, Poesie scelte, Lithos 2005

Guida alla lettura

Questa splendida lirica di Attila József, poeta ungherese del XX secolo, ritrae senza enfasi l’essenza profonda del dolore quotidiano. Nulla di eroico o di epico: il dolore è grigio, silenzioso, senza lacrime, come spesso senza lacrime restiamo noi, quando una sofferenza devastante ci afferra l’anima; ha spalle fragili, come i nostri giorni e i nostri sogni; ha un vestito scuro e consumato, non appariscente, povero, come poveri e senza difese siamo spesso noi di fronte alla potenza oscura del male. Porta un orologio che scandisce inesorabile il tempo che passa e che dissolve le nostre vite. Questo dolore è come un postino, bussa alla nostra porta quando meno ce lo aspettiamo, e ha qualcosa per noi: una malattia, una perdita, una cattiva notizia.
Ma è il poeta stesso, con la sua vita e le sue parole, che ci propone un rimedio al pessimismo senza fine che sembra emergere dai suoi versi. Il tenero ricordo della madre, l’amore per il prossimo, la fiducia nell’energia della giovinezza lo hanno sempre sostenuto durante la sua breve vita, e ci insegnano che anche noi possiamo trovare forza nelle qualità delle relazioni, nella memoria grata dei doni ricevuti, nella consapevolezza di essere chiamati a impiegare con responsabilità il tempo che ci è assegnato.
Il dolore è un postino grigio, silenzioso,
col viso asciutto, gli occhi d’un azzurro chiaro,
dalle sue spalle fragili pende
la borsa, il vestito è scuro e consumato.
Nel suo petto batte un orologio
da pochi soldi; timidamente sguscia
di strada in strada, si stringe
ai muri delle case, sparisce in un portone.
Poi bussa. E ha una lettera per te.

Biografia

E’ quasi sconosciuto, se paragonato ai grandi nomi della poesia mondiale, ma è stato uno dei maggiori autori di liriche nel Vecchio Continente in un periodo – quello della prima guerra mondiale, della rivoluzione bolscevica, della nascita delle dittature – che ha segnato la vita di milioni di persone. «Oh Europa, quante piaghe porti in te», scriverà assistendo a questi eventi. Attila József, ungherese, nato a Budapest nel 1905 e morto sulle rive del lago Balaton nel 1937, ha una vita difficile e dura già dalla prima infanzia. E’ figlio di un operaio e di una lavandaia. Abbandonato dal padre a tre anni, finisce adottato in una famiglia che lo fa lavorare trattandolo come un servo: contadini che lo mettono a pane e acqua nella fattoria. Una sorta di Oliver Twist ungherese. Ha condizioni di vita estreme, riesce a fuggire e torna dalla madre, che però muore di stenti a 43 anni. Pensando a lei, scriverà versi di acuta sofferenza: «Mia madre era gracile e morì giovane / le lavandaie muoiono presto / le gambe tremano sotto i carichi / e la testa fa male dallo stirare. / Dense nuvole di vapore, / montagne di biancheria sporca / e per cambiar aria / il solaio».
Nonostante le difficoltà, riesce a studiare con profitto. Va anche all’università, ma viene cacciato per alcune pagine d’insofferenza al regime. Fa mille mestieri: da bambino il guardiano dei maiali, poi il facchino nei cinema, il costruttore di giocattoli, il mozzo sulle navi, lo strillone di giornali, il contabile. Meno che l’intellettuale, il letterato, come sognava di essere. Ma nonostante sia nato all’inizio di un secolo tormentato e insanguinato, di un secolo “breve” come la sua breve vita, 32 anni appena, non ha mai rinunciato a scrivere, quasi da autodidatta, poesie che non sono mai dichiaratamente di protesta, rivoluzionarie, insurrezionistiche (dopo essersi iscritto al partito comunista ungherese non fece mai carriera e venne espulso per scarsa adesione all’ortodossia), come si potrebbe pensare, ma esistenzialistiche, rivolte alla fatica di vivere, alla miseria di ciascuno, alla condizione umana, tanto che ancora oggi gli studiosi si chiedono se Attila József sia vissuto più con uno spirito francescano o giacobino.
Se c’è un poeta travolto dal suo tempo, ma capace di raccontare il dolore umano visto soprattutto da una prospettiva interiore, questo è Attila József: «Non ho padre né madre / né Dio né patria / né culla né sepolcro / né amante né baci. / E’ da tre giorni che non mangio / ma sono potere i miei vent’anni / sono la mia forza i miei vent’anni». Una vita non felice, in un turbine di cambiamenti epocali per le masse povere di inizio Novecento. Resta, come giustamente è stato scritto di questo poeta, la capacità di difendere sì i contadini, sì i diseredati, sì le lavandaie come sua madre, ma non con una poesia politica, di lotta di classe, ma con liriche di struggente amore per il prossimo, che va difeso in quanto uomo: «Il volto di ciascuno è una piccola periferia», dice un suo verso.
E su una ferrovia di periferia l’hanno trovato morto. Una piccola stazione di campagna. Si è steso sui binari mentre passava il treno? Li stava attraversando? Si è addormentato? Non lo sapremo mai, con lui non c’era nessuno. Però oggi, nell’Ungheria di Viktor Orbán, che ha fatto togliere la sua statua dalla piazza del Parlamento, Attila József resta un simbolo della libertà di espressione.
(A cura di Pino Pignatta)
Attila József
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