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Il ricordo di mia madre

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08/02/2017

Tratto da:
Attila József, Poesie scelte, Lithos 2005

Guida alla lettura

In questa lirica Attila József, poeta ungherese vissuto nella prima metà del Novecento, ricorda la madre: la sua fatica quotidiana di lavandaia, la sua indifferenza per il poeta ancora bambino, la sua morte precoce. E la immagina in paradiso, ancora intenta al suo lavoro, mentre il colore del cielo si confonde con quello del turchinetto, la sostanza che un tempo le donne usavano per dare alla biancheria una tonalità bianco-azzurra.
Il poeta prova una nostalgia quieta: il suo rimpianto non ha sussulti né grida, solo lacrime silenziose. Grava sul suo animo la consapevolezza di un tempo irrimediabilmente trascorso, di un’occasione di vita e di amore perduta per sempre. E’ lo stesso sentimento che anima altri versi immortali: «Forse sparirò d’improvviso, / come le impronte nel bosco. / Ho sperperato tutto ciò / di cui dovrei rendere conto. (...) La giungla verde della mia giovinezza / credevo libera ed eterna, / ed ora con lacrime negli occhi ascolto / tra i rami secchi il rumore del vento».
Anche nelle nostre vite, a volte, l’immenso potenziale di un amore scolora nella banalità, nell’uniforme ripetersi di giorni tutti uguali. E quando il ricordo si fa nitido, e nasce il desiderio di rivivere il passato con altra intensità, ci accorgiamo con sgomento che «è tardi». Esercitiamo dunque il nostro cuore a percepire la verità e la ricchezza delle relazioni di cui il destino ci fa dono, per viverle qui e ora con l’intensità che esigono. Gli uomini di fede dicono che, alla fine dei tempi, resterà per ciascuno di noi solo l’amore dato e ricevuto: accogliamolo dunque con gioia, e coltiviamolo con acribia, per fare della vita un cammino capace di non deluderci.
Da una settimana penso solo alla mamma,
sempre di nuovo mi fermo a ricordarla.
Lei che saliva in soffitta,
con un cesto pesante in mano, lesta.
Io ero ancora un uomo sincero,
urlavo e scalpitavo
che lasciasse il bucato ad un altro,
che portasse me lassù, in alto.
Ma lei andava e stendeva
Non mi sgridava, non mi guardava,
E i panni lucidi, fruscianti
Spiccavano il volo in alto.
Non piangerei più adesso, ma è tardi,
Vedo solo ora quanto è grande,
I suoi capelli grigi si muovono nell’alto,
scioglie il turchinetto nell’acqua del cielo.

Biografia

E’ quasi sconosciuto, se paragonato ai grandi nomi della poesia mondiale, ma è stato uno dei maggiori autori di liriche nel Vecchio Continente in un periodo – quello della prima guerra mondiale, della rivoluzione bolscevica, della nascita delle dittature – che ha segnato la vita di milioni di persone. «Oh Europa, quante piaghe porti in te», scriverà assistendo a questi eventi. Attila József, ungherese, nato a Budapest nel 1905 e morto sulle rive del lago Balaton nel 1937, ha una vita difficile e dura già dalla prima infanzia. E’ figlio di un operaio e di una lavandaia. Abbandonato dal padre a tre anni, finisce adottato in una famiglia che lo fa lavorare trattandolo come un servo: contadini che lo mettono a pane e acqua nella fattoria. Una sorta di Oliver Twist ungherese. Ha condizioni di vita estreme, riesce a fuggire e torna dalla madre, che però muore di stenti a 43 anni. Pensando a lei, scriverà versi di acuta sofferenza: «Mia madre era gracile e morì giovane / le lavandaie muoiono presto / le gambe tremano sotto i carichi / e la testa fa male dallo stirare. / Dense nuvole di vapore, / montagne di biancheria sporca / e per cambiar aria / il solaio».
Nonostante le difficoltà, riesce a studiare con profitto. Va anche all’università, ma viene cacciato per alcune pagine d’insofferenza al regime. Fa mille mestieri: da bambino il guardiano dei maiali, poi il facchino nei cinema, il costruttore di giocattoli, il mozzo sulle navi, lo strillone di giornali, il contabile. Meno che l’intellettuale, il letterato, come sognava di essere. Ma nonostante sia nato all’inizio di un secolo tormentato e insanguinato, di un secolo “breve” come la sua breve vita, 32 anni appena, non ha mai rinunciato a scrivere, quasi da autodidatta, poesie che non sono mai dichiaratamente di protesta, rivoluzionarie, insurrezionistiche (dopo essersi iscritto al partito comunista ungherese non fece mai carriera e venne espulso per scarsa adesione all’ortodossia), come si potrebbe pensare, ma esistenzialistiche, rivolte alla fatica di vivere, alla miseria di ciascuno, alla condizione umana, tanto che ancora oggi gli studiosi si chiedono se Attila József sia vissuto più con uno spirito francescano o giacobino.
Se c’è un poeta travolto dal suo tempo, ma capace di raccontare il dolore umano visto soprattutto da una prospettiva interiore, questo è Attila József: «Non ho padre né madre / né Dio né patria / né culla né sepolcro / né amante né baci. / E’ da tre giorni che non mangio / ma sono potere i miei vent’anni / sono la mia forza i miei vent’anni». Una vita non felice, in un turbine di cambiamenti epocali per le masse povere di inizio Novecento. Resta, come giustamente è stato scritto di questo poeta, la capacità di difendere sì i contadini, sì i diseredati, sì le lavandaie come sua madre, ma non con una poesia politica, di lotta di classe, ma con liriche di struggente amore per il prossimo, che va difeso in quanto uomo: «Il volto di ciascuno è una piccola periferia», dice un suo verso.
E su una ferrovia di periferia l’hanno trovato morto. Una piccola stazione di campagna. Si è steso sui binari mentre passava il treno? Li stava attraversando? Si è addormentato? Non lo sapremo mai, con lui non c’era nessuno. Però oggi, nell’Ungheria di Viktor Orbán, che ha fatto togliere la sua statua dalla piazza del Parlamento, Attila József resta un simbolo della libertà di espressione.
(A cura di Pino Pignatta)
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